Capitolo quinto
Ei non respira piú – fredde ha le membra
La prima stranezza che
avevo notato, quando ero andato a vivere in quella casa, era il
fatto di non vedere da nessuna parte un quadro che si potesse
chiamare tale. Non solo non ce n’erano appesi ai muri, ma nemmeno
nel ripostiglio, nei cassetti… niente, non ne trovai neanche uno.
Né di Amada Tomohiko, né di altri pittori. Ogni parete era nuda,
del tutto spoglia. Non si vedevano neppure buchi lasciati da
eventuali chiodi. Per quanto ne sapevo, i pittori, chi piú chi
meno, vivono circondati di quadri. Opere proprie e di altri. Senza
nemmeno accorgersene finiscono col radunarne attorno a sé una gran
quantità. Come la neve: uno la spala, ma continua a venirne
giú.
Una volta che dovetti
telefonare ad Amada Masahiko a causa di non so piú quale problema,
ne approfittai per chiedergli perché in quella casa non ci fosse
neanche un quadro. Qualcuno li aveva portati via tutti? Oppure non
ce n’erano mai stati?
– A mio padre non
piaceva avere a portata di mano le proprie opere, – mi rispose
Masahiko. – Quando ne terminava una, chiamava subito il suo
mercante di fiducia e gliela consegnava. Le opere che non finiva
perché non lo convincevano, invece, le bruciava nell’inceneritore
in giardino. Per questo in casa non ce ne sono. Non c’è niente di
strano.
– E non teneva neanche
quadri di altri pittori?
– Ne aveva quattro o
cinque. Un Matisse, un Braque… Quadri di piccole dimensioni, li
aveva comprati in Europa prima della guerra. Se li era procurati
tramite un conoscente, quindi pare che non li avesse pagati molto
cari. Adesso hanno un valore altissimo. Quando mio padre è stato
ricoverato in quell’istituto per anziani, quei quadri li ho dati in
custodia a un mercante d’arte mio amico. Non era pensabile
lasciarli in una casa disabitata. Credo che ora si trovino nel
caveau di qualche banca. A parte quei pochi, altri quadri in quella
casa non ne ho mai visti. Il fatto è che mio padre non aveva
simpatia per gli artisti che facevano il suo stesso mestiere. E
loro lo ricambiavano con la stessa moneta, ovviamente. Era un lupo
solitario, per essere gentili. O una cornacchia che si è staccata
dallo stormo, fai tu.
– Tuo padre è stato a
Vienna dal ’36 all’inizio del ’39, vero?
– Sí, per poco piú di
due anni. Perché abbia scelto Vienna, però, non saprei. A lui
piacevano soprattutto i pittori francesi.
– E quando è tornato in
Giappone, di colpo si è convertito alla corrente
nihonga, –
proseguii. – Cosa l’avrà spinto a una svolta cosí radicale? Gli è
successo qualcosa mentre viveva a Vienna?
– Mah, questo è un po’
un mistero. Mio padre non ne ha mai parlato volentieri, del periodo
di Vienna. Raccontava solo cose di poca importanza. Lo zoo
municipale, il cibo, il teatro… Tanto per cominciare, è un uomo che
non dice quasi mai niente di sé. E io non osavo chiedergli nulla.
Abbiamo quasi sempre vissuto lontani l’uno dall’altro, ci
incontravamo solo ogni tanto. Per me, piú che un padre, era come un
parente, uno zio che qualche volta veniva a trovarci. Poi, da
quando ho iniziato le medie, la sua presenza si è fatta via via piú
pesante, cosí ho cercato di tenermi a distanza da lui. Non gli ho
chiesto consiglio nemmeno quando mi sono iscritto all’Accademia.
Non posso dire che il mio ambiente famigliare fosse davvero
opprimente, ma non era neanche sereno. Capisci cosa intendo,
no?
– Sí, grosso
modo.
– In ogni caso, i
ricordi di mio padre ormai sono evaporati dalla sua memoria. O sono
sprofondati in fondo a un pantano. Gli puoi chiedere quello che
vuoi, non ti risponderà. Non mi riconosce piú. Probabilmente non sa
piú nemmeno chi è. Forse avrei dovuto chiedergli tante cose prima
che si riducesse cosí. A volte lo penso. Ma ormai è
tardi.
