Capitolo ventisettesimo
Nella memoria è rimasta solo l’immagine
visiva
Quando arrivò la mia
amante, le raccontai della casa di Menshiki e della cena. Non le
parlai, ovviamente, di Akikawa Marie, del binocolo a treppiede
sulla terrazza, né della presenza discreta del Commendatore. Mi
limitai a descriverle i piatti che erano stati serviti, la
disposizione delle stanze, l’arredamento… cose senza importanza,
insomma. Eravamo a letto, nudi. Avevamo fatto l’amore per una
mezz’ora. All’inizio, al pensiero che il Commendatore si trovava
forse lí da qualche parte e ci vedeva, mi ero sentito un po’ a
disagio, poi me ne ero scordato del tutto. Guardasse pure, se ne
aveva voglia.
Lei voleva conoscere
ogni dettaglio di quella cena, come un tifoso che vuole sapere
tutto della partita giocata il giorno prima dalla squadra del
cuore, ogni mossa, ogni punto conquistato. Le descrissi
scrupolosamente tutto quello che mi ricordavo, dagli stuzzichini
iniziali fino al dessert, le elencai i vini e le parlai persino del
caffè. Del vasellame e delle stoviglie. Per natura sono dotato di
una buona memoria visiva. Una volta che ho osservato qualcosa con
attenzione, me lo ricordo in ogni particolare, anche a distanza di
tempo. Ecco perché riuscivo a ricreare per lei la scena, come se ne
facessi un rapido schizzo. Lei ascoltava incantata. Ogni tanto
deglutiva emozionata.
– Wow, fantastico, –
disse poi, come in estasi. – Anch’io una volta vorrei fare una cena
cosí.
– Sí, ma se devo dire la
verità, non è che proprio mi ricordi che gusto avesse, il
cibo.
– Non ti ricordi che
gusto avesse, davvero? Però era buono, no?
– Sí, buonissimo. Questo
lo ricordo. Ma il sapore dei singoli piatti l’ho scordato, né
saprei descriverlo.
– Nella tua memoria è
rimasta solo l’immagine visiva.
– Esatto. Perché sono un
pittore. Potrei raffigurare fedelmente tutti i piatti che sono
stati serviti. È il mio lavoro. Ma non saprei descriverne il gusto.
Forse uno scrittore saprebbe farlo.
– Che strano… – disse
lei. – Quindi potresti dipingere in dettaglio quello che noi
facciamo qui, ma non raccontarlo a parole?
Cercai di capire bene la
sua domanda.
– Vuoi dire il piacere
sessuale? – chiesi.
– Sí.
– Può darsi. Può darsi
che sia come dici tu. Se paragoniamo il sesso al cibo, però, mi
sembra che il piacere che dà il primo sia piú facile da descrivere
di quello che dà il secondo.
– Questo significa, –
proseguí lei, nella voce risuonava il freddo di quella serata di
inizio inverno, – che il piacere che condividi con me non è
profondo e sottile come il gusto delle cose che hai mangiato dal
signor Menshiki?
– No, non è quello che
voglio dire, – mi affrettai a rassicurarla. – Non mi fraintendere.
Parlavo solo del diverso grado di difficoltà che comporta
descrivere l’una e l’altra cosa, in senso tecnico.
– Vabbè, lasciamo
perdere… anche quello che ti do io non è niente male, no? In senso
tecnico.
– Ovvio, è stupendo, –
risposi. – In senso tecnico e in tutti gli altri sensi possibili.
Al punto che mi sarebbe difficile dipingerlo.
Ero sincero, non potevo
certo lamentarmi del piacere fisico che lei mi dava. Fino ad allora
avevo avuto rapporti con un certo numero di donne − non tante da
potermene vantare − ma nessuna di loro era tanto dotata e versatile
dal punto di vista erotico. Era davvero un peccato che fosse stata
trascurata per tanto tempo. Quando glielo dissi, non parve
scontenta.
– Non mi stai prendendo
in giro?
– Non ti sto prendendo
in giro.
Mi scrutò un momento,
sospettosa. Poi parve tranquillizzarsi.
– E il garage? Te l’ha
mostrato?
– Il
garage?
– Sí, quello dove tiene
le sue quattro automobili inglesi. Quel suo garage
leggendario.
– No, non me l’ha
mostrato. Sai, la casa è enorme, non potevo mica vedere anche il
garage!
– Ah. Allora non sai se
ha davvero una Jaguar E?
– No, non gliel’ho
chiesto. Non mi è neanche venuto in mente. In realtà le macchine
non mi interessano molto.
– Ti va bene la tua
Toyota Corolla di seconda mano?
–
Benissimo.
– A me piacerebbe, una
volta, salire su una Jaguar E. Che macchina da sogno! Da bambina ho
visto un film con Audrey Hepburn e Peter O’Toole, e da allora l’ho
sempre adorata. Nel film Peter O’Toole ne ha una nuova fiammante.
Era… oddio, di che colore era? Gialla, credo.
