Capitolo nono
Un dono reciproco
Il venerdí pomeriggio,
all’una e mezzo, Menshiki arrivò sulla sua Jaguar. Man mano che
veniva su dalla ripida salita, il rombo del motore si faceva piú
forte finché, giunto all’apice, cessò proprio davanti a casa. Di
nuovo udii il suono attutito della portiera che veniva chiusa. Poi
Menshiki si tolse gli occhiali da sole e li infilò nel taschino
della giacca, ripetendo esattamente gli stessi gesti del primo
giorno. Questa volta indossava una giacca di cotone grigio-azzurro
su una polo bianca, dei pantaloni chino color sabbia, e ai piedi
aveva delle scarpe da ginnastica marrone. Per l’eleganza avrebbe
potuto figurare in una rivista di moda, ma non trasmetteva per
niente quell’innaturale impressione di «impeccabilità» delle
riviste. I suoi abiti erano freschi, portati con disinvoltura. E la
folta capigliatura era dello stesso bianco immacolato del muro
della sua casa. Come la volta precedente, lo osservavo da uno
spiraglio nelle tende della finestra.
Quando sentii suonare il
campanello, andai ad aprire e lo feci entrare. Questa volta non mi
tese la mano. Mi guardò negli occhi sorridendo leggermente e
accennò un inchino. Mi sentii sollevato: avevo temuto di dover
rispondere alla sua energica stretta di mano ad ogni incontro. Come
la prima volta, lo feci passare nel soggiorno e lo invitai ad
accomodarsi sul divano. Poi andai in cucina, versai il caffè appena
fatto in due tazze e le portai in sala.
– Non sapevo come
vestirmi, – esordí lui, quasi scusandosi. – Questi abiti vanno
bene?
– In questa fase gli
abiti non hanno importanza, si può vestire come vuole, c’è tempo.
Può venire in giacca e cravatta, in bermuda e sandali… Su quale sia
l’abbigliamento piú adeguato, potremo riflettere in
seguito.
«E anche se vuoi tenere
in mano un bicchiere di carta di Starbucks», aggiunsi fra
me.
– Posare per un pittore
mette sempre un po’ a disagio, – disse Menshiki. – Anche sapendo
che non ci si deve spogliare, si ha l’impressione di venire messi a
nudo.
– In un certo senso è
proprio cosí, – risposi. – Fare da modello vuol dire sempre
mettersi a nudo. Spesso in senso proprio, a volte figurato. Il
pittore cerca di cogliere la natura autentica, l’identità profonda
della persona che ha davanti. Insomma, deve andare al di là
dell’apparenza, strappare la corteccia esterna. Per riuscirci,
però, deve avere una grande capacità di osservazione e un forte
intuito.
– So che lei non fa mai
ritratti dal vivo.
– È vero. Incontro il
soggetto da ritrarre una volta, parlo con lui faccia a faccia, ma
non gli chiedo mai di posare di persona.
– E c’è una ragione
precisa?
– No, non parlerei di
una ragione vera e propria. Semplicemente, sulla base della mia
esperienza, so di lavorare meglio cosí. Cerco di concentrarmi al
massimo durante l’incontro iniziale, di cogliere ogni cosa del
soggetto… l’aspetto e l’espressione, i tic e le movenze, e conservo
tutto impresso a fuoco nella memoria. In modo da riuscire in un
secondo tempo a far rivivere e dare forma al ricordo.
– Davvero interessante,
– disse Menshiki. – In altre parole, qualche giorno dopo proietta
su una tela i ricordi che ha registrato nella sua memoria, li
rigenera sotto forma di opera d’arte. Ha questo talento. Una
memoria visiva sicuramente non comune!
– Non so se lo si possa
definire un vero talento. Si tratta piuttosto di una capacità, di
un’abilità.
– In ogni caso, –
proseguí Menshiki – ho visto alcuni dei suoi lavori; se ho avuto
cosí forte l’impressione che i suoi avessero qualcosa di diverso
rispetto agli altri, in confronto a quelli dipinti a puro scopo
commerciale cioè, forse la ragione sta proprio lí. Nella
freschezza, nella vivacità di questa rigenerazione a partire dal
ricordo…
Bevve un sorso di caffè,
prese dal taschino della giacca un fazzoletto di lino color crema e
si asciugò gli angoli della bocca.