Masahiko rimase qualche
secondo in silenzio, forse stava riflettendo.
– Ma perché volevi
sapere queste cose? – mi chiese poi. – Come mai questo interesse
per mio padre, è successo qualcosa?
– No, no, niente del
genere, – risposi. – Semplicemente, vivendo in questa casa, sento
la sua presenza un po’ ovunque. Cosí ho fatto una piccola ricerca
su di lui in biblioteca.
– La sua
presenza?
– Come dei segni della
sua esistenza.
– Dev’essere una brutta
sensazione.
– No, – dissi scuotendo
la testa, – non è una sensazione sgradevole, davvero. Semplicemente
sento che Amada Tomohiko è qui. Nell’aria.
Di nuovo Masahiko
tacque.
– Il fatto è che mio
padre ha vissuto in quella casa a lungo, – riprese dopo un po’, – e
vi ha lavorato molto. Non è strano che si senta ancora la sua
presenza. Infatti anch’io, se devo essere sincero, preferisco non
andarci da solo.
Lo ascoltavo senza
fiatare.
– Come ti ho già detto,
per me Amada Tomohiko era soltanto un uomo scorbutico e
ingombrante. Se ne stava sempre chiuso nel suo atelier a dipingere,
sempre di cattivo umore. Era di poche parole, e non sapevi mai cosa
gli passasse per la testa. Nei periodi in cui viveva in casa con
noi, mia madre mi diceva sempre: «Mi raccomando, non disturbare tuo
padre mentre lavora». Non potevo parlare a voce alta o correre.
Agli occhi del mondo era una persona famosa, un pittore
quotatissimo, d’accordo, ma per un bambino piccolo era solo una
presenza fastidiosa. E quando ho iniziato a studiare all’Accademia,
mio padre per me è diventato un peso insopportabile. Ogni volta che
pronunciavo il mio nome, mi sentivo chiedere: «Parente di
quell’Amada
Tomohiko?» Al punto che ho anche ipotizzato di cambiare cognome.
Adesso non credo che fosse poi una cattiva persona. A suo modo, mi
voleva bene. Ma non era il tipo da riversare il suo affetto sul
figlio senza riserve. Era il suo modo di essere e non ci potevo
fare nulla. Per lui la cosa piú importante era la pittura.
Probabilmente essere un artista significa proprio
questo.
– Forse.
– Be’, allora io non
sono un artista, – disse Masahiko con un sospiro. – È l’unica cosa
che ho imparato da mio padre.
– Una volta, se non mi
sbaglio, mi hai detto che tuo padre da giovane si è tolto molti
capricci, ha fatto quello che ha voluto…
– Sí. Be’, quando sono
nato io aveva cambiato abitudini da un po’, ma da giovane si è
divertito. Era un ragazzo viziato di una ricca famiglia di
provincia, alto, con un bel viso, e un gran talento per la pittura.
Ovvio che attirasse le donne. Quanto a lui, per le donne andava
pazzo. Pare che diverse volte la sua famiglia sia dovuta
intervenire per sistemare a suon di quattrini qualche problemino.
Quando è tornato da Vienna, però, a sentire i miei parenti era
diventato un’altra persona.
– Un’altra
persona?
– Sí, ha smesso di
folleggiare. Si è chiuso in casa e si è dedicato esclusivamente
alla pittura. In pratica era diventato un orso. La seconda volta
che si è trasferito a Tōkyō, per un po’ è rimasto scapolo, ma
appena è stato in grado di mantenersi con il suo lavoro,
all’improvviso ha sposato mia madre, che aveva un lontano legame
con il suo paese d’origine. Come se volesse chiudere il cerchio
della sua vita. Un matrimonio piuttosto tardivo. Poi sono nato io.
Non so se una volta sposato abbia ancora avuto delle avventure con
altre donne, ma in ogni caso ha smesso di attirare l’attenzione per
la sua sregolatezza.
– Un cambiamento
radicale.
