Capitolo dodicesimo
Come quel postino sconosciuto
Iniziò a piovere nelle
prime ore del mattino, ma smise poco prima delle dieci. Poi nel
cielo cominciarono ad aprirsi degli squarci di azzurro. Il vento
umido che soffiava dal mare spostava lentamente le nubi verso nord.
Menshiki arrivò all’una precisa del pomeriggio. Suonò il campanello
nello stesso momento in cui alla radio davano il segnale orario. Di
persone puntuali ne esistono tante, ma precise a tal punto ne
conosco poche. E non è che avesse atteso davanti alla porta,
seguendo sull’orologio da polso la lancetta dei secondi per suonare
all’una spaccata. No, era venuto su dalla salita, aveva
parcheggiato la macchina al solito posto, aveva percorso la
distanza fino alla porta di casa con il solito passo e la solita
postura e aveva schiacciato il campanello nel momento preciso in
cui la radio annunciava che era l’una. Un sincronismo
prodigioso.
Lo accompagnai
nell’atelier e lo feci sedere sulla stessa sedia della volta
precedente. Misi Il cavaliere della
rosa di Richard Strauss sul piatto
dello stereo, posai la puntina. Era il lato B dell’lp che avevamo
già ascoltato. Rifeci tutto nello stesso ordine. Introdussi solo un
cambiamento: non gli offrii niente da bere. Gli chiesi di mettersi
in posa. Di restare seduto, ma voltato di tre quarti. Lo sguardo
leggermente spostato verso di me.
Lui seguí docilmente le
mie indicazioni, ma per trovare la posizione e l’atteggiamento
giusti gli ci volle un bel po’ di tempo. L’angolazione e lo sguardo
non corrispondevano esattamente a quelli che chiedevo io. Anche
l’illuminazione non collimava con l’immagine che avevo in mente. Di
solito non mi servo di un modello, ma quando lo faccio, ho la
tendenza a imporre molte cose. Menshiki tuttavia si adattava con
pazienza alle mie noiose richieste. Non si mostrò mai infastidito,
non protestò mai. Mi fece l’impressione di un uomo passato
attraverso tante prove dolorose, ormai esperto nel
sopportarle.
Quando finalmente mi
ritenni soddisfatto, gli dissi:
– Ora mi scusi, ma
dovrebbe restare fermo cosí il piú a lungo possibile.
Lui non rispose, mi fece
cenno che aveva capito con un piccolo movimento degli
occhi.
– Cercherò di finire in
fretta. Sarà un po’ faticoso, ma porti pazienza.
Mi rassicurò nello
stesso modo. E restò immobile, lo sguardo fisso. Non mosse nemmeno
un muscolo, alla lettera. Ogni tanto batteva le palpebre,
altrimenti non lo si vedeva nemmeno respirare. Sembrava una statua
vivente. Non potevo fare a meno di esserne impressionato. Neanche i
modelli professionisti erano capaci di tanto.
Mentre Menshiki posava
stoico sulla sua sedia, io portavo avanti il lavoro con gesti
rapidi e sicuri. Misuravo con gli occhi la sua figura, molto
concentrato, poi riproducevo sulla tela l’immagine che mi suggeriva
il mio intuito. Modellavo il viso che avevo già abbozzato
tracciando una sola linea nera con un pennello fine. Non avevo
tempo di cambiare pennello. Dovevo cogliere gli elementi essenziali
del suo volto nel modo piú somigliante, ma in fretta. A quel punto,
il lavoro sarebbe progredito da solo, come in modalità «pilota
automatico». Bypassando la testa e collegando direttamente tra loro
lo sguardo e il movimento della mano. Era un momento cruciale. Non
potevo prendere consapevolmente in considerazione ogni dettaglio
presente nel mio campo visivo.
Il lavoro che mi veniva
chiesto era molto diverso da quelli che avevo eseguito fino ad
allora − opere che potevo dipingere per lavoro col mio ritmo,
basandomi solo sulla mia memoria e su alcune fotografie. In
quindici minuti avevo riprodotto sulla tela le sembianze di
Menshiki dal petto in su. Era ancora un abbozzo grossolano lungi
dall’essere terminato, ma per lo meno la figura aveva una sua
vitalità. Trasmetteva la sensazione che la persona di Menshiki
Wataru fosse lí, presente; coglieva e liberava quel che si potrebbe
chiamare il suo ritmo interiore. Tuttavia, dal punto di vista della
raffigurazione di un corpo umano, si limitava all’ossatura e ai
muscoli. Era solo l’interno, audacemente messo a nudo. Dovevo
ancora completarlo.
– La ringrazio per la
sua pazienza, – dissi. – Prego, si muova pure. Per oggi abbiamo
finito.
Menshiki sorrise e
cambiò posizione. Stirò le braccia verso l’alto, respirò a fondo.
