Capitolo ventinovesimo
Un lavoro in cui c’è qualcosa di forzato
Nei due giorni seguenti passai molte ore a osservare i due quadri che si trovavano nello studio. L’assassinio del Commendatore di Amada Tomohiko, e L’uomo con la Subaru Forester bianca che avevo dipinto io. Il primo era appeso a una parete, il secondo l’avevo messo in un angolo, voltato contro il muro (lo spostavo sul cavalletto solo quando volevo guardarlo). Il resto del tempo leggevo, ascoltavo musica, mi preparavo da mangiare, facevo le pulizie di casa; o strappavo le erbacce in giardino e passeggiavo nei dintorni. Nessuna voglia di prendere una matita in mano. Il Commendatore restava in silenzio. Non si mostrava.
Percorrendo i sentieri della zona, piú volte cercai la casa di Akikawa Marie, ma per quanto camminassi, non riuscii mai a capire dove si trovava. Dalla terrazza di Menshiki mi era sembrata piuttosto vicina alla mia, in linea d’aria, ma ora la configurazione del terreno ostruiva il mio campo visivo. Nei boschi, inconsciamente avevo paura delle vespe.
Dopo aver osservato quei due quadri, uno dopo l’altro, per due giorni, ebbi conferma di una cosa: la mia prima sensazione non era sbagliata. L’assassinio del Commendatore cercava di mandarmi un messaggio misterioso, L’uomo con la Subaru Forester bianca non voleva che il suo creatore (io, insomma) aggiungesse nulla alla tela. Le due opere mi parlavano, e io non potevo fare a meno di ascoltare. Decisi di non apportare alcuna modifica all’Uomo con la Subaru Forester bianca (sforzandomi però di comprendere cosa volesse da me), e cercai di decifrare il messaggio nella scena dipinta da Amada. Entrambi i quadri erano avvolti da un enigma resistente come il guscio di una noce, che la stretta della mia mano non riusciva a frantumare.
Non ci fosse stata la questione di Akikawa Marie, avrei continuato a studiarli all’infinito. Per fortuna, però, la sera del secondo giorno la telefonata di Menshiki venne a porre fine a quel sortilegio.
– Allora? Ha preso una decisione? – mi chiese lui dopo avermi salutato.
– In linea di massima, penso di accettare la sua proposta, – gli risposi. – C’è però una condizione.
– Quale? Dica pure.
– Ancora non riesco a immaginare che genere di quadro sarà. Solo quando mi troverò davanti alla ragazza, con un pennello in mano, potrò decidere lo stile del ritratto. E se non mi verranno buone idee, può darsi che non riesca a finire il lavoro. O che lo finisca, ma non mi piaccia. O che non piaccia a lei, signor Menshiki. Quindi non vorrei dipingerlo su incarico suo, o su sua sollecitazione, ma ritenermi del tutto libero.
– Insomma se il quadro, una volta terminato, non la convince, non me lo consegna. È questo che mi vuole dire, vero?
– Sí, potrebbe verificarsi una cosa del genere. Comunque, vorrei che mi fosse lasciata la facoltà di disporre a modo mio del quadro ultimato. La condizione è questa.
Menshiki rifletté un momento sulle mie parole.
– Devo risponderle di sí, cos’altro posso fare? Se non accetto, lei il ritratto non lo fa, giusto?
– Mi perdoni. Ma sí, è cosí.
– Vuole emanciparsi dal vincolo di una committenza e lavorare in maggiore libertà, artisticamente parlando. Inoltre l’aspetto economico costituirebbe per lei un peso. È cosí?
– Un po’ tutte e due le cose. L’essenziale, in ogni caso, è che vorrei essere il piú spontaneo possibile.
– Il piú spontaneo possibile?
– Vorrei, ecco, che non ci fossero forzature.
– Il che significa, – disse Menshiki in tono leggermente piú duro, – che nella mia richiesta di fare il ritratto di Akikawa Marie sente che c’è qualcosa di forzato?
«È come raccogliere acqua in un setaccio, – mi aveva detto il Commendatore. – Raccogliere acqua in un recipiente pieno di buchi ha qualche utilità?»