– Sí. Per la gioia dei
suoi genitori. Da quando è tornato in Giappone, non ha piú creato
problemi con storie di donne. Cosa fosse successo a Vienna, però,
per quale motivo avesse abbandonato lo stile occidentale per la
corrente nihonga, nessuno dei miei parenti ha saputo dirmelo. Su tutto
quel periodo mio padre ha sempre tenuto la bocca chiusa, peggio di
un’ostrica.
Ormai aprire
quell’ostrica era inutile, non conteneva piú nulla. Ringraziai
Masahiko e riattaccai.
Fu per puro caso che
trovai il quadro di Amada Tomohiko dallo strano titolo
L’assassinio del
Commendatore.
Ogni tanto la notte
sentivo dei leggeri rumori, dei fruscii, sul soffitto della camera
da letto. All’inizio pensai che nel sottotetto fossero entrati dei
topi, o degli scoiattoli. Poi capii che non si trattava del rumore
che fanno le zampe di piccoli roditori. Nemmeno quello di un
serpente che striscia. Ricordava piuttosto il suono che si fa
quando si appallottola della carta oleata. Non era tanto forte da
impedirmi di dormire, ma la presenza in casa di chissà quale
creatura misteriosa mi preoccupava. Poteva anche trattarsi di un
animale che faceva danni.
Dopo aver cercato da
tutte le parti, finii per scoprire, nello spogliatoio della camera
degli ospiti, una botola sul soffitto. Un’apertura quadrata che
misurava circa ottanta centimetri per lato, dalla quale si poteva
salire nel sottotetto. Andai a prendere una scaletta di alluminio
nel ripostiglio, e provvisto di una torcia elettrica sollevai la
botola. Sporsi con cautela la testa al di sopra del bordo e mi
guardai attorno. Nel sottotetto c’era piú spazio di quanto avessi
pensato. Due fori d’aerazione sui due lati lasciavano passare un
po’ di luce. Diressi il raggio luminoso della torcia qua e là nella
penombra, ma non vidi niente. Per lo meno, nulla che si muovesse.
Allora mi decisi a salire.
C’era odore di chiuso,
ma non tanto da dare fastidio. Sul pavimento non si era depositata
molta polvere: in qualche modo il passaggio dell’aria doveva essere
buono. Alcune grosse travi basse correvano da un’estremità
all’altra, ma se si evitava di passarci sotto, si poteva stare in
piedi. Avanzai con prudenza, lentamente, e ispezionai i fori
d’aerazione. Erano entrambi muniti di griglie di metallo che
impedivano l’ingresso agli animali, ma nella griglia a nord c’era
uno squarcio. Forse l’aveva causato qualcosa andandoci a sbattere.
Oppure l’aveva aperto intenzionalmente un animale, per entrare. In
ogni caso, era un buco dal quale un animaletto poteva passare
facilmente.
Poi vidi il responsabile
dei rumori notturni. Se ne stava acquattato su una trave,
nell’oscurità. Era un piccolo gufo grigio. Teneva gli occhi chiusi
e probabilmente dormiva. Spensi la torcia e lo osservai in silenzio
da una certa distanza, per non spaventarlo. Era la prima volta che
vedevo un gufo da tanto vicino. Piú che un uccello, sembrava un
gatto con le ali. Una bellissima creatura vivente.
Forse passava la
giornata a riposare lí dentro, e quando faceva notte, attraverso il
buco nella griglia se ne andava a cercare le sue prede sui monti.
Quindi era il rumore che faceva entrando e uscendo a disturbarmi.
Il gufo non causava danni. Inoltre la sua presenza avrebbe tenuto
lontani topi e serpenti. Bastava lasciarlo lí dov’era. Mi ci
affezionai subito, mi venne naturale. Per caso convivevamo in
quella casa che entrambi avevamo preso in affitto. Poteva stare in
quel sottotetto quanto voleva. Dopo averlo osservato per un po’, mi
ritirai in punta di piedi. Fu allora che notai un grosso pacco di
fianco alla botola.
