Capitolo quattordicesimo
Di cose strane ne ho viste e sentite davvero tante, ma come questa, mai
Menshiki e io smettemmo di parlare e restammo immobili, in ascolto.
Gli insetti tacevano. Si ripeteva la stessa cosa delle notti precedenti. Di nuovo, nell’improvviso e profondo silenzio che si era spalancato nell’oscurità, udii il flebile suono della campanella. Alcuni rintocchi, pause di durata diversa, altri rintocchi. Guardai Menshiki, seduto di fronte a me. E dalla sua espressione capii che quel suono lo sentiva anche lui. Una ruga gli si era formata fra le sopracciglia aggrottate. Staccò le mani dalle ginocchia e le rivolse verso l’alto, muovendo appena le dita al ritmo dei rintocchi. Dunque non era una mia illusione uditiva!
Dopo aver ascoltato quel suono per due o tre minuti, Menshiki si alzò lentamente.
– Andiamo a vedere, – disse con voce secca, – da dove arriva il suono.
Presi la torcia elettrica. Lui uscí dalla porta d’ingresso e andò a prendere nella Jaguar quella che si era portato appositamente per questa avventura, piú grande della mia. Salimmo i sette gradini di pietra e ci inoltrammo nel bosco. La luna autunnale era meno luminosa della notte precedente, ma rischiarava a sufficienza il terreno ai nostri piedi. Passammo dietro il tempietto e avanzammo attraverso le piume della pampa fino al tumulo. Poi tendemmo di nuovo l’orecchio. Il suono misterioso usciva dalle fessure tra le pietre, non c’era ombra di dubbio.
Menshiki fece un lento giro intorno al tumulo, dirigendo con precisione il fascio di luce della sua torcia negli interstizi fra una pietra e l’altra. Ma non trovò nulla di anomalo. Solo vecchi massi coperti di muschio, accatastati senza metodo. Mi guardò. Al chiarore lunare, la sua faccia sembrava un’antica stampa. Ma forse la mia gli faceva lo stesso effetto.
– Anche le altre notti il suono proveniva da qui? – mi chiese a bassa voce.
– Sí, il posto è lo stesso, – risposi. – Esattamente lo stesso.
– Si direbbe che qualcuno, qui sotto, faccia tintinnare una campanella o qualcosa del genere.
Con la testa feci cenno che ero d’accordo. Era rassicurante constatare che non avevo sognato, ma al tempo stesso dovevo riconoscere che le parole di Menshiki rendevano certa una possibilità che avevo solo ipotizzato, e questo creava come uno sfasamento, un distacco dal mondo reale.
– Allora cosa dobbiamo fare? – gli chiesi.
Per un po’ lui continuò a illuminare il punto da dove sembrava venire il suono. Le labbra serrate, pareva riflettere. Nella quiete della notte, avrei detto di riuscire a sentire il rumore del suo cervello che lavorava a tutta velocità.
– Potrebbe anche essere qualcuno che chiede aiuto, – disse come parlando a se stesso.
– Ma chi potrebbe mai infilarsi sotto questo cumulo di pietre pesantissime?
Menshiki scosse la testa: nemmeno lui aveva una risposta.
– Per il momento andiamo via, – disse dandomi un colpetto sulla spalla. – Almeno abbiamo capito da dove arriva il suono. Di tutto il resto possiamo parlare tranquillamente da lei.
Uscimmo dal bosco e ci fermammo sullo spiazzo davanti all’ingresso di casa. Menshiki aprí la portiera della Jaguar, gettò dentro la torcia e prese dal sedile una busta di carta. Entrammo in casa insieme.
– Senta, avrebbe per caso del whisky? Ne berrei volentieri un sorso, – disse.
– Sí. Del normale Scotch, però. Le va bene?
– Benissimo. Liscio, per favore. E un bicchiere d’acqua senza ghiaccio.
Andai in cucina, presi da un armadietto la bottiglia di whisky, ne versai due dita in due bicchieri e li portai nel soggiorno insieme a una bottiglia d’acqua minerale. Seduti uno di fronte all’altro senza parlare, bevemmo il nostro whisky. Quando Menshiki terminò il suo, tornai in cucina a prendere la bottiglia e gliene versai un altro. Lui lo tenne in mano senza portarlo alle labbra. Nel silenzio si sentiva ancora, a tratti, tintinnare la campanella. Un suono flebile, eppure cosí denso di gravità che non lo si poteva ignorare.