– Quello che intendo è che vorrei avere con lei un rapporto esente da interessi reciproci; un rapporto alla pari. Se trova quest’espressione scortese, mi perdoni.
– Ma no, nessuna scortesia. Il rapporto tra due persone deve sempre essere di parità, ci mancherebbe! Lei può dirmi tutto quello che pensa.
– Vorrei ritrarre Akikawa Marie per il puro piacere di farlo, come se lei non fosse coinvolto in questa storia. Altrimenti l’ispirazione non sarebbe genuina. Si trasformerebbe in un giogo, sia morale che materiale.
– D’accordo, – disse Menshiki dopo averci pensato un attimo. – Capisco perfettamente. Bene, per il momento togliamo di mezzo il vincolo della commissione. Dimentichi anche la questione del compenso. È stato maldestro da parte mia mettere subito sul tappeto l’argomento denaro. Lei vada avanti, e quando avrà terminato il ritratto, se me lo vorrà mostrare, ne riparleremo e vedremo cosa farne. Rispetto le sue richieste, del resto il pittore è lei. Ma a parte questo… riguardo all’altra richiesta che le ho fatto, cosa mi risponde? Ricorda qual è?
– Permetterle di venire qui quando Marie poserà nel mio atelier?
– Esatto.
Riflettei un momento.
– Non credo che ci siano problemi, – dissi. – Lei mi conosce bene, vive qui vicino, niente di strano che una domenica mattina, durante una passeggiata, passi a salutarmi. E che si facciano due chiacchiere tutti insieme. Mi sembra una cosa assolutamente normale.
– Oh, gliene sono davvero riconoscente, – fece Menshiki, che mi parve un po’ sollevato. – Mi fa un vero favore. Le assicuro che non le arrecherò il minimo disturbo. Allora possiamo procedere? Possiamo stabilire fin da ora che Akikawa Marie verrà domenica prossima a casa sua, la mattina, e lei inizierà il suo ritratto? In pratica sarà il signor Matsushima a fare da intermediario, a metterla direttamente in contatto con la famiglia Akikawa.
– D’accordo, – dissi. – Proceda pura. Domenica mattina Marie e la zia possono venire qui verso le dieci, e io chiederò alla ragazza di posare per me. Alle dodici, non un minuto di piú, metterò giú matite e pennelli. Continueremo cosí per alcune settimane. Forse sei o sette.
– Bene. Se ci saranno altri dettagli, glielo farò sapere.
Le condizioni su cui dovevamo metterci d’accordo erano stabilite. A quel punto Menshiki aggiunse, come se gli fosse tornato in mente di colpo:
– Ah, a proposito! Riguardo al periodo che Amada Tomohiko trascorse a Vienna. Sono venuto a sapere qualcos’altro. L’altra sera le avevo detto che il caso in cui era coinvolto, il tentativo di assassinare un alto ufficiale nazista, era scoppiato subito dopo l’Anschluss, ma in realtà fu all’inizio dell’autunno del ’38. Quindi erano già passati sei mesi. Lei sa come andarono le cose, vero, riguardo all’Anschluss?
– Non in dettaglio.
– Il 12 marzo del 1938 l’esercito tedesco attraversò la frontiera con l’Austria, invase il Paese e in men che non si dica occupò Vienna. Il presidente Miklas dovette dimettersi e il cancelliere Seyss-Inquart, che era a capo del Partito nazista austriaco, assunse la carica di presidente. Due giorni dopo Hitler entrava a Vienna. Il 10 aprile ci fu un plebiscito. La popolazione doveva decidere se accettare o meno l’annessione alla Germania. In teoria il voto era segreto, ma con tutti i brogli che ci furono, per consegnare una scheda contraria ci voleva un bel coraggio. Il risultato fu il 99,75 per cento dei voti a favore. Da quel momento l’Austria in quanto Stato non esisteva piú, tutto il territorio divenne una provincia della Germania. Lei è mai stato a Vienna?
Vienna, figuriamoci… non ero mai stato fuori dal Giappone! Non avevo neanche mai avuto un passaporto.