Mi bastò vederlo, per
capire che si trattava di un quadro incartato. Le dimensioni erano
di circa un metro per un metro e mezzo. Era ben avvolto nella carta
da pacco marrone, e legato con piú giri di spago. Nel sottotetto
non c’era altro. I deboli raggi di luce che entravano dai fori di
aerazione, il gufo grigio fermo sulla trave, un quadro incartato e
appoggiato a una parete. Nella combinazione di quelle tre cose
c’era qualcosa di chimerico che mi affascinava.
Provai a sollevare il
pacco con cautela. Non era pesante. La tela doveva avere una
cornice molto sobria. L’involucro era un po’ impolverato. Chissà da
quanto tempo era lí, lontano dagli occhi di tutti. Alla corda era
attaccata con del fil di ferro un’etichetta, sulla quale c’era
scritto col pennarello blu L’assassinio del Commendatore. Una calligrafia chiara, pulita. Verosimilmente si
trattava del titolo dell’opera.
Perché soltanto quel
quadro era stato nascosto nel sottotetto? Lo ignoravo. Pensai al da
farsi. La cosa piú ovvia e piú corretta era lasciarlo lí dov’era.
Quella era la casa di Amada Tomohiko, e il quadro apparteneva senza
ombra di dubbio a lui (probabilmente era una sua opera). Per
qualche motivo personale, aveva deciso di nasconderlo perché non lo
vedesse nessuno. Stando cosí le cose, dovevo lasciarlo nel
sottotetto in compagnia del gufo, senza prendere iniziative
personali. Non era una cosa che mi riguardasse.
Tuttavia, per quanto
sensato fosse il mio ragionamento, non soddisfaceva la curiosità
che sentivo nascere dentro di me. Ad affascinarmi era soprattutto
il titolo − se di titolo si trattava. Che genere di quadro poteva
mai essere? E perché Amada Tomohiko era stato obbligato a
nasconderlo lí, l’unico fra tutti quelli che aveva
dipinto?
Presi il pacco per
vedere se passava dalla botola. Se era stato portato su, a rigor di
logica lo si poteva anche portare giú. Non c’erano altre vie di
accesso al sottotetto. Provai. Come avevo previsto, tenuto in
diagonale passava al pelo attraverso l’apertura quadrata. Immaginai
Amada Tomohiko mentre lo issava. Probabilmente era solo, con un
segreto nel cuore. Vedevo la scena in modo piú vivido che se vi
avessi assistito con i miei occhi.
Se anche fosse venuto a
sapere che avevo tirato fuori dal suo nascondiglio quel quadro,
Amada Tomohiko non se la sarebbe presa. Ormai la sua volontà era in
fondo a un pantano. «Non capisce nemmeno la differenza tra un’opera
lirica e una padella», aveva detto suo figlio. Tanto per
cominciare, non sarebbe piú tornato in quella casa. Inoltre, visto
che la griglia di un foro d’aerazione era squarciata, se il quadro
fosse rimasto ancora nel sottotetto, non era escluso che prima o
poi i topi o gli scoiattoli lo rosicchiassero. O che lo mangiassero
i vermi. E questo avrebbe costituito una grossa perdita per la
cultura, se veramente era un’opera di Amada Tomohiko.
Feci scivolare il pacco
su uno scaffale dello spogliatoio, salutai con la mano il gufo che
se ne stava sempre sulla sua trave, scesi e chiusi la botola senza
fare rumore.
Non tolsi subito il
quadro dal suo involucro di carta marrone. Per alcuni giorni lo
lasciai cosí com’era, appoggiato a una parete dell’atelier. Seduto
per terra, restavo ore a guardarlo. Non riuscivo a decidermi se
liberarlo dalla carta o no. Comunque la si vedesse, era un diritto
che non potevo arrogarmi, considerato che il quadro apparteneva a
qualcun altro. Se proprio desideravo farlo, dovevo per lo meno
avere il permesso del figlio di Amada, Masahiko. Peccato che non
avessi nessuna voglia di metterlo al corrente dell’esistenza di
quell’opera. Avevo l’impressione che si trattasse di una faccenda
personale tra me e Amada Tomohiko. Una strana idea che mi si era
formata in testa per motivi che non saprei spiegare nemmeno io. In
ogni caso, era qualcosa che sentivo profondamente.