– In vita mia, di cose strane ne ho viste e sentite davvero tante, ma come questa, mai, – esordí. – Quando lei me ne ha parlato, mi scusi, ma ci credevo solo a metà. Figuriamoci se sono cose che accadono nella realtà, ho pensato.
«Figuriamoci se sono cose che accadono nella realtà…» Interessante modo di esprimersi.
– Cioè? – chiesi. – Cosa vuole dire?
Menshiki alzò la testa e per qualche secondo mi guardò.
– Il fatto è che una volta, in un libro, ho letto di un fenomeno del tutto simile.
– Mi faccia capire. C’era scritto che in piena notte, da qualche parte, si sentiva il suono di una campanella?
– Ad essere precisi, era il suono di un gong. Quello che si usava anticamente nella musica di corte. Lo si suona colpendolo con una specie di pestello di legno, anche per accompagnare la recita del nenbutsu. Nel libro si diceva che la notte il suono di quel gong arrivava da sotto terra.
– Era una storia di fantasmi?
– Diciamo piuttosto un racconto fantastico. Ha letto Racconti della pioggia di primavera di Ueda Akinari? – mi chiese Menshiki.
Scossi la testa.
– No, non ancora. Di Ueda ho letto solo Racconti di pioggia e di luna, tanto tempo fa.
Racconti della pioggia di primavera l’ha scritto in età molto avanzata. Circa quarant’anni dopo aver terminato Racconti di pioggia e di luna. Ragion per cui in questa raccolta dà una grande importanza alla filosofia, mentre in Racconti di pioggia e di luna dava la priorità alla narrazione. In Racconti della pioggia di primavera c’è un racconto fantastico, Un legame che dura due vite, al cui protagonista succede qualcosa di simile a quanto sta accadendo a lei. È il figlio di una ricca famiglia di contadini. Gli piace studiare fino a tardi, e una notte, mentre sta leggendo, da sotto un masso in un angolo del giardino sente arrivare a tratti un suono che sembra quello di un gong. Trovando la cosa strana, il mattino dopo si fa aiutare da qualcuno a spostare la grossa pietra e a scavare, e sotto scopre una specie di bara. La apre, e dentro cosa vede? Un essere umano ridotto come un pesce secco, completamente scarnificato. I capelli gli arrivano alle ginocchia. Muove solo le braccia per battere un gong con un pestello di legno. È un monaco che è stato messo dentro una cassa e sepolto ancora vivo, ha scelto la morte al fine di accedere per l’eternità all’illuminazione. È una pratica che si chiama nyūjō. Il corpo mummificato viene dissotterrato e venerato in un tempio. Probabilmente si trattava di monaci eccezionali. La loro anima abbandonava il corpo e accedeva al nirvana. Nel racconto, la famiglia del protagonista viveva su quella terra già da dieci generazioni, quindi la cosa doveva essere successa ancora prima.
A questo punto Menshiki tacque.
– Cioè, vuole dire che in questa proprietà dev’essere accaduto qualcosa di simile? – gli chiesi.
– No, – rispose lui facendo un cenno di diniego. – Il buon senso ci dice che una cosa del genere nella realtà non può esistere. Un legame che dura due vite è solo un racconto fantastico scritto in epoca Edo. Ueda Akinari sapeva che quel genere di storie erano leggende popolari, ne ha scelta una e l’ha adattata a proprio modo al suo racconto. Tuttavia la vicenda narrata da lui in quelle pagine ha una strana somiglianza con il nostro caso.
Menshiki mosse leggermente il bicchiere che teneva in mano, facendo ondeggiare il liquido ambrato.
– E cosa succede, in quel racconto, dopo che quel monaco mummificato viene tirato fuori vivo? – gli chiesi.
– Be’, la storia prosegue in modo molto strano, – rispose lui con una certa riluttanza. – La visione particolare del mondo che Ueda Akinari aveva raggiunto alla sua veneranda età − chiamiamola pure una visione cinica − vi proietta tinte fosche. Ueda aveva avuto un’esistenza complicata, piena di problemi. Riguardo a quel racconto, però, preferirei che lei lo leggesse, per sapere come va a finire, piuttosto che sentire il breve riassunto che potrei fargliene io. Sarebbe molto meglio, mi creda.
Tolse dalla busta che aveva preso in macchina un volume molto vecchio e me lo porse. Era una raccolta di classici giapponesi. Di Ueda Akinari c’erano tutti i racconti compresi in Racconti di pioggia e di luna e Racconti della pioggia di primavera.
– Quando lei ieri mi ha parlato di quello che accadeva qui, mi è subito venuto in mente Un legame che dura due vite. Ce l’avevo nella libreria, e per scrupolo sono andato a rileggermelo. Il libro glielo regalo. Lo legga, se le va. Sono storie brevi, non ci metterà molto.