– Vienna non è paragonabile a nessun’altra città, – proseguí Menshiki. – Lo si capisce subito, basta abitarci per un breve periodo. È molto diversa dalla Germania. Diversa l’atmosfera, diversa la gente. Anche il cibo e la musica sono diversi. Vienna è un luogo per godersi la vita, per abbandonarsi all’amore per l’arte. In quel periodo, tuttavia, si trovava in uno stato di confusione tremenda. Soffiava il vento della tirannia. È in questa città in subbuglio che visse Amada Tomohiko. Fino al plebiscito, i membri del Partito nazista si trattennero, ma dopo iniziarono a mostrare la loro natura violenta. La prima cosa che fece Hitler dopo l’Anschluss fu creare il campo di concentramento di Mauthausen nel Nord dell’Austria. Per completarlo ci mise solo qualche settimana. Era un lavoro urgente, per i nazisti, mettere in funzione quel campo. E nel giro di poco vi furono spedite migliaia di persone per crimini politici. A Mauthausen finivano soprattutto i criminali politici che venivano giudicati irrecuperabili, e i soggetti bollati come antisociali. Di conseguenza i prigionieri venivano trattati in maniera terribile. Molte persone vi furono giustiziate. Oppure furono condannate ai lavori forzati nelle cave di pietre e lí persero la vita. «Irrecuperabili» voleva dire che una volta gettati nei lager non ne sarebbero mai usciti vivi. Spesso gli oppositori del regime venivano torturati e uccisi già durante gli interrogatori e molti furono sepolti di nascosto. Il tentativo di assassinio in cui era coinvolto Amada Tomohiko nacque proprio in quell’epoca burrascosa che seguí all’Anschluss.
Io ascoltavo in silenzio il racconto di Menshiki.
– Tuttavia, come le ho già detto, di quell’attentato pianificato a Vienna tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno del ’38, non si trova la registrazione ufficiale da nessuna parte. È molto strano. È anche strano che Hitler e Goebbels non l’abbiano trasformato in propaganda e usato a fini politici. Come nella Notte dei cristalli. Lo sa, vero, come andarono le cose, riguardo alla Notte dei cristalli?
– Piú o meno, – dissi. Su quell’episodio storico avevo visto un film, tanti anni prima. – La morte di un diplomatico tedesco presso l’ambasciata di Parigi, al quale un ebreo antinazista aveva sparato, venne presa a pretesto per abbandonarsi ad atti di violenza contro gli ebrei in tutta la Germania; molte botteghe gestite da ebrei furono distrutte, molte persone uccise. Quella notte venne chiamata cosí perché le vetrine dei negozi volarono in pezzi e i frammenti brillavano come cristalli.
– Esatto. Accadde nel novembre del 1938. La versione ufficiale fu che si era trattato di movimenti violenti spontanei, ma in realtà erano brutalità organizzate dal governo guidato da Goebbels, che aveva saputo sfruttare la morte del diplomatico. L’assassino, Herschel Grynszpan, aveva compiuto quel gesto per protestare contro il disumano trattamento subito in Germania dai genitori, in quanto ebrei. La sua intenzione iniziale era uccidere l’ambasciatore, ma rendendosi conto che non era possibile, sparò al primo alto funzionario che gli capitò davanti. Il diplomatico ucciso, Ernst vom Rath, ironia della sorte, aveva tendenze antinaziste e per questo era sotto la sorveglianza delle autorità. In conclusione, se a quell’epoca a Vienna fosse stato scoperto un piano per uccidere un alto ufficiale nazista, sarebbe stato usato dalla propaganda per giustificare un ulteriore giro di vite nei confronti dei movimenti di opposizione. Per cui difficilmente sarebbe passato sotto silenzio.
– Quindi dev’esserci una qualche ragione se non ci sono documenti ufficiali sul piano.
– Quello che pare sicuro è che la pianificazione di un assassinio ci fu. Le persone implicate, per la maggior parte studenti universitari viennesi, vennero tutte imprigionate e condannate a morte o semplicemente uccise sul posto. Per chiuder loro la bocca. Qualcuno dice che tra i membri del complotto ci fu anche la figlia di un alto ufficiale nazista, ed è uno dei motivi per cui il caso venne insabbiato. Neanche di questo sappiamo se sia vero o falso. Dopo la guerra ci furono diverse testimonianze, ma è difficile stabilire adesso se siano attendibili o no. Per inciso, il nome del gruppo era «Candela». In latino indica il candelabro che si usa per far luce in un sotterraneo.