Osservai quel quadro −
se di un quadro si trattava − avvolto in carta da pacchi e legato
con parecchi giri di spago, fino quasi a bucarlo con lo sguardo.
Considerai diverse possibilità, e alla fine presi la decisione di
tirarlo fuori dal suo involucro. La mia curiosità ostinata ebbe la
meglio sulla correttezza e il buon senso. Potevano considerarla una
curiosità professionale, visto che ero anch’io un pittore. In ogni
caso, qualunque fosse lo stimolo che mi pungolava, morivo dalla
voglia di vedere cosa c’era lí dentro. Quindi, incurante delle mie
motivazioni, andai a prendere le forbici e tagliai lo spago. Poi
tolsi la carta facendo attenzione a non strapparla, in modo da
poter rifare il pacco se necessario.
Sotto diversi strati di
carta, avvolta in un morbido panno bianco, c’era una tela bordata
da una semplice cornice. Scostai con delicatezza il panno. Mi
muovevo con estrema cautela, come se sollevassi le bende a una
persona gravemente ustionata.
Le mie previsioni erano
azzeccate: quella che apparve era un’opera in stile
nihonga. Dipinta
nel senso della larghezza. Posai il quadro su uno scaffale e lo
osservai da una certa distanza.
Non c’erano dubbi,
l’autore era Amada Tomohiko. Lo stile era inconfondibilmente il
suo, la tecnica pure. Grandi spazi bianchi, una composizione
dinamica; una scena in cui erano raffigurati uomini e donne che
dall’aspetto − i vestiti, la foggia delle pettinature − sembravano
appartenere al periodo Asuka. Davanti a quel quadro, rimasi
sbalordito: era di una violenza da togliere il fiato.
Per quanto ne sapevo io,
Amada Tomohiko non aveva mai dipinto scene brutali. Forse nemmeno
una volta. Per lo piú prediligeva soggetti tranquilli e pacifici
soffusi di nostalgia. Anche quando sceglieva un soggetto storico, i
suoi personaggi si inserivano senza traumi nel contesto. Vivevano
in armonia all’interno di una piccola comunità, nella natura
lussureggiante dei tempi antichi. Erano partecipi di una volontà
comune, o godevano di un pacifico destino condiviso. Il cerchio del
mondo si chiudeva serenamente. Per Amada quel mondo antico era una
sorta di utopia. L’aveva dipinto da diversi angoli e punti di
vista. In uno stile che in molti chiamavano «negazione della
modernità», o «ritorno all’antico». Naturalmente c’era anche
qualcuno che lo definiva «fuga dalla realtà». Fatto sta che, quando
era tornato in Giappone dopo gli studi a Vienna, aveva abbandonato
la pittura a olio di tendenza modernista e si era chiuso nel suo
placido mondo. Senza dare spiegazioni a nessuno.
In quel quadro
intitolato L’assassinio del
Commendatore, invece, scorreva il
sangue. Fiumi di sangue. Due uomini si affrontavano con pesanti
spade di foggia antica. In un duello, si sarebbe detto. Uno era
giovane, l’altro vecchio. Il primo aveva affondato la spada nel
petto del secondo. L’uomo giovane aveva dei sottili baffetti neri e
indossava abiti aderenti, di un pallido verde assenzio. Il vecchio
era avvolto in una veste bianca e aveva una magnifica barba
candida. Al collo portava una collana di perle. Aveva lasciato
cadere la spada, ora abbandonata al suolo. Il rivale doveva avergli
trafitto l’aorta, perché dal suo petto il sangue sgorgava
abbondante. E macchiava di rosso il suo abito bianco. La sofferenza
gli deformava la bocca. Gli occhi erano spalancati e guardavano con
tristezza nel vuoto. Capiva di essere stato sconfitto. Ma il vero
dolore non era ancora arrivato.
Negli occhi del giovane,
che fissava il suo avversario dritto in faccia, c’era
un’espressione gelida. Non il minimo barlume di rimpianto,
perplessità o compassione. Neppure di eccitazione. Quegli occhi
assistevano con estrema calma alla morte imminente di un rivale, e
alla propria sicura vittoria. Il sangue che zampillava ne era solo
una prova. Nulla di piú.
