Capitolo ventinovesimo
Un lavoro in cui c’è qualcosa di forzato
Nei due giorni seguenti
passai molte ore a osservare i due quadri che si trovavano nello
studio. L’assassinio del
Commendatore di Amada Tomohiko,
e L’uomo con la Subaru Forester
bianca che avevo dipinto io. Il primo
era appeso a una parete, il secondo l’avevo messo in un angolo,
voltato contro il muro (lo spostavo sul cavalletto solo quando
volevo guardarlo). Il resto del tempo leggevo, ascoltavo musica, mi
preparavo da mangiare, facevo le pulizie di casa; o strappavo le
erbacce in giardino e passeggiavo nei dintorni. Nessuna voglia di
prendere una matita in mano. Il Commendatore restava in silenzio.
Non si mostrava.
Percorrendo i sentieri
della zona, piú volte cercai la casa di Akikawa Marie, ma per
quanto camminassi, non riuscii mai a capire dove si trovava. Dalla
terrazza di Menshiki mi era sembrata piuttosto vicina alla mia, in
linea d’aria, ma ora la configurazione del terreno ostruiva il mio
campo visivo. Nei boschi, inconsciamente avevo paura delle
vespe.
Dopo aver osservato quei
due quadri, uno dopo l’altro, per due giorni, ebbi conferma di una
cosa: la mia prima sensazione non era sbagliata.
L’assassinio del Commendatore
cercava di mandarmi un messaggio
misterioso, L’uomo con la Subaru
Forester bianca non voleva che il suo
creatore (io, insomma) aggiungesse nulla alla tela. Le due opere mi
parlavano, e io non potevo fare a meno di ascoltare. Decisi di non
apportare alcuna modifica all’Uomo con
la Subaru Forester bianca (sforzandomi
però di comprendere cosa volesse da me), e cercai di decifrare il
messaggio nella scena dipinta da Amada. Entrambi i quadri erano
avvolti da un enigma resistente come il guscio di una noce, che la
stretta della mia mano non riusciva a frantumare.
Non ci fosse stata la
questione di Akikawa Marie, avrei continuato a studiarli
all’infinito. Per fortuna, però, la sera del secondo giorno la
telefonata di Menshiki venne a porre fine a quel
sortilegio.
– Allora? Ha preso una
decisione? – mi chiese lui dopo avermi salutato.
– In linea di massima,
penso di accettare la sua proposta, – gli risposi. – C’è però una
condizione.
– Quale? Dica
pure.
– Ancora non riesco a
immaginare che genere di quadro sarà. Solo quando mi troverò
davanti alla ragazza, con un pennello in mano, potrò decidere lo
stile del ritratto. E se non mi verranno buone idee, può darsi che
non riesca a finire il lavoro. O che lo finisca, ma non mi piaccia.
O che non piaccia a lei, signor Menshiki. Quindi non vorrei
dipingerlo su incarico suo, o su sua sollecitazione, ma ritenermi
del tutto libero.
– Insomma se il quadro,
una volta terminato, non la convince, non me lo consegna. È questo
che mi vuole dire, vero?
– Sí, potrebbe
verificarsi una cosa del genere. Comunque, vorrei che mi fosse
lasciata la facoltà di disporre a modo mio del quadro ultimato. La
condizione è questa.
Menshiki rifletté un
momento sulle mie parole.
– Devo risponderle di
sí, cos’altro posso fare? Se non accetto, lei il ritratto non lo
fa, giusto?
– Mi perdoni. Ma sí, è
cosí.
– Vuole emanciparsi dal
vincolo di una committenza e lavorare in maggiore libertà,
artisticamente parlando. Inoltre l’aspetto economico costituirebbe
per lei un peso. È cosí?
– Un po’ tutte e due le
cose. L’essenziale, in ogni caso, è che vorrei essere il piú
spontaneo possibile.
– Il piú spontaneo
possibile?
– Vorrei, ecco, che non
ci fossero forzature.
– Il che significa, –
disse Menshiki in tono leggermente piú duro, – che nella mia
richiesta di fare il ritratto di Akikawa Marie sente che c’è
qualcosa di forzato?
«È come raccogliere
acqua in un setaccio, – mi aveva detto il Commendatore. –
Raccogliere acqua in un recipiente pieno di buchi ha qualche
utilità?»