– Questa volta però, –
riprese, – eccezionalmente farà un ritratto servendosi di un
modello in carne e ossa. Dipingerà con me davanti.
– Sí. Dal momento che è
quello che mi ha chiesto…
Menshiki
annuí.
– Lo ammetto, sono
curioso. Mi chiedo cosa proverò a venire raffigurato dal vivo,
mentre il processo è in corso sotto i miei occhi. Vorrei farne
l’esperienza concreta. Non desidero soltanto farmi fare il
ritratto. Vorrei sperimentare questa specie di
scambio.
– Uno
scambio?
– Sí. Uno scambio tra
lei e me.
Rimasi qualche secondo
in silenzio. Non capivo, cosí su due piedi, cosa volesse dire
concretamente parlando di «scambio».
– Un dono reciproco, –
mi spiegò Menshiki. – Io do qualcosa a lei, lei dà qualcosa a me.
Non deve essere necessariamente qualcosa di importante. Basta una
sciocchezza, un simbolo.
– Come fanno i bambini
quando si scambiano le conchiglie piú belle?
–
Esattamente.
Ci riflettei un po’ su,
poi dissi: – È un’idea interessante, ma non credo di avere belle
conchiglie da darle.
– Oh, non vorrei che la
mia richiesta la mettesse a disagio. Se di solito non dipinge dal
vivo, forse è perché intenzionalmente evita questo tipo di scambio?
In tal caso io…
– No, no, non è cosí. Se
non ritraggo i miei soggetti dal vivo è solo perché non ne provo il
bisogno. Questo non significa che io rifugga dalla relazione
personale. Ho studiato a lungo la pittura e molte volte mi sono
esercitato con modelli in carne e ossa. Se lei è in grado di
sopportare il fastidio di stare fermo su una sedia scomoda per
un’ora o due, non ho nulla in contrario a usarla come
modello.
– A me va benissimo, –
disse Menshiki sollevando le mani a mezz’aria, i palmi rivolti
verso l’alto. – Se lei è d’accordo, mi dedicherei subito a questo
compito ingrato.
Ci spostammo
nell’atelier. Andai a prendere una delle sedie del tavolo da pranzo
e vi feci accomodare Menshiki. Gli dissi di assumere la posa che
preferiva. Poi mi sedetti sul vecchio sgabello di legno
(probabilmente quello che aveva usato Amada Tomohiko quando
dipingeva) e per prima cosa abbozzai uno schizzo con una matita
dalla mina morbida: volevo disegnare a grandi linee la forma del
viso.
– Senta, si annoierà da
morire a stare seduto fermo senza fare nulla. Vuole ascoltare un
po’ di musica? – gli chiesi.
– Sí. Se a lei non dà
fastidio, volentieri.
– Sugli scaffali del
soggiorno ci sono molti dischi, scelga quello che
preferisce.
Dopo aver cercato per
circa cinque minuti, Menshiki tornò con Il cavaliere della rosa di
Richard Strauss, diretto da Georg Solti. Un cofanetto di quattro
lp. L’orchestra era la Filarmonica di Vienna, le cantanti Régine
Crespin e Yvonne Minton.
– Le piace,
Il cavaliere della rosa? – mi chiese.
– Non l’ho mai
ascoltato.
– È un’opera strana.
Nella lirica naturalmente la trama ha una grande importanza, ma,
anche se non si riesce a seguirla, basta abbandonarsi alla musica
per venire trascinati in un altro mondo. Il mondo di suprema
beatitudine a cui sa arrivare Richard Strauss. Alla prima
rappresentazione del Cavaliere della
rosa ci furono molte critiche, in
tanti dissero che Strauss era un conservatore, superato, e invece
era una musica nuova, stravagante. Anche se ha subito l’influsso di
Wagner, Strauss è riuscito a sviluppare il suo universo musicale in
maniera autonoma. Una volta che la si apprezza, la sua musica,
diventa una droga. A me quest’opera piace diretta da Von Karajan o
Erich Kleiber, l’interpretazione di Solti non l’ho ancora sentita.