A dire la verità, avevo
sempre considerato la corrente nihonga un’arte votata a
raffigurare un mondo sereno e formale. Che le tecniche e i soggetti
tipici non fossero adatti a esprimere forti emozioni. Un mondo con
il quale non avevo nulla a che fare, insomma. Tuttavia, davanti
all’Assassinio del Commendatore
di Amada Tomohiko, compresi che quella mia
idea era del tutto arbitraria. Nella rappresentazione di quel
cruento duello che metteva in gioco la vita di due uomini, c’era
qualcosa che turbava profondamente. Il vincitore e il vinto. L’uomo
che aveva sferrato il colpo e quello che era stato trafitto. Ero
affascinato da quel contrasto. In quel quadro c’era qualcosa di
speciale.
Altre persone
assistevano al duello. Una di queste era una giovane donna.
Indossava un elegante abito bianco. I suoi capelli erano tirati su
in una voluminosa crocchia. Con una mano si copriva la bocca
leggermente aperta. Sembrava che trattenesse il fiato, che fosse
sul punto di gridare. Gli occhi, bellissimi, erano
sgranati.
C’era poi un altro
giovane uomo. I suoi abiti non erano granché. Scuri, disadorni,
adatti al movimento. Ai piedi portava semplici sandali di paglia.
Sembrava un domestico o qualcosa del genere. Non aveva la spada, al
fianco portava soltanto un corto pugnale. Era basso e tracagnotto,
il mento coperto da una rada barbetta. Nella mano sinistra teneva
una specie di quaderno che ricordava le tavolette a fermaglio che
si usano adesso negli uffici, mentre protendeva la destra verso il
cielo, quasi volesse afferrare qualcosa. Dalla scena, non si capiva
se fosse al servizio del vecchio, del giovane o della donna. Una
cosa mi sembrava di comprendere: quel duello era l’esito dello
sviluppo rapidissimo di una situazione precedente, e né la donna né
il domestico l’avevano previsto. Lo provava l’espressione
sbalordita che avevano sul viso.
Dei quattro, l’unico a
non mostrare sorpresa era il giovane assassino. Probabilmente non
c’era nulla in quella circostanza che potesse stupirlo. Non era un
assassino per natura, né provava piacere a uccidere. Ma se aveva
uno scopo, non esitava a togliere la vita a una persona. Era un
uomo giovane, animato da desideri ardenti (anche se non sapevo
quali), pieno di energia. Ed era molto abile a usare la spada. Non
era sorprendente per lui vedere quel vecchio ormai in declino
morire per mano sua. Al contrario, era probabile che trovasse la
cosa naturale e giusta.
C’era poi un altro,
strano testimone. In basso a sinistra, come una nota a piè di
pagina in un libro, si vedeva un uomo. Aveva sollevato a metà una
botola nel terreno e da lí sporgeva la testa. La botola era
quadrata, sembrava fatta di assi di legno. Mi ricordava quella che
dava accesso al sottotetto in quella casa. Per forma e grandezza
era uguale. Da lí, l’uomo guardava le quattro persone che si
trovavano in superficie.
Una botola nel terreno?
Un tombino quadrato? Figurarsi! Nel periodo Asuka non esistevano
fognature. Inoltre il duello avveniva all’esterno, in un posto dove
non c’era assolutamente nulla. Sullo sfondo erano dipinti solo dei
pini dai rami bassi. Perché in un luogo del genere era stato
praticato un buco dotato di un coperchio?
Anche l’uomo che
sporgeva la testa da lí aveva qualcosa di molto strano. La sua
faccia era lunga e stretta come una melanzana storta, completamente
coperta dalla barba, i capelli lunghi e arruffati. Sembrava un
vagabondo, un tipo che aveva abbandonato la società e viveva
nascosto. O anche un demente. Il suo sguardo però era penetrante,
brillava addirittura di perspicacia. Una perspicacia che non pareva
dovuta a una brillante intelligenza, tuttavia, ma piuttosto
generata per caso da una sorta di deviazione − magari la follia.