Poi rilassò i muscoli del viso che aveva controllato per tutto quel
tempo, si massaggiò lentamente la faccia con le dita di entrambe le
mani. Nel frattempo io continuavo ad ansimare, ci misi parecchio a
riconquistare una respirazione regolare: ero sfiatato come un
atleta cha abbia appena finito di correre i cento metri. Mi ero
applicato al quadro con una concentrazione e una rapidità che non
ammettevano compromessi, ed era da molto che non mi dedicavo a
un’attività che richiedesse queste doti. Avevo risvegliato muscoli
a lungo addormentati per farli lavorare a pieno ritmo. Quindi ero
stanco, ma provavo anche una specie di piacere fisico.
– Aveva ragione lei.
Posare per un quadro è molto piú impegnativo di quanto avessi
immaginato, – disse Menshiki. – Al pensiero che si viene dipinti,
poco per volta si ha l’impressione che ci venga portata via
l’anima.
– Non portata via, ma
spostata da un’altra parte. Che, in fondo, se uno ci pensa, è una
buona definizione di arte, – risposi.
– Spostata in un luogo
piú duraturo, cioè?
– Certo. Se il ritratto
è un’opera d’arte, sí.
– Come quel postino
sconosciuto raffigurato da Van Gogh, ad esempio?
–
Esattamente.
– Di sicuro quell’uomo
non se lo immaginava nemmeno lontanamente che dopo cento e passa
anni la gente sarebbe andata in un museo, o avrebbe aperto un libro
d’arte, solo per poterlo ammirare immortalato in quel
quadro.
– Su questo non ci sono
dubbi, non gli sarà nemmeno venuto in mente.
– Per lui sarà stato
solo un quadro stravagante, dipinto in un angolo di una misera casa
di campagna da un pittore che doveva sembrargli un po’
spostato…
Annuii.
– Fa uno strano effetto,
a pensarci – proseguí Menshiki. – Qualcuno, che non possiede nulla
per essere ricordato in eterno, finisce per acquisire questa
prerogativa grazie a un incontro casuale.
– Una cosa che succede
di rado.
Di colpo mi tornò in
mente il quadro L’assassinio del
Commendatore. Anche lí il vecchio che
veniva ucciso in quella scena, grazie ad Amada Tomohiko, viveva in
eterno. Ma chi era, il Commendatore?
Offrii a Menshiki un
caffè. Accettò con piacere. Io andai in cucina, lui rimase
nell’atelier ad ascoltare Il cavaliere
della rosa. Quando il lato B del disco
terminò, il caffè era pronto, cosí ci spostammo tutti e due nel
soggiorno.
– Allora? Le sembra che
il mio ritratto stia venendo bene? – mi chiese sorseggiando
elegantemente il suo caffè.
– Ancora non lo so, –
gli risposi sincero. – Non sono assolutamente in grado di
giudicare. Perché lo sto facendo con un metodo molto diverso da
quello che ho sempre usato.
– Perché non ha
l’abitudine di dipingere una persona dal vivo, cioè?
– Sí, c’è anche
quest’aspetto, ma non è tutto. Pare che non riesca piú a fare un
ritratto convenzionale. Di conseguenza ho bisogno di usare un
metodo, un procedimento differente. Ma è un percorso che non
padroneggio ancora bene. Sono nella condizione di chi avanza a
tastoni nell’oscurità.
– Insomma, lei adesso
sta cambiando stile. E a svolgere il ruolo di catalizzatore di
questa svolta sono io. È questo che mi sta dicendo?
– Sí, può darsi che le
cose stiano proprio cosí.
Menshiki rifletté un
momento.
– Come le ho già detto,
lei è libero di dipingere nello stile che preferisce. Io stesso
sono un uomo sempre alla ricerca di cambiamenti. Né ho mai avuto
intenzione di farmi fare un ritratto convenzionale. Mi va bene
qualunque stile, qualunque concezione. Quello che desidero è che
lei dia forma alla mia immagine quale la vedono i suoi occhi. Il
metodo, il procedimento sono affar suo. Non ho alcun desiderio di
consegnare il mio nome alla storia come quel postino di Arles. Non
ho tanta ambizione. Ho solo una sana curiosità… ecco, sí, di sapere
che genere di opera nascerà dal suo pennello.
– Le sue parole mi fanno
molto piacere. A questo punto, però, avrei una richiesta da farle.
Una sola per adesso, – dissi. – Se il risultato non fosse
soddisfacente, voglia scusarmi, ma le chiederei di fare come se
questa nostra conversazione non avesse mai avuto
luogo.
– Cioè non mi
consegnerebbe il quadro?
Annuii.
– In tal caso,
naturalmente le restituirei l’anticipo che mi ha dato, –
dissi.
– Non si preoccupi.
Questa è una decisione che lascerò prendere a lei. Ma ho il forte
presentimento che le cose non andranno cosí.
– Spero proprio che il
suo presentimento sia giusto.
– Sappia comunque che
anche se non dovesse terminare il ritratto, – disse Menshiki
guardandomi negli occhi, – già aver fatto da catalizzatore al suo
cambiamento di stile sarebbe per me motivo di gioia.
Veramente.