– Quello che intendo è
che vorrei avere con lei un rapporto esente da interessi reciproci;
un rapporto alla pari. Se trova quest’espressione scortese, mi
perdoni.
– Ma no, nessuna
scortesia. Il rapporto tra due persone deve sempre essere di
parità, ci mancherebbe! Lei può dirmi tutto quello che
pensa.
– Vorrei ritrarre
Akikawa Marie per il puro piacere di farlo, come se lei non fosse
coinvolto in questa storia. Altrimenti l’ispirazione non sarebbe
genuina. Si trasformerebbe in un giogo, sia morale che
materiale.
– D’accordo, – disse
Menshiki dopo averci pensato un attimo. – Capisco perfettamente.
Bene, per il momento togliamo di mezzo il vincolo della
commissione. Dimentichi anche la questione del compenso. È stato
maldestro da parte mia mettere subito sul tappeto l’argomento
denaro. Lei vada avanti, e quando avrà terminato il ritratto, se me
lo vorrà mostrare, ne riparleremo e vedremo cosa farne. Rispetto le
sue richieste, del resto il pittore è lei. Ma a parte questo…
riguardo all’altra richiesta che le ho fatto, cosa mi risponde?
Ricorda qual è?
– Permetterle di venire
qui quando Marie poserà nel mio atelier?
– Esatto.
Riflettei un
momento.
– Non credo che ci siano
problemi, – dissi. – Lei mi conosce bene, vive qui vicino, niente
di strano che una domenica mattina, durante una passeggiata, passi
a salutarmi. E che si facciano due chiacchiere tutti insieme. Mi
sembra una cosa assolutamente normale.
– Oh, gliene sono
davvero riconoscente, – fece Menshiki, che mi parve un po’
sollevato. – Mi fa un vero favore. Le assicuro che non le arrecherò
il minimo disturbo. Allora possiamo procedere? Possiamo stabilire
fin da ora che Akikawa Marie verrà domenica prossima a casa sua, la
mattina, e lei inizierà il suo ritratto? In pratica sarà il signor
Matsushima a fare da intermediario, a metterla direttamente in
contatto con la famiglia Akikawa.
– D’accordo, – dissi. –
Proceda pura. Domenica mattina Marie e la zia possono venire qui
verso le dieci, e io chiederò alla ragazza di posare per me. Alle
dodici, non un minuto di piú, metterò giú matite e pennelli.
Continueremo cosí per alcune settimane. Forse sei o
sette.
– Bene. Se ci saranno
altri dettagli, glielo farò sapere.
Le condizioni su cui
dovevamo metterci d’accordo erano stabilite. A quel punto Menshiki
aggiunse, come se gli fosse tornato in mente di colpo:
– Ah, a proposito!
Riguardo al periodo che Amada Tomohiko trascorse a Vienna. Sono
venuto a sapere qualcos’altro. L’altra sera le avevo detto che il
caso in cui era coinvolto, il tentativo di assassinare un alto
ufficiale nazista, era scoppiato subito dopo l’Anschluss, ma in
realtà fu all’inizio dell’autunno del ’38. Quindi erano già passati
sei mesi. Lei sa come andarono le cose, vero, riguardo
all’Anschluss?
– Non in
dettaglio.
– Il 12 marzo del 1938
l’esercito tedesco attraversò la frontiera con l’Austria, invase il
Paese e in men che non si dica occupò Vienna. Il presidente Miklas
dovette dimettersi e il cancelliere Seyss-Inquart, che era a capo
del Partito nazista austriaco, assunse la carica di presidente. Due
giorni dopo Hitler entrava a Vienna. Il 10 aprile ci fu un
plebiscito. La popolazione doveva decidere se accettare o meno
l’annessione alla Germania. In teoria il voto era segreto, ma con
tutti i brogli che ci furono, per consegnare una scheda contraria
ci voleva un bel coraggio. Il risultato fu il 99,75 per cento dei
voti a favore. Da quel momento l’Austria in quanto Stato non
esisteva piú, tutto il territorio divenne una provincia della
Germania. Lei è mai stato a Vienna?
Vienna, figuriamoci… non
ero mai stato fuori dal Giappone! Non avevo neanche mai avuto un
passaporto.