Mentre lei riandava col
pensiero alla fuoriserie che aveva visto da bambina in un film, a
me venne in mente l’uomo con la Subaru Forester. Dal mio punto di
vista, non la potevo certo definire una bella macchina. Era un
normalissimo Suv di media cilindrata, una macchina tozza costruita
soprattutto per essere comoda da usare. Probabilmente non c’erano
molte persone che sognassero di salirci almeno una volta nella
vita. Al contrario di una Jaguar E.
– Non ti ha nemmeno
fatto vedere la sauna? O la palestra? – mi chiese ancora lei,
sempre interessata alla casa di Menshiki.
– No. Né la sauna, né la
palestra, né la lavanderia, né l’alloggio della domestica, né la
cucina, né il ripostiglio da sei tatami, né la sala del biliardo…
non mi ha mostrato niente. Mica mi ha fatto fare un giro
turistico!
Quella sera Menshiki
aveva qualcosa di molto grave di cui mi voleva parlare a tutti i
costi. Non era certo in vena di fare da cicerone in casa
sua!
– Davvero c’è un
ripostiglio che misura sei tatami? E una sala da
biliardo?
– Non ne ho idea. Me lo
sono solo immaginato. Ma non mi stupirei che ci fossero
davvero.
– Quindi hai visto solo
lo studio?
– Be’, sai, a me non è
che interessino molto l’arredamento, il design… ho visto lo studio,
il salotto e la sala da pranzo. E l’ingresso.
– E la stanza segreta di
Barbablú? Non hai trovato nessun indizio?
– E come facevo? Gli
chiedevo: «A proposito, signor Menshiki, ma quella sua famosa
stanza segreta, dove si trova?»
La mia amante fece
schioccare la lingua con aria delusa, scuotendo la
testa.
– Certo che siete
proprio negati, voi uomini, per certe cose! Ma non sei curioso? Io,
al tuo posto, avrei perlustrato tutta la casa, da un angolo
all’altro, mi sarei fatta mostrare tutto.
– Forse uomini e donne
non nutrono curiosità per le stesse cose.
– Pare proprio di no, –
disse lei rassegnata. – Ma fa lo stesso, mi hai già detto tante
cose, su quella villa… Chiudiamo il discorso.
Intanto io cominciavo a
preoccuparmi.
– Senti, deve restare
fra di noi, quello che ti ho raccontato. Se si viene a sapere, se
se ne parla in giro, potrei avere dei problemi. Tu e le tue
amiche…
– Tranquillo, non
fiaterò, – disse lei in tono allegro.
Poi prese in silenzio la
mia mano e se la portò tra le gambe, sul clitoride. Era cosí che
allargavamo il campo delle nostre rispettive curiosità. Passò
ancora un po’ di tempo prima che uscissimo dalla camera da letto.
Mi sembrò di sentir tintinnare piano la campanella nello studio, ma
forse mi sbagliavo.
Poco prima delle tre lei
tornò a casa sulla sua Mini rossa, io andai nell’atelier, afferrai
la campanella e l’osservai. Non mi sembrava diversa dal solito. Se
ne stava tranquilla al suo posto. Mi guardai attorno per
controllare se non ci fosse per caso il Commendatore, ma non lo
vidi.
Allora andai davanti al
cavalletto, mi sedetti sullo sgabello e guardai il ritratto appena
iniziato, L’uomo con la Subaru
Forester bianca. Dovevo decidere in
che modo andare avanti. Peccato che non riuscissi a trovare uno
spunto, che non mi venisse un’idea. Perché il quadro era già
finito.
Cioè, in realtà era
ancora in fase di creazione, questo era ovvio. Le idee che
suggeriva avrebbero dovuto trovare forma concreta una per una. Per
il momento sulla tela era solo dipinto grossolanamente il viso
dell’uomo, in tre colori. Ma ai miei occhi, su quella tela emergeva
già l’immagine dell’uomo con la Subaru bianca. In maniera quasi
subliminale, come in un’illusione ottica. Nessuno all’infuori di me
l’avrebbe notato. Si trattava solo di un abbozzo. Conteneva
suggestioni, segnali di ciò che prima o poi sarebbe dovuto
apparire. Il fatto era, però, che quell’uomo sembrava essere
soddisfatto dell’immagine di lui che avevo solo lasciato intuire.
Anzi, si sarebbe detto che non desiderasse essere raffigurato in
maniera piú chiara.
«È sufficiente, va già
bene cosí!» mi gridava dal fondo della tela. Era un ordine. Non
dovevo aggiungere altro.
Insomma, il quadro era
finito, pur senza esserlo. Quell’uomo, nella sua forma incompiuta,
era compiuto. Questa formula contraddittoria era l’unico modo che
trovavo per descriverlo. E la sua figura nascosta nel quadro
comunicava con me, che l’avevo creata. Stava cercando di spiegarmi
qualcosa, che però non riuscivo ancora a capire. Intuivo soltanto
che era vivo… era vivo e agiva.