Accettai, ringraziando.
– Sí, è davvero strano quello che sta succedendo. Contrario ad ogni buon senso. Questi racconti naturalmente li leggerò con piacere. Libri a parte, però, non so proprio come comportarmi. Non mi sembra concepibile lasciare che le cose vadano avanti cosí, senza fare nulla. Se sotto quelle pietre c’è veramente qualcuno che ogni notte suona una campanella, un gong, o quello che è… se ogni notte lancia un segnale per chiedere aiuto, devo fare qualcosa per tirarlo fuori di lí, non posso abbandonarlo al suo destino.
– Sí, ma quelle pietre sono pesantissime, – fece Menshiki con espressione preoccupata. – Noi due soli non ce la faremo mai, a spostarle.
– Forse dovremmo avvertire la polizia…
Menshiki fece segno di no con la testa, piú volte.
– Tanto per cominciare, la polizia si rivelerebbe del tutto inutile, questo è sicuro. Se lei andasse a raccontare che sente il suono di una campanella uscire da sotto un mucchio di pietre nel bosco, in piena notte, non la starebbero neanche ad ascoltare. La prenderebbero per pazzo. E le cose si complicherebbero. Meglio lasciar perdere.
– Sí, ma se d’ora in poi quel tintinnio dovesse farsi udire ogni notte, non credo che i mei nervi reggerebbero. Non riuscirei piú a dormire e dovrei andarmene da questa casa. Quel suono è un appello, su questo non ho dubbi.
Concentrato, Menshiki rifletteva.
– Per spostare quelle pietre come si deve, ci vuole qualcuno del mestiere, – disse poi. – Conosco un architetto paesaggista della zona. Uno che ha iniziato da poco. Occupandosi di giardini, è abituato a maneggiare le rocce. Se glielo chiediamo, può mettere a nostra disposizione una piccola ruspa. Cosí non avremmo problemi a togliere di lí le pietre e scavare una buca.
– Sí, ha ragione lei. Prima però devo avere il permesso del figlio del padrone di casa, Masahiko. Non posso fare quello che mi pare e piace. Senza contare che io non posso certo permettermi di pagare un paesaggista.
Menshiki sorrise.
– Non si preoccupi per il denaro, – disse. – Per cosí poco, me ne incarico io. Oltre tutto, visto che mi deve anche un po’ di soldi, può darsi che ci chieda solo il rimborso delle spese vive. Non è una cosa di cui lei si debba preoccupare. Lei pensi solo a informare il signor Amada. Se gli spiega bene quello che sta succedendo, non c’è motivo perché non le dia il permesso. Mettiamo che davvero là sotto ci sia imprigionato qualcuno, e noi lo lasciassimo morire cosí, il signor Amada, in quanto proprietario del terreno, avrebbe la sua parte di responsabilità.
– D’accordo, ma io, capisce bene, ho qualche scrupolo a coinvolgere lei, signor Menshiki, che con questa storia non c’entra nulla…
Menshiki fece di nuovo il gesto di sollevare dalle ginocchia le mani e voltarle verso l’alto, come chi voglia ricevere la pioggia sui palmi.
– Come mi pare di averle già detto, sono un uomo molto curioso. E vorrei sapere a cosa ci porterà questa vicenda stranissima. Non è che io mi comporti sempre cosí. In ogni caso, ripeto, lei non deve pensare ai soldi. È un pensiero che può lasciare a me. Capisco le sue remore, ma almeno questa volta non si crei problemi inutili.
Guardai Menshiki negli occhi. Brillavano di una luce penetrante che non vi avevo mai visto. Una luce che tradiva il suo desiderio di sapere, a qualunque costo, come sarebbe andata a finire quella storia. Era cosí che quell’uomo viveva: se c’era qualcosa che non capiva, continuava a cercare finché non trovava la soluzione.
– D’accordo, – dissi. – Domani stesso chiamo Masahiko.
– E io prendo contatto con l’architetto paesaggista, – fece Menshiki. – A proposito, – aggiunse dopo una pausa, – c’è una cosa che volevo chiederle.
– Sí?
– A lei… come dire? A lei capita spesso, di fare esperienze fuori dal comune, tipo questa?
– No, è la prima volta in vita mia che mi succede, – risposi. – Sono una persona del tutto ordinaria che conduce una vita del tutto ordinaria. Ecco perché sono cosí disorientato. E lei, signor Menshiki?
Fece un sorriso ambiguo.