Impossibile dire com’era vestito, dato che lo si vedeva soltanto
dal collo in su. Anche lui sembrava osservare il duello. Senza
peraltro stupirsi dell’esito. Anzi, dal modo in cui guardava, dava
l’impressione di assistere a qualcosa il cui esito era scontato. O
di voler controllare come si stavano svolgendo le cose, quasi per
scrupolo. La giovane e il servo non si erano accorti della presenza
alle loro spalle di quell’uomo dalla faccia lunga. La violenza del
duello li aveva paralizzati. Nessuno dei due pensava a voltarsi
indietro.
Chi poteva mai essere,
quel personaggio? Cosa ci faceva, nascosto in quel buco nella
terra, a quei tempi? A quale scopo Amada Tomohiko era andato a
dipingere in un angolo della tela quell’enigmatico e misterioso
individuo, come se volesse distruggere a tutti i costi l’equilibrio
della composizione?
Inoltre, perché aveva
intitolato il quadro L’assassinio del
Commendatore? Nella scena un uomo di
alto rango veniva ucciso, era vero. Tuttavia a quel vecchio
abbigliato nella foggia dell’epoca Asuka l’appellativo
«Commendatore» non si addiceva affatto. Il titolo di Commendatore
era qualcosa che apparteneva al Medioevo o all’epoca premoderna
europea. Nella storia giapponese quella funzione non esisteva.
Eppure Amada Tomohiko aveva dato al quadro quel titolo dalla
risonanza misteriosa. Doveva esserci una ragione.
Quella parola,
«Commendatore», risvegliava qualcosa nella mia memoria. L’avevo già
sentita. Risalii il corso dei miei ricordi, come se riavvolgessi un
filo sottile. Era in qualche romanzo o in qualche canzone. Sí, in
un’opera famosa, probabilmente… ma quale?
Poi, di colpo, mi tornò
in mente: era nel Don Giovanni
di Mozart! Se ricordavo bene, l’opera si
apriva con una scena intitolata L’assassinio del Commendatore. Andai nel soggiorno, dallo scaffale dei dischi presi un
cofanetto che conteneva un set di lp del Don Giovanni, scorsi con gli
occhi la nota introduttiva. Verificai: sí, a venire ucciso nella
scena iniziale era proprio il Commendatore.
Nel libretto dell’opera,
il vecchio assassinato era chiamato soltanto «Il Commendatore», in
italiano. Nella nota introduttiva invece qualcuno aveva tradotto
quella parola in giapponese, kishidanchō, e aveva poi
usato sempre quella. Ignoravo che ruolo o posizione sociale avesse
in realtà un Commendatore. Non trovai spiegazioni in proposito da
nessuna parte. Nell’opera il ruolo del Commendatore, di cui non
viene mai detto il nome, consiste solo nel venire ucciso all’inizio
da Don Giovanni. Alla fine ritorna trasformato in un terrificante
fantasma, che appare al suo assassino per portarlo
all’inferno.
A pensarci bene, era
tutto chiaro. Il bel giovane dipinto nella scena era il libertino
Don Giovanni (in spagnolo Don Juan), il vecchio che veniva ucciso
era l’illustre Commendatore, la ragazza Donna Anna, la sua
bellissima figlia. Il domestico era Leporello, al servizio di Don
Giovanni. Nel quaderno che teneva in mano segnava le donne sedotte
dal suo padrone fino a quel giorno, una lunga lista. Don Giovanni
desiderava ardentemente Donna Anna, aveva sfidato a duello il padre
di lei che gli era d’ostacolo e l’aveva trafitto a morte. Era una
scena famosa. Come avevo fatto a non rendermene conto
prima?
Un’opera di Mozart e un
dipinto della corrente nihonga
ispirato al periodo Asuka erano due realtà
troppo lontane per poter essere associate. Come avrei potuto
collegarle? Ma appena compresi, tutto mi divenne chiaro. Amada
Tomohiko aveva «adattato» il mondo di Mozart all’antico Giappone.
Era di sicuro un esperimento interessante. Lo ammettevo. Ma perché
l’aveva fatto? Non c’entrava niente con i suoi soggetti abituali. E
perché aveva poi imballato con cura il quadro per nasconderlo nel
sottotetto, cosa l’aveva costretto a farlo?