– Se le persone che parteciparono al complotto furono tutte uccise, vuol dire che l’unico testimone diretto rimasto è Amada Tomohiko?
– Si direbbe di sí. Poco prima della fine della guerra, l’Rsha, l’Ufficio centrale per la Sicurezza del Reich, diede ordine di bruciare tutti i rapporti segreti riguardanti il caso, dal primo all’ultimo, e la verità è rimasta sepolta nelle tenebre della Storia. Sarebbe bello poter chiedere chiarimenti all’unico superstite, Amada Tomohiko, ma ormai credo che sia difficile.
– Sí, molto difficile, – gli risposi. – Fino a oggi non ha parlato con nessuno di quegli avvenimenti, e adesso i suoi ricordi sono sprofondati nel pantano dell’oblio.
Salutai Menshiki e riagganciai.
Anche quando la sua memoria era lucida, Amada non aveva detto una parola su quel caso. Probabilmente aveva delle ragioni personali. Oppure, quando era stato espulso dalla Germania, aveva ricevuto dalle autorità l’ordine di tacere, qualunque cosa accadesse. Aveva rispettato il patto per tutta la vita, ma in cambio ci aveva lasciato quel quadro, L’assassinio del Commendatore. La verità che gli era vietato esprimere a parole insieme ai pensieri che lo tormentavano li aveva affidati alla pittura.
La sera dopo, mi chiamò di nuovo Menshiki. Akikawa Marie sarebbe venuta a casa mia quella domenica alle dieci, mi informò. Come s’era detto, l’avrebbe accompagnata la zia. Durante quella prima seduta lui non si sarebbe fatto vedere.
– Verrò piú in là, quando Marie si sarà abituata a posare per lei, – disse. – All’inizio sarà sicuramente molto tesa, credo sia meglio che non mi ci metta anch’io a creare imbarazzo. – Al telefono Menshiki, cosa eccezionale, sembrava molto eccitato. Tanto che finii per sentirmi un po’ a disagio.
– Sí, ha ragione. Meglio evitare, – gli risposi.
– Ma forse sarò ancora piú teso io, – ammise lui dopo una breve esitazione. – Come le ho detto, non ho mai potuto incontrare Marie, avvicinarmi a lei. L’ho sempre e solo vista da lontano.
– Sí, ma se avesse voluto conoscerla, probabilmente avrebbe creato l’occasione, no?
– Ah, certo, certo! Se avessi voluto, sí, avrei potuto farlo senza problemi.
– Però fino a oggi non aveva mai osato. Come mai?
Insolitamente, Menshiki impiegò un po’ di tempo a scegliere le parole.
– Perché non riuscivo a immaginare come avrei reagito, cosa le avrei detto, una volta che mi fossi trovato davanti a lei. Per questo finora ho evitato di incontrarla. Mi accontentavo di guardarla da lontano dal lato opposto della valle con un binocolo di precisione. Trova che io abbia una mentalità contorta?
– No, non particolarmente. Solo un pochino strana. Comunque sia, questa volta ha rotto gli indugi, ha deciso di vedere Marie a casa mia. Per quale motivo, se posso chiedere?
Menshiki non rispose subito.
– Perché fra Marie e me c’è lei. Perché sarà lei a presentarci, in altre parole, – disse alla fine.
– Perché ci sono io? – ripetei sorpreso. – Non capisco. Scusi se mi permetto, ma lei mi conosce appena, signor Menshiki, e io non conosco di certo meglio lei. Ci siamo incontrati per la prima volta un mese fa e viviamo uno di fronte all’altro sui due versanti opposti di una valle, tutto qui. Siamo diversi in tutto, l’ambiente che frequentiamo, lo stile di vita… Ciononostante lei pensa di poter avere fiducia in me e mi ha già confidato alcuni importanti segreti. Eppure non mi sembra il tipo di persona che esterna facilmente i propri sentimenti…
– Ha ragione. Di solito quando ho un segreto lo metto in cassaforte, chiudo a chiave, e la chiave me la ingoio. Non mi capita mai di rivelare qualcosa di intimo a qualcuno, o chiedere consiglio.