– Vienna non è
paragonabile a nessun’altra città, – proseguí Menshiki. – Lo si
capisce subito, basta abitarci per un breve periodo. È molto
diversa dalla Germania. Diversa l’atmosfera, diversa la gente.
Anche il cibo e la musica sono diversi. Vienna è un luogo per
godersi la vita, per abbandonarsi all’amore per l’arte. In quel
periodo, tuttavia, si trovava in uno stato di confusione tremenda.
Soffiava il vento della tirannia. È in questa città in subbuglio
che visse Amada Tomohiko. Fino al plebiscito, i membri del Partito
nazista si trattennero, ma dopo iniziarono a mostrare la loro
natura violenta. La prima cosa che fece Hitler dopo l’Anschluss fu
creare il campo di concentramento di Mauthausen nel Nord
dell’Austria. Per completarlo ci mise solo qualche settimana. Era
un lavoro urgente, per i nazisti, mettere in funzione quel campo. E
nel giro di poco vi furono spedite migliaia di persone per crimini
politici. A Mauthausen finivano soprattutto i criminali politici
che venivano giudicati irrecuperabili, e i soggetti bollati come
antisociali. Di conseguenza i prigionieri venivano trattati in
maniera terribile. Molte persone vi furono giustiziate. Oppure
furono condannate ai lavori forzati nelle cave di pietre e lí
persero la vita. «Irrecuperabili» voleva dire che una volta gettati
nei lager non ne sarebbero mai usciti vivi. Spesso gli oppositori
del regime venivano torturati e uccisi già durante gli
interrogatori e molti furono sepolti di nascosto. Il tentativo di
assassinio in cui era coinvolto Amada Tomohiko nacque proprio in
quell’epoca burrascosa che seguí all’Anschluss.
Io ascoltavo in silenzio
il racconto di Menshiki.
– Tuttavia, come le ho
già detto, di quell’attentato pianificato a Vienna tra la fine
dell’estate e l’inizio dell’autunno del ’38, non si trova la
registrazione ufficiale da nessuna parte. È molto strano. È anche
strano che Hitler e Goebbels non l’abbiano trasformato in
propaganda e usato a fini politici. Come nella Notte dei cristalli.
Lo sa, vero, come andarono le cose, riguardo alla Notte dei
cristalli?
– Piú o meno, – dissi.
Su quell’episodio storico avevo visto un film, tanti anni prima. –
La morte di un diplomatico tedesco presso l’ambasciata di Parigi,
al quale un ebreo antinazista aveva sparato, venne presa a pretesto
per abbandonarsi ad atti di violenza contro gli ebrei in tutta la
Germania; molte botteghe gestite da ebrei furono distrutte, molte
persone uccise. Quella notte venne chiamata cosí perché le vetrine
dei negozi volarono in pezzi e i frammenti brillavano come
cristalli.
– Esatto. Accadde nel
novembre del 1938. La versione ufficiale fu che si era trattato di
movimenti violenti spontanei, ma in realtà erano brutalità
organizzate dal governo guidato da Goebbels, che aveva saputo
sfruttare la morte del diplomatico. L’assassino, Herschel
Grynszpan, aveva compiuto quel gesto per protestare contro il
disumano trattamento subito in Germania dai genitori, in quanto
ebrei. La sua intenzione iniziale era uccidere l’ambasciatore, ma
rendendosi conto che non era possibile, sparò al primo alto
funzionario che gli capitò davanti. Il diplomatico ucciso, Ernst
vom Rath, ironia della sorte, aveva tendenze antinaziste e per
questo era sotto la sorveglianza delle autorità. In conclusione, se
a quell’epoca a Vienna fosse stato scoperto un piano per uccidere
un alto ufficiale nazista, sarebbe stato usato dalla propaganda per
giustificare un ulteriore giro di vite nei confronti dei movimenti
di opposizione. Per cui difficilmente sarebbe passato sotto
silenzio.
– Quindi dev’esserci una
qualche ragione se non ci sono documenti ufficiali sul
piano.
– Quello che pare sicuro
è che la pianificazione di un assassinio ci fu. Le persone
implicate, per la maggior parte studenti universitari viennesi,
vennero tutte imprigionate e condannate a morte o semplicemente
uccise sul posto. Per chiuder loro la bocca. Qualcuno dice che tra
i membri del complotto ci fu anche la figlia di un alto ufficiale
nazista, ed è uno dei motivi per cui il caso venne insabbiato.