Se è d’accordo, approfitterei di quest’occasione per
ascoltarla.
– Prego, ci mancherebbe.
Faccia pure.
Menshiki posò il disco
sul piatto dello stereo e fece scendere la puntina. Regolò con cura
il volume. Poi tornò a sedersi, assunse la posa che gli parve piú
adatta e si concentrò nell’ascolto della musica che fluiva dalle
casse. Nel frattempo io disegnavo sul mio album la testa vista da
piú angolazioni. Era una faccia dai tratti regolari, che aveva però
le sue caratteristiche, non difficili da cogliere una per una. In
capo a una mezz’ora avevo terminato cinque diversi schizzi.
Tuttavia, osservandoli, mi resi conto di provare uno strano senso
di impotenza. Quei ritratti riproducevano con precisione ogni
particolare del suo viso, eppure non si poteva dire che fossero
«ben riusciti». Nel complesso avevano qualcosa di superficiale,
mancavano di profondità. Sembravano dei disegni fatti da un pittore
di strada. Provai a farne altri, ma il risultato fu sempre lo
stesso.
Per me, era una
sensazione assolutamente nuova. Avevo un’enorme esperienza nel
dipingere un viso, ero sicuro dei miei mezzi: quando mi trovavo con
una matita o un pennello in mano di fronte a qualcuno, farne il
ritratto mi veniva spontaneo, lo facevo senza la minima difficoltà.
Né avevo alcun problema a definire la composizione generale. Eppure
quella volta, davanti a quell’uomo, non riuscivo a cogliere
l’elemento, il particolare, che sarebbe diventato il punto focale
del suo ritratto.
Poteva darsi che mi
sfuggisse qualcosa di importante. Forse era lui stesso a tenermelo
nascosto, non potevo fare a meno di avere questo sospetto. Oppure
era qualcosa che in quell’uomo non era mai esistito.
Quando il lato B del
primo lp terminò, chiusi l’album e posai la matita sul tavolino.
Sollevai il braccio dal piatto, tolsi il disco e lo rimisi nel
cofanetto. Poi guardai l’orologio e feci un sospiro.
– È estremamente
difficile farle il ritratto, – ammisi.
Menshiki mi guardò,
sembrava stupito.
– Difficile? – chiese. –
Perché? Nella mia faccia c’è forse qualche problema, qualcosa che
non si presta ad essere raffigurato?
Scossi la
testa.
– No, non è questo. La
sua faccia non ha nulla che non vada, è ovvio.
– Allora cos’è che trova
difficile?
– Non lo so neanch’io.
Semplicemente sento che non ci riesco. Oppure fra noi due lo
«scambio» di cui parlava funziona male. Insomma, siamo a corto di
conchiglie.
Menshiki fece un sorriso
imbarazzato.
– E c’è qualcosa che io
posso fare? – chiese poi.
Mi alzai dallo sgabello
e andai a mettermi davanti alla finestra, a guardare gli uccellini
che svolazzavano fra gli alberi.
– Senta, signor
Menshiki, sarebbe possibile sapere qualcosa in piú su di lei?
Perché se ci pensa bene, io non so praticamente nulla di quanto la
riguarda.
– Sí, certo. Non le sto
nascondendo niente, mi creda. Non ho grandi segreti da tenere per
me. Posso dirle tutto quello che desidera. Che cosa vorrebbe
sapere, ad esempio?
– Be’, il suo nome
intero, tanto per cominciare.
– Già, è vero, – fece
Menshiki con un’espressione un po’ sorpresa. – Ha ragione! Mi sono
lasciato trascinare dal discorso e me ne sono
dimenticato.
Prese dalla tasca dei
pantaloni un portacarte di pelle nera, ne tolse un biglietto da
visita e me lo porse. Era in cartoncino bianco e spesso. Lo presi
in mano.
«Menshiki Wataru», c’era
scritto. Sul retro, l’indirizzo di casa nella prefettura di
Kanagawa, il numero di telefono e l’indirizzo di posta elettronica.