– Allora perché con me… come dire? Perché riesce in una certa misura ad aprirsi?
– Non glielo so spiegare bene, – rispose Menshiki dopo una breve pausa, – ma ho la sensazione che con lei non sia necessario stare sulla difensiva. L’ho pensato fin dal giorno in cui l’ho conosciuta. Un’intuizione, diciamo. E dopo, quando ho visto il ritratto che mi ha fatto, quest’intuizione si è rafforzata. Questo è un uomo in cui posso avere fiducia, ho pensato. Quest’uomo sarà in grado di accettare senza preconcetti il mio modo di vedere le cose. Anche se gli apparirà un po’ strano e contorto.
Già, un modo di vedere le cose un po’ strano e contorto.
– Mi fa piacere che lei mi dica questo, – risposi. – Sa, non credo di riuscire veramente a capirla. Il suo modo di pensare oltrepassa i limiti della mia comprensione. A dire la verità, trovo francamente sorprendenti molte delle cose che la riguardano. Ci sono volte in cui mi lascia senza parole.
– Però non cerca di giudicarmi. Giusto?
Ora che me lo diceva, mi accorgevo che era cosí. Non avevo mai voluto giudicare i suoi comportamenti, tanto meno in base ai miei standard. Non lo ammiravo né lo criticavo. Piú che altro restavo semplicemente sbalordito.
– Sí, può darsi che abbia ragione, – ammisi.
– Inoltre, ricorda la volta in cui sono sceso in quella buca? Quando sono rimasto un’ora là sotto da solo?
– Certo che la ricordo.
– Non le è mai venuto in mente di lasciarmi per sempre chiuso in quella buca umida e buia. Avrebbe potuto, ma l’idea non l’ha neanche sfiorata. O sbaglio?
– No, è vero. Però, signor Menshiki, nessuna persona normale penserebbe di fare una cosa del genere.
– Ne è proprio sicuro?
A quella domanda non sapevo come rispondere. Come potevo sapere cosa celassero nell’animo le altre persone?
– Senta, avrei ancora una richiesta da farle, – disse Menshiki.
– Di cosa si tratta?
– Riguarda domenica prossima, quando Marie e la zia verranno da lei. Le dispiacerebbe se nel frattempo io osservassi casa sua con il mio binocolo?
Gli dissi che non avevo nulla in contrario. Se non mi disturbava avere gli occhi del Commendatore addosso mentre facevo sesso con la mia amante, cosa mi importava di essere spiato da una terrazza sull’altro lato della valle?
– Ho pensato che fosse piú corretto avvisarla, – disse Menshiki, come per scusarsi.
L’onestà di quell’uomo assumeva strane forme, pensai impressionato. Ci salutammo e mettemmo fine alla conversazione. Avevo male a un orecchio, per averci tenuto a lungo la cornetta schiacciata contro.
Il giorno dopo mi arrivò una raccomandata. Firmai la ricevuta, il postino mi consegnò una grossa busta. Prendendola in mano, non presagivo niente di buono. Le raccomandate non portano mai belle notizie, lo sapevo per esperienza.
Come prevedevo, arrivava da un ufficio del Comune e conteneva i moduli da riempire per la richiesta di divorzio, in duplice copia. Insieme a questi documenti c’era una breve lettera, scritta in burocratese da un avvocato, oltre a una seconda busta affrancata da usare per la risposta. Tutto quello che dovevo fare era controllare il contenuto dei moduli, se non avevo obiezioni apporre il mio timbro personale1 su una delle due copie, e rispedirla all’ufficio legale. Se avevo qualche dubbio, non dovevo esitare a rivolgermi direttamente all’avvocato. Lessi rapidamente i moduli da rispedire, misi la data e li timbrai. Riguardo al contenuto, non trovai nulla da ridire. Nessuna delle due parti aveva obblighi di natura economica verso l’altra, non c’erano proprietà da dividere, figli per il cui affidamento litigare. Un divorzio estremamente semplice, se cosí si può dire. Si poteva quasi definire un divorzio per principianti. Due vite si sovrappongono, e dopo sei anni tornano a separarsi. Tutto qui. Misi i moduli timbrati nella busta affrancata e lasciai la busta sul tavolo della cucina. Il giorno dopo, prima di iniziare la lezione di disegno, l’avrei infilata nella buca delle lettere davanti alla stazione.