Neanche di questo sappiamo se sia vero o falso. Dopo la guerra ci
furono diverse testimonianze, ma è difficile stabilire adesso se
siano attendibili o no. Per inciso, il nome del gruppo era
«Candela». In latino indica il candelabro che si usa per far luce
in un sotterraneo.
– Se le persone che
parteciparono al complotto furono tutte uccise, vuol dire che
l’unico testimone diretto rimasto è Amada Tomohiko?
– Si direbbe di sí. Poco
prima della fine della guerra, l’Rsha, l’Ufficio centrale per la
Sicurezza del Reich, diede ordine di bruciare tutti i rapporti
segreti riguardanti il caso, dal primo all’ultimo, e la verità è
rimasta sepolta nelle tenebre della Storia. Sarebbe bello poter
chiedere chiarimenti all’unico superstite, Amada Tomohiko, ma ormai
credo che sia difficile.
– Sí, molto difficile, –
gli risposi. – Fino a oggi non ha parlato con nessuno di quegli
avvenimenti, e adesso i suoi ricordi sono sprofondati nel pantano
dell’oblio.
Salutai Menshiki e
riagganciai.
Anche quando la sua
memoria era lucida, Amada non aveva detto una parola su quel caso.
Probabilmente aveva delle ragioni personali. Oppure, quando era
stato espulso dalla Germania, aveva ricevuto dalle autorità
l’ordine di tacere, qualunque cosa accadesse. Aveva rispettato il
patto per tutta la vita, ma in cambio ci aveva lasciato quel
quadro, L’assassinio del
Commendatore. La verità che gli era
vietato esprimere a parole insieme ai pensieri che lo tormentavano
li aveva affidati alla pittura.
La sera dopo, mi chiamò
di nuovo Menshiki. Akikawa Marie sarebbe venuta a casa mia quella
domenica alle dieci, mi informò. Come s’era detto, l’avrebbe
accompagnata la zia. Durante quella prima seduta lui non si sarebbe
fatto vedere.
– Verrò piú in là,
quando Marie si sarà abituata a posare per lei, – disse. –
All’inizio sarà sicuramente molto tesa, credo sia meglio che non mi
ci metta anch’io a creare imbarazzo. – Al telefono Menshiki, cosa
eccezionale, sembrava molto eccitato. Tanto che finii per sentirmi
un po’ a disagio.
– Sí, ha ragione. Meglio
evitare, – gli risposi.
– Ma forse sarò ancora
piú teso io, – ammise lui dopo una breve esitazione. – Come le ho
detto, non ho mai potuto incontrare Marie, avvicinarmi a lei. L’ho
sempre e solo vista da lontano.
– Sí, ma se avesse
voluto conoscerla, probabilmente avrebbe creato l’occasione,
no?
– Ah, certo, certo! Se
avessi voluto, sí, avrei potuto farlo senza problemi.
– Però fino a oggi non
aveva mai osato. Come mai?
Insolitamente, Menshiki
impiegò un po’ di tempo a scegliere le parole.
– Perché non riuscivo a
immaginare come avrei reagito, cosa le avrei detto, una volta che
mi fossi trovato davanti a lei. Per questo finora ho evitato di
incontrarla. Mi accontentavo di guardarla da lontano dal lato
opposto della valle con un binocolo di precisione. Trova che io
abbia una mentalità contorta?
– No, non
particolarmente. Solo un pochino strana. Comunque sia, questa volta
ha rotto gli indugi, ha deciso di vedere Marie a casa mia. Per
quale motivo, se posso chiedere?
Menshiki non rispose
subito.
– Perché fra Marie e me
c’è lei. Perché sarà lei a presentarci, in altre parole, – disse
alla fine.
– Perché ci sono io? –
ripetei sorpreso. – Non capisco. Scusi se mi permetto, ma lei mi
conosce appena, signor Menshiki, e io non conosco di certo meglio
lei. Ci siamo incontrati per la prima volta un mese fa e viviamo
uno di fronte all’altro sui due versanti opposti di una valle,
tutto qui. Siamo diversi in tutto, l’ambiente che frequentiamo, lo
stile di vita… Ciononostante lei pensa di poter avere fiducia in me
e mi ha già confidato alcuni importanti segreti. Eppure non mi
sembra il tipo di persona che esterna facilmente i propri
sentimenti…
– Ha ragione. Di solito
quando ho un segreto lo metto in cassaforte, chiudo a chiave, e la
chiave me la ingoio. Non mi capita mai di rivelare qualcosa di
intimo a qualcuno, o chiedere consiglio.