Malgrado i colori non
fossero ancora asciutti, tolsi il quadro dal cavalletto e lo
appoggiai contro il muro in un angolo, voltato dall’altra parte
perché non si rovinasse. Non sopportavo piú di vederlo, ero
arrivato a questo punto. Mi sembrava che contenesse qualcosa di
funesto, qualcosa che era meglio che non sapessi.
Dalla tela si effondeva
l’atmosfera di quel porto ittico nella prefettura di Miyagi.
L’odore della bassa marea, di squame di pesce e motori diesel. Gli
uccelli marini che volteggiavano levando alte strida e roteavano
lentamente nel vento. Quell’uomo di mezz’età che portava un
berretto nero da golf, anche se probabilmente su un campo da golf
non ci aveva mai messo piede. La faccia abbronzata, i capelli sale
e pepe, tagliati corti. Il giubbotto di pelle consumato. Il rumore
di stoviglie nel ristorante − lo stesso rumore impersonale che si
sente in tutti i ristoranti di quel tipo nel mondo. Poi la Subaru
Forester bianca ferma nel parcheggio, con l’adesivo di un
pescespada attaccato al paraurti posteriore…
– Colpiscimi, – mi aveva
detto la ragazza mentre facevamo sesso, conficcandomi le unghie
nella schiena. Sentivo l’odore intenso del suo sudore. Obbedii. Le
diedi uno schiaffo sul viso.
– No, non cosí. Dài,
colpiscimi sul serio, – fece lei scuotendo la testa in modo
scomposto. – Picchiami con tutte le tue forze. Non fa niente se mi
lasci dei segni. Se perdo sangue dal naso.
Io però non avevo alcuna
voglia di picchiarla. Per carattere, non sono portato alla
violenza. Non sono un tipo violento. Ed ecco che questa donna
voleva essere colpita «sul serio»! Cercava il dolore fisico. Non
potei far altro che colpirla un po’ piú forte. Tanto da lasciarle
dei segni rossi sulle guance. Ad ogni schiaffo, sentivo la sua
carne contrarsi intorno al mio pene. Mi pareva di trovarmi davanti
a un animale famelico che si avventa sul cibo.
– Ora… ora stringimi un
poco il collo, – mi sussurrò all’orecchio. – Usa questa, – disse
prendendo da sotto il cuscino la cintura bianca dell’accappatoio.
Evidentemente l’aveva messa lí già prima. Avevo l’impressione che
la sua voce mi arrivasse da un’altra dimensione.
Rifiutai. Anche se era
lei a chiedermelo, non le avrei mai fatto una cosa del genere. Era
pericoloso. Se qualcosa andava storto, poteva morire.
– Basta che fai finta, –
mi supplicò lei ansimando. – Non fa niente se non stringi davvero,
basta che fai finta. Mettimi questa intorno al collo e stringi
appena appena.
Anche a questa preghiera
non avevo saputo dire di no.
Già, il rumore
impersonale di stoviglie che si sente nei ristoranti per
famiglie…
Scossi la testa. Il
ricordo di quella notte mi metteva a disagio, cercai di
allontanarlo. Avrei dovuto dimenticarlo per sempre. Eppure il
ricordo era vivido come la sensazione della cintura di spugna tra
le mani. Del collo di quella ragazza sconosciuta. Come avrei potuto
dimenticarlo?
E quell’uomo sapeva
tutto. Dov’ero stato quella notte, cos’avevo fatto. Cos’avevo
pensato.
Quanto al quadro, dove
potevo metterlo? Lasciarlo cosí, voltato, contro il muro? Mi
sarebbe bastato non vederlo per sentirmi a posto? Se volevo
togliermelo da davanti agli occhi, c’era soltanto il sottotetto.
Dove Amada Tomohiko aveva nascosto L’assassinio del Commendatore. Sembrava il luogo ideale per seppellire i propri
sentimenti.
Ripetei mentalmente le
parole che avevo detto poco prima: «È perché sono un pittore che
potrei raffigurare fedelmente tutti i piatti che sono stati
serviti. Ma non saprei descriverne il gusto».
In quella casa, tanti
fenomeni inspiegabili finivano, poco per volta, uno dopo l’altro,
per incrociare la mia vita. Il quadro di Amada Tomohiko che avevo
trovato nel sottotetto, la strana campanella lasciata nella cripta
di pietra nel bosco, l’«idea» che mi appariva prendendo l’aspetto
del Commendatore, e infine l’uomo di mezz’età con la Subaru
Forester bianca. Per non parlare di quell’enigmatico uomo dai
capelli bianchi che viveva dall’altra parte della valle, Menshiki,
che mi aveva coinvolto nel piano che aveva in mente.
Ero preso in un vortice
che ruotava sempre piú veloce. Un vortice spaventosamente
silenzioso. Non riuscivo piú a resistere alla corrente, era troppo
tardi. L’anomala assenza di rumore mi terrorizzava.