Per tutto il pomeriggio, sentii la presenza di quella busta posata sul tavolo, pur senza guardarla. Avevo l’impressione che vi fossero stipati sei anni di vita matrimoniale, con tutto il loro peso. Sei anni che stavano soffocando dentro un plico amministrativo − insieme ai ricordi, insieme alle emozioni − e poco per volta morivano. A quel pensiero provavo un senso di oppressione al petto, difficoltà a respirare. Finché presi la busta e andai a metterla su una mensola nell’atelier. Di fianco alla vecchia campanella sporca. Poi chiusi la porta, tornai in cucina e bevvi un bicchiere del whisky che mi aveva regalato Masahiko. Contravvenendo, per una volta, alla decisione che avevo preso di non bere mai alcol prima di sera. La cucina era molto silenziosa. Non c’era vento, non si sentivano automobili, nemmeno gli uccelli cantavano.
Non era il fatto in sé di divorziare a preoccuparmi. In pratica, era come se lo avessimo già fatto. Neppure apporre il mio timbro sul modulo mi aveva turbato. Se era quanto lei voleva, non avevo nulla da ridire. Si trattava solo di una pratica legale.
Però… però come avevamo fatto ad arrivare a quel punto, cosa ci aveva portato a quella situazione? Era questo che non riuscivo a spiegarmi. Naturalmente capivo che le persone, col passare del tempo e col mutare delle circostanze, si leghino e si allontanino. Il cuore umano fluttua in modo incostante, senza seguire le regole dell’abitudine o del buon senso. Svolazza liberamente. Al pari degli uccelli migratori, che non conoscono frontiere.
Questi però erano discorsi generici, nel nostro caso specifico, non riuscivo a capire come avesse potuto Yuzu (proprio quella Yuzu lí) respingere le mie braccia (respingere me) per stare fra quelle di un altro. Era qualcosa di tanto insensato quanto terribilmente crudele quello che ora mi veniva inflitto. Eppure non provavo collera (non mi sembrava). Con chi o cosa potevo prendermela? Ero in preda a una paralisi emotiva. Quella paralisi che il cuore genera automaticamente davanti a un dolore violento, quando si desidera fortemente qualcuno ma, questo qualcuno, non lo si può avere. Un’anestesia dell’anima.
Non riuscivo a dimenticare Yuzu. La volevo disperatamente. Ma se Yuzu avesse abitato sul lato opposto della valle, e io fossi stato in possesso di un binocolo ad alta precisione, l’avrei spiata fare la sua vita, giorno dopo giorno, attraverso un binocolo? No, non l’avrei mai fatto. Tanto per cominciare, non avrei mai scelto di vivere in quella casa. Era come costruire uno strumento di tortura destinato a me stesso.
Un po’ stordito dal whisky, andai a letto prima delle otto e mi addormentai subito. Ma all’una e mezzo mi svegliai e non riuscii piú a prendere sonno. Le ore in attesa dell’alba furono lunghe e mi misero malinconia. Seduto sul divano del soggiorno, guardavo nel buio, le mani in mano, senza riuscire a leggere, ad ascoltare musica, a fare alcunché. E pensai a tante cose. La metà, avrei fatto meglio a dimenticarle.
Se almeno ci fosse stato il Commendatore, con me! Se almeno avessi potuto parlare con lui di qualcosa! Di qualunque cosa, di qualunque argomento… Mi sarebbe bastato sentire la sua voce.
Lui però non c’era, da nessuna parte, e non avevo modo di chiamarlo.
1. In Giappone un timbro personale registrato presso il Comune di appartenenza vale come firma legale.