Era tutto. Nessun titolo o nome di azienda.
– «Wataru» si scrive con
l’ideogramma di «attraversare», come in «attraversare un fiume», –
disse Menshiki. – Non so proprio per quale motivo mi abbiano
chiamato cosí. Visto che finora nella mia vita non ho avuto molto a
che fare con l’acqua.
– Anche il nome Menshiki
non è molto comune, – osservai.
– Mi è stato detto che
la mia famiglia è originaria dello Shikoku, ma io non ho alcun
rapporto con quella regione. Sono nato a Tōkyō, e a Tōkyō sono
cresciuto. Anche le scuole le ho fatte lí. All’udon preferisco il
soba1, – disse Menshiki
ridendo.
– Posso permettermi di
chiederle quanti anni ha?
– Certo. Ho compiuto
cinquantaquattro anni il mese scorso. Lei quanti me ne dava, di piú
o di meno?
Scossi la
testa.
– Ad essere sincero, non
riuscivo a farmene un’idea. Per questo gliel’ho
domandato.
– Tutta colpa di questi
capelli bianchi, – disse Menshiki sorridendo di nuovo. – È a causa
dei miei capelli, che la gente non riesce a indovinare la mia età.
Si sente spesso raccontare di persone che, dopo un forte spavento,
sono incanutite in una notte. Anche a me a volte qualcuno chiede se
mi è capitata la stessa cosa, ma non sono mai passato attraverso
esperienze cosí drammatiche. Ho sempre avuto molti capelli bianchi,
fin da giovane. E verso i quarantacinque anni avevo già questa
testa qui. È strano. Voglio dire, sia mio nonno che mio padre che i
miei due fratelli sono tutti diventati calvi. Di un’intera
famiglia, l’unico a incanutire sono stato io.
– Se non ha nulla in
contrario, vorrei anche chiederle in cosa consiste il suo lavoro.
Concretamente.
– No, perché dovrei
avere qualcosa in contrario? Se non gliene ho parlato, è solo
perché non è facile.
– Ma se le crea
qualche…
– No, no, mi sono
espresso male – fece Menshiki. – Cioè, è quasi imbarazzante,
perché… vede, ad essere onesto, non posso dire che in questo
momento io stia lavorando. Ufficialmente sono disoccupato, anche se
non ricevo un’indennità di disoccupazione. Sto diverse ore al
giorno nel mio studio a giocare in borsa su Internet o fare
operazioni valutarie, ma in quantità limitata. È piú che altro un
passatempo, uno svago. Tanto per tenermi in allenamento, diciamo,
per far lavorare il cervello. Come un pianista fa le sue brave
scale ogni giorno.
A quel punto Menshiki
respirò a fondo, stese le gambe e le riaccavallò in senso
inverso.
– In precedenza avevo
tirato su un’azienda che investiva in It e la gestivo io, ma poco
tempo fa ho preferito vendere tutte le azioni che possedevo. Le ha
comprate un’importante agenzia di comunicazione. Grazie a questa
vendita, ho potuto mettere da parte una somma che per un po’ di
anni mi permetterà di vivere senza fare nulla. Ho colto l’occasione
per liquidare anche la casa di Tōkyō e mi sono trasferito qui. In
poche parole, mi sono ritirato. I miei risparmi sono distribuiti in
istituti finanziari di vari Paesi, quindi spostando dei capitali in
base alle variazioni delle valute riesco a ricavare buoni margini
di profitto.
– Ah, ecco, – dissi. –
E… ha famiglia?
– No, non ho famiglia.
Non mi sono mai sposato.
– Vive solo, in quella
grande casa?
Menshiki fece un cenno
affermativo.
– Sí, vivo solo. Al
momento non ho nemmeno qualcuno che mi aiuti nei lavori domestici.
Li faccio io, ci sono abituato perché ho sempre vissuto solo, non
mi pesa. Ma la casa è grande e io non riesco a pulirla tutta, una
volta alla settimana devo far venire un’impresa di pulizie.
Altrimenti mi occupo di tutto personalmente. E di lei, cosa mi
dice?