– A me è capitato diverse volte. Ho visto e sentito cose talmente strane, che una persona di buon senso non se le può neanche immaginare. Non strane fino a questo punto, però.
Poi restammo in silenzio, ad ascoltare il suono di quella campanella. Come le altre volte, poco dopo le due e mezzo cessò. E il coro degli insetti tornò a riempire la valli e i monti.
– Per stasera tolgo il disturbo, – disse Menshiki. – La ringrazio per il whisky. Se non ha nulla in contrario, mi farò sentire presto.
Alla luce della luna salí sulla sua splendente Jaguar argento e se ne andò, facendomi ancora un piccolo gesto di saluto con la mano dal finestrino aperto. Lo salutai anch’io. Quando il rombo del motore che percorreva la discesa si perse in lontananza, pensai che nonostante il bicchiere di whisky (il secondo non l’aveva toccato), non sembrava affatto alterato, né nel colore del viso né nell’eloquio. Come se avesse bevuto acqua fresca. Evidentemente reggeva molto bene l’alcol. Inoltre non aveva una lunga distanza da percorrere. E su quella strada che usavano solo gli abitanti del posto, a quell’ora di notte non rischiava di incontrare automobili e persone che venivano in direzione opposta.
Rientrai in casa, misi i bicchieri nel lavello della cucina e andai a letto. Provai a immaginare degli operai che venivano e spostavano le pietre dietro il tempietto con l’aiuto di una ruspa, scavavano una buca. Non mi sembrava una scena reale. E prima di tutto questo, dovevo anche leggere il racconto di Ueda Akinari Un legame che dura due vite. Ma rimandai all’indomani. Alla luce del giorno, tutto sarebbe apparso diverso. Spensi la lampada sul comodino e mi addormentai ascoltando il canto degli insetti.
Il mattino dopo chiamai Masahiko alle dieci, e gli spiegai la situazione. Non gli parlai di Ueda Akinari, ma gli dissi che avevo chiesto a un conoscente di venire da me in piena notte, per essere sicuro di non essere vittima di un’illusione uditiva.
– Che strana storia, – fu il commento di Masahiko. – Ma pensi veramente che sotto quelle pietre ci sia qualcuno che suona una campanella?
– E chi lo sa! Però bisogna fare qualcosa. Perché il suono si sente davvero, e ogni notte.
– E se fosse… qualcosa di soprannaturale?
– Qualcosa di soprannaturale? In che senso?
– Non saprei. Una presenza di una qualche natura… non sarebbe piú prudente lasciarla sepolta lí tranquilla?
– Vorrei che una volta venissi qui in piena notte, e sentissi anche tu quel suono. Ti renderesti conto che non si può far finta che non esista, te l’assicuro.
Sentii Masahiko sospirare.
– No, io preferisco tenermene alla larga, – disse poi. – Quel posto mi ha sempre fatto paura, fin da quando ero piccolo. Aborro le storie di fantasmi. Non voglio averci nulla a che fare. Occupati tu di tutto. Sposta le pietre nel bosco, scava una buca… fai come vuoi, non potrebbe importarmene di meno. Ti lascio carta bianca. Però mi raccomando, cerca solo di non tirar fuori da là sotto qualcosa di strano…
– Non so come finirà, tutto questo. Appena riesco a capirci qualcosa, ti chiamo.
– Sí, ma sappi che io mi tapperò le orecchie.
Messo giú il telefono, andai a sedermi nel soggiorno e lessi Un legame che dura due vite. Prima l’originale in giapponese antico, poi la versione moderna. Menshiki aveva ragione: a parte alcuni dettagli, nel complesso la storia era molto simile al fenomeno di cui ero testimone io in quella casa. Nel racconto, il suono del gong si fa sentire verso l’ora del Bue. Circa le due del mattino, quindi l’orario coincideva. Quella che sentivo io però era una campanella. Un’altra differenza è che nel racconto gli insetti non tacciono di colpo. Il protagonista sente il gong insieme al loro verso. Le differenze comunque erano solo queste. Per il resto, c’era da restare a bocca aperta, tanto le due storie erano simili.