Inoltre, che significato
aveva la presenza di quel personaggio dalla faccia lunga, che
sporgeva la testa da un buco nella terra? Nell’opera di Mozart non
compariva. Amada l’aveva introdotto nella scena con qualche
obiettivo preciso. Quanto a Donna Anna, nel Don Giovanni non assisteva
all’uccisione di suo padre. Era corsa a cercare aiuto dal suo
innamorato, il cavaliere Don Ottavio. E quando insieme a lui era
tornata indietro, aveva trovato il padre ucciso. Nel quadro
l’impostazione dell’opera lirica era stata alterata con maestria da
Amada Tomohiko, di sicuro per dare piú drammaticità alla scena.
Riguardo all’uomo che sporgeva la testa dalla terra, però, era
difficile pensare che fosse Don Ottavio. Dal suo aspetto, era
chiaro che non apparteneva al mondo dei nobili. Che non poteva
essere il cavaliere senza macchia e senza paura corso in aiuto di
Donna Anna.
Era forse un demone
uscito dall’inferno? Venuto in avanscoperta, nell’attesa di
trascinare via con sé Don Giovanni? No, per quanto lo osservassi,
non riuscivo a convincermi che fosse un demone o uno spirito
maligno. Lo sguardo di un demone non avrebbe avuto quella strana
luce negli occhi. Gli spiriti maligni non sollevano botole di legno
quadrate per sporgere fuori la faccia, facendosi vedere da tutti.
Quel personaggio era lí per giocare qualche brutto tiro. Mi venne
da chiamarlo «Faccialunga».
Per alcune settimane
continuai in silenzio a esaminare quel quadro. Con quella scena
davanti agli occhi, non sentivo nascere in me alcun desiderio di
dipingere un quadro mio. Non avevo neanche voglia di fare veri e
propri pasti. Prendevo della verdura dal frigo, ci mettevo sopra
della maionese e la mangiavo cosí. Oppure aprivo del cibo in
scatola che avevo comprato per avere qualche riserva e lo scaldavo
in una pentola. Tutto qui. Seduto sul pavimento dell’atelier,
ascoltavo di continuo il Don
Giovanni di Mozart e osservavo senza
mai stancarmene L’assassinio del
Commendatore. Quando calava la sera,
sempre di fronte a quella scena, bevevo un bicchiere di
vino.
Era un quadro magnifico.
Però, per quanto ne sapevo io, non apparteneva ad alcun periodo
dell’opera di Amada Tomohiko. Nessuno era al corrente della sua
esistenza. Se fosse stato esposto al pubblico, probabilmente
sarebbe diventato un’opera fondamentale nel percorso artistico del
Maestro. Se ci avessero fatto una mostra, l’avrebbero usato come
poster pubblicitario. Il quadro non solo era dipinto in modo
magnifico, possedeva anche una forza non comune. Chiunque avesse
avuto anche solo un’infarinatura di arte non poteva negarlo. C’era
in quella tela qualcosa che emozionava, che arrivava nel profondo.
Era in grado di suggestionare, di far volare la
fantasia.
C’era anche un’altra
cosa, non riuscivo a staccare gli occhi dal personaggio barbuto
nell’angolo sinistro, da «Faccialunga». Adesso avevo l’impressione
che avesse aperto la botola per invitare me, proprio me, a seguirlo
nel mondo sotterraneo. Proprio me, nessun altro. E in realtà morivo
dalla voglia di sapere come fosse, il mondo là sotto. Ma lui da
dov’era venuto? Cosa ci faceva, lí? Prima o poi avrebbe richiuso la
botola? L’avrebbe aperta del tutto?
Guardando quel quadro,
ascoltavo e riascoltavo il primo atto del Don Giovanni. La terza scena
dopo l’ouverture. Finii per imparare a memoria le parole del
libretto:
DONNA
ANNA:
Ah, l’assassino mel
trucidò!
Quel sangue – quella
piaga – quel volto,
tinto e coperto del
color di morte –
ei non respira piú
–
fredde ha le
membra
padre mio!… caro padre!…
padre amato!…
io manco… io
moro.