– Be’, io è da meno di
un anno che vivo solo, – risposi scuotendo il capo. – In questo
campo, sono ancora un dilettante.
Menshiki annuí, per dire
che capiva, ma non fece domande e nemmeno commenti.
– A proposito, – chiese
– lei lo conosce bene, Amada Tomohiko?
– No, non l’ho neanche
mai visto. Ero compagno di corso di suo figlio all’Accademia di
Belle arti, finita la scuola ci siamo visti ancora ogni tanto: è
per questo che mi ha chiesto di venire a stare qui. La casa era
vuota e avrei potuto fare un po’ da guardiano… Io mi trovavo in una
situazione difficile, non sapevo dove alloggiare, cosí ho
approfittato della sua offerta e mi sono temporaneamente sistemato
qui.
Di nuovo Menshiki annuí,
piú volte.
– Per qualcuno che
lavora in un’azienda, in un ufficio, sarebbe scomodissimo, ma per
«gente come voi» è l’ambiente ideale.
Feci un mezzo
sorriso.
– Siamo entrambi
pittori, Amada e io, – dissi, – ma non siamo allo stesso livello.
Venire messo sul suo stesso piano mi imbarazza.
Menshiki alzò la testa e
mi guardò con espressione seria.
– Questo ancora non lo
sappiamo, – disse. – Può darsi che un giorno lei diventi molto
famoso.
Non sapendo cosa
rispondere a quell’augurio, tacqui.
– A volte le persone
compiono trasformazioni profonde, – proseguí Menshiki. –
Demoliscono in un colpo solo il proprio stile, ma trovano l’energia
per rinascere dalle proprie ceneri. È quello che è successo ad
Amada Tomohiko. Da giovane dipingeva in stile occidentale. Questo
lo sa anche lei, vero?
– Sí, lo so. Prima della
guerra era una giovane promessa della scuola occidentalizzante. Ma
dopo il soggiorno di studio a Vienna, quando è tornato in Giappone,
per chissà quale motivo si è convertito alla corrente
nihonga e nel
dopoguerra ha ottenuto un successo strepitoso.
– Sono convinto che
nella vita di tutti arriva un momento cosí: un momento in cui una
metamorfosi si impone da sé. Quando quell’attimo si presenta, non
bisogna lasciarselo sfuggire. Bisogna coglierlo e tenerselo ben
stretto. Certe persone ci riescono, altre no. Amada ce l’ha
fatta.
Una metamorfosi. A
quella parola, di colpo mi venne in mente la scena dipinta nel
quadro che avevo trovato nel sottotetto. Il giovane che trafiggeva
con la spada il Commendatore.
– Conosce bene la
corrente nihonga? – mi chiese Menshiki.
Scossi la testa: – Poco,
non è il mio campo. L’ho studiata nel corso di Storia dell’arte
quando frequentavo l’Accademia, ma è tutto quello che ne
so.
– La domanda le parrà
forse ingenua, ma come viene definito il nihonga, in termini
specialistici?
– Be’, non è facile
darne una definizione. È un genere di pittura in cui ci si serve di
colla forte, coloranti e lamine di metallo. Non si usa una
spazzola, ma la matita e il pennello. Insomma, la corrente
nihonga viene
definita principalmente in base agli strumenti che vengono
utilizzati, credo. Naturalmente ha esponenti che continuano a usare
le tecniche tradizionali, ma conta anche molti innovatori. Nei
colori sono stati introdotti materiali nuovi in grande quantità. Il
risultato è che la definizione di nihonga è diventata sempre
piú vaga, piú imprecisa. Riguardo ad Amada Tomohiko, tuttavia, non
c’è ambiguità alcuna: le sue opere sono tradizionali. Le si
potrebbe addirittura definire ortodosse. Dal punto di vista della
tecnica, ovviamente, perché il suo stile è originale, unico. Su
questo non c’è ombra di dubbio.
– Insomma, se una chiara
definizione in base alla tecnica e ai materiali non è possibile,
resta solo lo spirito, dico bene?