Il monaco mummificato che viene tirato fuori dalla bara è rinsecchito, ma solleva le braccia per colpire ossessivamente il gong. Con un’energia vitale spaventosa che lo fa muovere come un automa. Recitando il nenbutsu e suonando il gong, nessun dubbio che abbia raggiunto l’illuminazione. Il protagonista lo veste, gli versa dell’acqua fra le labbra. A poco a poco il monaco ricomincia a mangiare qualcosa, mette su un po’ di carne. Finché torna ad essere una persona uguale nell’aspetto a tutte le altre. Peccato che nulla nel suo comportamento lasci pensare che abbia raggiunto l’illuminazione. Nessun segno di saggezza o intelligenza, e tanto meno di purezza. Della vita precedente non ha alcun ricordo. Non sa perché abbia passato tutto quel tempo sotto terra. Ormai si nutre di carne e ha robusti appetiti sessuali. Prende moglie, si guadagna da vivere svolgendo lavori di basso livello e facendo il servo. Viene chiamato Nyūjō no Jōsuke. Davanti alla sua spregevole figura, la gente del villaggio non ha piú fiducia negli insegnamenti del Budda. Si chiede se quello sia il risultato cui portano la severa pratica ascetica e la cosiddetta illuminazione, raggiunta a rischio della vita. Risultato: tutti perdono la fede religiosa e smettono di andare al tempio. Questa era la storia. Come aveva detto Menshiki, vi si rifletteva l’ombra fosca della cinica visione del mondo cui era approdato l’autore. Non era un semplice racconto fantastico.
L’uomo era rimasto sotto terra, seguitando a suonare la sua campanella, per piú di cento anni. Eppure in lui non vi era traccia alcuna di eventi miracolosi; per cosí dire, erano rimaste solo le sue spoglie1.
Lessi e rilessi quel breve racconto, ma non ne trassi la minima conclusione. Se dopo aver spostato diversi strati di pietre e aver scavato una buca, avessi davvero trovato una specie di mummia ridotta a un misero fascio di ossa, cos’avrei dovuto farne? La responsabilità di quella resurrezione sarebbe stata mia? Non era molto piú saggio, come aveva detto Masahiko, tapparmi le orecchie e lasciare tutto come stava, senza immischiarmi in cose che non mi riguardavano?
Già, ma tapparmi le orecchie non sarebbe bastato. Per quanto lo desiderassi, non sarei potuto sfuggire a quel suono. Chissà, forse mi avrebbe inseguito ovunque, anche se mi fossi trasferito da un’altra parte. Inoltre anch’io, come Menshiki, ero molto curioso. A quel punto volevo a tutti i costi sapere cosa diavolo si celasse sotto quelle pietre.
Poco dopo mezzogiorno mi chiamò Menshiki.
– Ha avuto il permesso del signor Amada?
Gli riferii grosso modo quanto mi aveva detto Masahiko al telefono. E cioè che potevo fare come mi pareva.
– Ah, tanto meglio! – fece Menshiki. – Da parte mia, ho già parlato con il paesaggista. Senza accennare al suono misterioso, ovviamente. Gli ho solo detto che si tratta di spostare alcune pietre in un bosco e scavare una buca. Siamo fortunati. Di solito è necessario avvertirlo con molto anticipo, ma per combinazione proprio adesso ha qualche giorno libero, quindi potrebbe venire a dare un’occhiata anche oggi pomeriggio. E inizierebbe i lavori domani mattina. È un problema se passa già oggi?
– No, si figuri.
– Cosí potrà preparare gli attrezzi necessari. Per un intervento di quel tipo, pensa che basteranno alcune ore. Io sarò presente.
– Anch’io, è ovvio. Quando saprà a che ora iniziano, me lo comunichi, per favore, – dissi. Poi tutt’a un tratto mi venne in mente una cosa. – Senta, a proposito della conversazione che abbiamo avuto ieri sera, prima che si udisse la campanella…
Menshiki non parve capire a cosa mi riferissi.
– … la conversazione che abbiamo avuto?
– Sí, riguardo a Marie, la ragazzina di tredici anni. Mi stava dicendo che potrebbe essere sua figlia. Poi il suono della campanella ci ha interrotto.
– Ah, quella storia… È vero, ne stavamo parlando. L’avevo completamente dimenticato. Comunque non è un argomento urgente, lo riprenderemo un’altra volta. Quando avremo risolto senza incidenti questa faccenda del tintinnio che arriva dalle pietre.
Dopo quella telefonata, non riuscii piú a concentrarmi su nulla. Che cercassi di leggere un libro, ascoltare un disco o prepararmi da mangiare, nei miei pensieri si insinuava l’inquietudine per quella presenza sotto il tumulo nel bosco. L’immagine di una mummia nera e incartapecorita come pesce secco non se ne voleva andare dalla mia mente.
1. Ueda Akinari, Un legame che dura due vite, in Id., Racconti della pioggia di primavera, introduzione e trad. it. di Maria Teresa Orsi, Marsilio, Venezia 1992.