– Allora perché con me…
come dire? Perché riesce in una certa misura ad
aprirsi?
– Non glielo so spiegare
bene, – rispose Menshiki dopo una breve pausa, – ma ho la
sensazione che con lei non sia necessario stare sulla difensiva.
L’ho pensato fin dal giorno in cui l’ho conosciuta. Un’intuizione,
diciamo. E dopo, quando ho visto il ritratto che mi ha fatto,
quest’intuizione si è rafforzata. Questo è un uomo in cui posso
avere fiducia, ho pensato. Quest’uomo sarà in grado di accettare
senza preconcetti il mio modo di vedere le cose. Anche se gli
apparirà un po’ strano e contorto.
Già, un modo di vedere
le cose un po’ strano e contorto.
– Mi fa piacere che lei
mi dica questo, – risposi. – Sa, non credo di riuscire veramente a
capirla. Il suo modo di pensare oltrepassa i limiti della mia
comprensione. A dire la verità, trovo francamente sorprendenti
molte delle cose che la riguardano. Ci sono volte in cui mi lascia
senza parole.
– Però non cerca di
giudicarmi. Giusto?
Ora che me lo diceva, mi
accorgevo che era cosí. Non avevo mai voluto giudicare i suoi
comportamenti, tanto meno in base ai miei standard. Non lo ammiravo
né lo criticavo. Piú che altro restavo semplicemente
sbalordito.
– Sí, può darsi che
abbia ragione, – ammisi.
– Inoltre, ricorda la
volta in cui sono sceso in quella buca? Quando sono rimasto un’ora
là sotto da solo?
– Certo che la
ricordo.
– Non le è mai venuto in
mente di lasciarmi per sempre chiuso in quella buca umida e buia.
Avrebbe potuto, ma l’idea non l’ha neanche sfiorata. O
sbaglio?
– No, è vero. Però,
signor Menshiki, nessuna persona normale penserebbe di fare una
cosa del genere.
– Ne è proprio
sicuro?
A quella domanda non
sapevo come rispondere. Come potevo sapere cosa celassero
nell’animo le altre persone?
– Senta, avrei ancora
una richiesta da farle, – disse Menshiki.
– Di cosa si
tratta?
– Riguarda domenica
prossima, quando Marie e la zia verranno da lei. Le dispiacerebbe
se nel frattempo io osservassi casa sua con il mio
binocolo?
Gli dissi che non avevo
nulla in contrario. Se non mi disturbava avere gli occhi del
Commendatore addosso mentre facevo sesso con la mia amante, cosa mi
importava di essere spiato da una terrazza sull’altro lato della
valle?
– Ho pensato che fosse
piú corretto avvisarla, – disse Menshiki, come per
scusarsi.
L’onestà di quell’uomo
assumeva strane forme, pensai impressionato. Ci salutammo e
mettemmo fine alla conversazione. Avevo male a un orecchio, per
averci tenuto a lungo la cornetta schiacciata contro.
Il giorno dopo mi arrivò
una raccomandata. Firmai la ricevuta, il postino mi consegnò una
grossa busta. Prendendola in mano, non presagivo niente di buono.
Le raccomandate non portano mai belle notizie, lo sapevo per
esperienza.
Come prevedevo, arrivava
da un ufficio del Comune e conteneva i moduli da riempire per la
richiesta di divorzio, in duplice copia. Insieme a questi documenti
c’era una breve lettera, scritta in burocratese da un avvocato,
oltre a una seconda busta affrancata da usare per la risposta.
Tutto quello che dovevo fare era controllare il contenuto dei
moduli, se non avevo obiezioni apporre il mio timbro
personale1 su una delle due
copie, e rispedirla all’ufficio legale. Se avevo qualche dubbio,
non dovevo esitare a rivolgermi direttamente all’avvocato. Lessi
rapidamente i moduli da rispedire, misi la data e li timbrai.