– Sí, probabilmente ha
ragione. Riguardo al nihonga, però, anche lo
spirito non è facile da definire. Perché si tratta di una corrente
eclettica fin dall’inizio.
–
Eclettica?
Frugai nella mia
memoria, cercando di ricordare il contenuto delle lezioni di Storia
dell’arte.
– Nella seconda metà del
diciannovesimo secolo, in seguito alla Restaurazione Meiji, la
pittura occidentale venne introdotta in Giappone insieme ad altre
forme di cultura occidentale, ma fino ad allora il genere
nihonga in
realtà non esisteva. Non esisteva nemmeno l’appellativo
«nihonga». Cosí come non veniva quasi usato il nome
nihon per
indicare il nostro Paese. Quando la pittura importata dall’estero,
la corrente yōga, fece la sua comparsa sulla scena, nacque per reazione
il concetto di nihonga, per
differenziarsene. Cosí per comodità, venne deciso di riunire nella
definizione di nihonga
i diversi stili preesistenti in Giappone.
Naturalmente alcuni vennero esclusi e finirono per decadere e
sparire. Ad esempio la pittura a inchiostro di china. In seguito il
governo Meiji decise di favorire lo sviluppo e il consolidamento
della corrente nihonga, in chiave
nazionalista per controbilanciare la diffusione della cultura
europea. Per dare il giusto valore al primo termine del motto
«spirito giapponese e scienze occidentali» in voga all’epoca. Cosí
la pittura sui paraventi e sui fusuma, la decorazione di
porcellane, tutto quello che fino ad allora era considerato arte
industriale venne incorniciato ed esposto nelle gallerie. In altre
parole, uno stile pittorico diffuso nella vita di tutti i giorni
venne elevato a opera d’arte.
A quel punto feci una
pausa e guardai Menshiki. Stava ascoltando la mia spiegazione con
grande interesse.
Proseguii: – A quel
tempo Okakura Tenshin e Fenollosa erano al centro di questo
movimento. Movimento che viene considerato un tipico esempio del
rapidissimo e grandioso rinnovamento culturale giapponese. Nel
mondo della musica, della letteratura e del pensiero stava
avvenendo qualcosa di molto simile. Penso che i giapponesi di
quell’epoca fossero davvero molto indaffarati. In un tempo
brevissimo diedero vita a qualcosa di nuovo. Col senno di poi
possiamo proprio dire che ci riuscirono, e con grande abilità e
intelligenza. La fusione e la convivenza delle due parti, quella a
favore e quella contro l’occidentalizzazione, è stata qualcosa di
armonioso. Può darsi che i giapponesi siano dotati per questo
genere di connubi. Quanto all’appellativo nihonga, credo che
essenzialmente sfugga alle definizioni. Si può dire che è un
concetto basato solo su un vago reciproco consenso. Perché fin
dall’inizio non c’era una linea di demarcazione, è il risultato
dell’incontro fra una pressione esterna e una interna.
Per qualche momento
Menshiki sembrò riflettere sulle mie parole.
– Era un consenso vago,
ma a suo modo necessario?
– Esattamente. Un
consenso nato dalla necessità.
– Non avere una cornice
determinata è la forza, ma al tempo stesso la debolezza del
nihonga. Si può
anche dare questa interpretazione?
– Sí, direi di
sí.
– Però, guardando un
determinato quadro, subito pensiamo: «Ecco, appartiene alla
corrente nihonga». Giusto?
– Giusto. Perché vi
riconosciamo una tecnica caratteristica. Tonalità, tendenze
particolari. C’è qualcosa come una tacita consapevolezza condivisa.
A volte però è molto difficile esprimerla a parole.
Menshiki rimase in
silenzio.
– Cioè, se un quadro è
antioccidentale, – riprese dopo qualche secondo, – viene
considerato in stile nihonga?
– Non è detto. In teoria
esistono anche opere della corrente yōga che possiedono uno
stile antioccidentale.
– Già, in effetti, –
disse Menshiki. Poi piegò leggermente la testa di lato. – Sí, ma
per essere considerata nihonga, un’opera in qualche
misura deve avere uno stile antioccidentale. Questo si può
dire?
Ci pensai un po’
su.
– Ora che mi ci fa
pensare, penso che si possa concordare su quest’idea. A me però non
è mai venuto in mente.
– È una cosa evidente,
ma di un’evidenza che non trova parole.
Annuii. Ero
d’accordo.
Menshiki fece una pausa,
poi aggiunse:
– Riflettendoci, può
darsi che sia analogo al dare una definizione di se stessi. È
qualcosa che ci sembra evidente, ma non riusciamo a esprimere. Come
ha detto lei, forse lo si può soltanto spiegare come «il risultato
dell’incontro fra una pressione esterna e una pressione
interna».
Dopo queste parole,
Menshiki accennò un sorriso. – Molto interessante, – aggiunse a
bassa voce, come rivolto a se stesso.
Tutt’a un tratto mi
domandai di cosa stessimo discutendo. L’argomento a suo modo era
interessante, sí. Ma che senso aveva per lui quello scambio di
opinioni? Era solo curiosità intellettuale? O voleva forse mettere
alla prova le mie capacità? In tal caso, a che scopo?
– A proposito, io sono
mancino, – disse di punto in bianco, come se se ne fosse ricordato
solo in quel momento. – Anche questa è un’informazione riguardo
alla mia persona, benché non sappia se le possa tornare utile o
meno. Se mi chiedono di andare a destra o a sinistra, tendo sempre
a scegliere la sinistra. Ormai è un’abitudine.
Erano quasi le tre, cosí
ci accordammo sull’appuntamento seguente. Sarebbe venuto a casa mia
tre giorni dopo, un lunedí, all’una. E di nuovo avremmo passato un
paio d’ore nell’atelier. Di nuovo avrei provato a fare degli
schizzi del suo viso.
– Non c’è nessuna
fretta, – mi disse Menshiki. – Gliel’ho detto fin dall’inizio, si
prenda tutto il tempo che le serve. Tanto io ne ho quanto ne
voglio.
A quel punto si congedò.
Dalla finestra lo vidi andar via sulla Jaguar. Presi i diversi
schizzi che gli avevo fatto, li osservai, poi scossi la testa e li
buttai.
Nella casa c’era un
silenzio impressionante. Mi calò addosso di colpo, appena mi
ritrovai solo. Uscii sulla terrazza: non c’era vento, l’aria era
fredda e densa, sembrava gelatina. Preannunciava
pioggia.
Andai a sedermi sul
divano del soggiorno e ripassai mentalmente, dall’inizio alla fine,
tutta la conversazione che avevo avuto con Menshiki: cosa
significava per lui posare per un ritratto. Quante volte aveva
assistito all’opera di Strauss Il
cavaliere della rosa. Aveva creato
un’impresa che investiva in It, poi ne aveva venduto le azioni per
una somma considerevole. Si era ritirato dal lavoro ancora giovane.
Viveva solo in quella grande casa. Il suo nome proprio era
«Wataru». Non si era mai sposato e molto presto gli erano venuti i
capelli bianchi. Era mancino e aveva cinquantaquattro anni. Si era
espresso anche su Amada Tomohiko, che nella sua vita aveva saputo
cogliere l’opportunità di un grande cambiamento. Quindi avevamo
parlato della definizione di nihonga, e per finire lui
aveva fatto una considerazione sul rapporto fra sé e gli
altri.
Che cosa diavolo voleva
da me, quell’uomo?
E perché non ero
riuscito a disegnare la sua faccia?
Il motivo era chiaro.
Perché non avevo ancora compreso la sua essenza
profonda.
Dopo quella
conversazione, mi sentivo stranamente agitato. Al tempo stesso, la
mia curiosità nei confronti di Menshiki era cresciuta a
dismisura.
Dopo una mezz’ora
cominciarono a cadere grosse gocce di pioggia. Gli uccellini erano
spariti.
1. L’udon (spaghetti di farina di
grano duro) è una specialità del Kansai, la regione che comprende
le prefetture di Ōsaka, Kyōto e Nara. Il soba (tagliatelle di farina
di grano saraceno) è migliore nel Kantō, la regione di
Tōkyō.