Riguardo al contenuto, non trovai nulla da ridire. Nessuna delle
due parti aveva obblighi di natura economica verso l’altra, non
c’erano proprietà da dividere, figli per il cui affidamento
litigare. Un divorzio estremamente semplice, se cosí si può dire.
Si poteva quasi definire un divorzio per principianti. Due vite si
sovrappongono, e dopo sei anni tornano a separarsi. Tutto qui. Misi
i moduli timbrati nella busta affrancata e lasciai la busta sul
tavolo della cucina. Il giorno dopo, prima di iniziare la lezione
di disegno, l’avrei infilata nella buca delle lettere davanti alla
stazione.
Per tutto il pomeriggio,
sentii la presenza di quella busta posata sul tavolo, pur senza
guardarla. Avevo l’impressione che vi fossero stipati sei anni di
vita matrimoniale, con tutto il loro peso. Sei anni che stavano
soffocando dentro un plico amministrativo − insieme ai ricordi,
insieme alle emozioni − e poco per volta morivano. A quel pensiero
provavo un senso di oppressione al petto, difficoltà a respirare.
Finché presi la busta e andai a metterla su una mensola
nell’atelier. Di fianco alla vecchia campanella sporca. Poi chiusi
la porta, tornai in cucina e bevvi un bicchiere del whisky che mi
aveva regalato Masahiko. Contravvenendo, per una volta, alla
decisione che avevo preso di non bere mai alcol prima di sera. La
cucina era molto silenziosa. Non c’era vento, non si sentivano
automobili, nemmeno gli uccelli cantavano.
Non era il fatto in sé
di divorziare a preoccuparmi. In pratica, era come se lo avessimo
già fatto. Neppure apporre il mio timbro sul modulo mi aveva
turbato. Se era quanto lei voleva, non avevo nulla da ridire. Si
trattava solo di una pratica legale.
Però… però come avevamo
fatto ad arrivare a quel punto, cosa ci aveva portato a quella
situazione? Era questo che non riuscivo a spiegarmi. Naturalmente
capivo che le persone, col passare del tempo e col mutare delle
circostanze, si leghino e si allontanino. Il cuore umano fluttua in
modo incostante, senza seguire le regole dell’abitudine o del buon
senso. Svolazza liberamente. Al pari degli uccelli migratori, che
non conoscono frontiere.
Questi però erano
discorsi generici, nel nostro caso specifico, non riuscivo a capire
come avesse potuto Yuzu (proprio quella Yuzu lí) respingere le mie
braccia (respingere me) per stare fra quelle di un altro. Era
qualcosa di tanto insensato quanto terribilmente crudele quello che
ora mi veniva inflitto. Eppure non provavo collera (non mi
sembrava). Con chi o cosa potevo prendermela? Ero in preda a una
paralisi emotiva. Quella paralisi che il cuore genera
automaticamente davanti a un dolore violento, quando si desidera
fortemente qualcuno ma, questo qualcuno, non lo si può avere.
Un’anestesia dell’anima.
Non riuscivo a
dimenticare Yuzu. La volevo disperatamente. Ma se Yuzu avesse
abitato sul lato opposto della valle, e io fossi stato in possesso
di un binocolo ad alta precisione, l’avrei spiata fare la sua vita,
giorno dopo giorno, attraverso un binocolo? No, non l’avrei mai
fatto. Tanto per cominciare, non avrei mai scelto di vivere in
quella casa. Era come costruire uno strumento di tortura destinato
a me stesso.
Un po’ stordito dal
whisky, andai a letto prima delle otto e mi addormentai subito. Ma
all’una e mezzo mi svegliai e non riuscii piú a prendere sonno. Le
ore in attesa dell’alba furono lunghe e mi misero malinconia.
Seduto sul divano del soggiorno, guardavo nel buio, le mani in
mano, senza riuscire a leggere, ad ascoltare musica, a fare
alcunché. E pensai a tante cose. La metà, avrei fatto meglio a
dimenticarle.
Se almeno ci fosse stato
il Commendatore, con me! Se almeno avessi potuto parlare con lui di
qualcosa! Di qualunque cosa, di qualunque argomento… Mi sarebbe
bastato sentire la sua voce.
Lui però non c’era, da
nessuna parte, e non avevo modo di chiamarlo.
1. In Giappone un timbro
personale registrato presso il Comune di appartenenza vale come
firma legale.