– A proposito, signor
Menshiki, – gli dissi dopo un po’, rompendo ogni indugio. – Vorrei
chiederle un consiglio, se posso permettermi. È una cosa che non ha
alcun nesso col quadro. Una faccenda personale.
– La prego, mi dica. Se
posso fare qualcosa, sarò felice di aiutarla.
Sospirai.
– È una storia molto
strana. Una storia senza capo né coda, non credo di essere in grado
di raccontargliela in modo coerente.
– Me la racconti con
calma, come le viene meglio. Poi ci rifletteremo insieme. Può darsi
che, unendo le forze, ci venga qualche buona idea.
Gli dissi tutto: che la
notte mi svegliavo prima delle due, e che nell’oscurità, se tendevo
bene le orecchie, percepivo un suono misterioso. Un suono flebile,
lontano… come se qualcuno suonasse una campanella. Se riuscivo a
sentirla era perché tutti gli insetti tacevano. Seguendo il
tintinnio, avevo scoperto che proveniva da un tumulo di pietre che
si trovava nel bosco dietro la casa, da una fessura tra una pietra
e l’altra. Il tintinnio non era continuo, si alternava a pause di
silenzio irregolari. Durava piú o meno tre quarti d’ora, e di colpo
cessava. Questa storia si era ripetuta nelle due notti precedenti.
Forse sotto quel tumulo c’era una persona che scuoteva quella
campanella. Forse era una richiesta d’aiuto. Ma era concepibile una
cosa del genere? A quel punto non ero affatto sicuro della mia
lucidità mentale. Avevo il dubbio che la mia fosse stata soltanto
un’illusione uditiva.
Menshiki mi aveva
ascoltato parlare senza aprire bocca. E anche quando tacqui,
continuò a restare in silenzio. Dall’espressione apparsa sul suo
viso, sembrava concentrato su quanto gli avevo
raccontato.
– Una storia davvero
affascinante, – disse dopo qualche minuto. Poi si schiarí la voce.
– Come ha osservato giustamente lei, non sono cose che normalmente
accadono… se possibile, vorrei sentire con le mie orecchie il suono
di quella campanella. Le spiacerebbe se stanotte tornassi
qui?
– Mi sta dicendo che
verrebbe apposta fin qui in piena notte? – chiesi
sorpreso.
– Certo. Se quel suono
lo sentirò anch’io, sarà la prova che non è un’illusione uditiva. E
questo è il primo passo. A quel punto, potremo andare insieme a
vedere, cercare di capire da dove proviene. Poi decideremo il da
farsi.
– Sí, è vero,
certo…
– Se non la importuno,
stanotte a mezzanotte e mezzo sarò qui da lei. È
d’accordo?
– Naturalmente, per me
va benissimo. Visto che è tanto gentile, signor Menshiki,
da…
Sulla bocca di Menshiki
apparve un sorriso simpatico.
– Non si preoccupi. Per
me non può esserci gioia piú grande che esserle utile. Inoltre per
carattere sono molto curioso. Che significato ha quel suono in
piena notte? Se c’è qualcuno che fa tintinnare una campanella, di
chi si tratta? Voglio assolutamente sapere tutta la verità. Lei
no?
– Anch’io, è ovvio, –
risposi.
– Bene, allora è deciso!
Stanotte mi vedrà arrivare. Inoltre mi sta venendo in mente
un’altra cosa.
– Un’altra
cosa?
– Gliene parlerò
un’altra volta. Prima voglio controllare, per
scrupolo.
Menshiki si alzò,
raddrizzò la schiena e mi tese la mano destra. Feci altrettanto. Mi
diede la sua solita stretta forte e decisa. Sembrava molto piú
contento del solito.
Andato via lui, passai
il resto del pomeriggio ai fornelli. Era il giorno in cui cucinavo:
una volta alla settimana preparavo una serie di piatti base, li
mettevo in frigo o nel freezer, e per sette giorni mi nutrivo
fondamentalmente di quelli. Quella sera per cena feci bollire delle
salsicce con del cavolo, e lo mangiai con dei maccheroni. Insieme a
un’insalata di pomodori, avocado e cipolle. Poi mi sdraiai come
sempre sul divano e lessi un libro ascoltando un po’ di musica. A
un certo punto smisi di leggere e ripensai a Menshiki.
Perché era cosí
contento? Veramente essermi utile lo rendeva felice? Non capivo.
Ero soltanto un pittore poco noto e squattrinato. Ero stato
lasciato da mia moglie dopo sei anni di matrimonio, non andavo
d’accordo con i miei genitori, non avevo un’abitazione mia, non
avevo sostanze, e per il momento facevo da custode alla casa del
padre di un amico. Menshiki invece (ma non era nemmeno il caso di
fare paragoni!) da giovane aveva fatto il botto nel campo degli
affari e incassato una somma che gli avrebbe permesso di vivere
senza pensieri per il resto dei suoi giorni. Per lo meno era quello
che mi aveva raccontato. Aveva una bella faccia, quattro automobili
inglesi, apparentemente non svolgeva nessun tipo di lavoro, se ne
stava chiuso in una grande casa in cima a una collina dove passava
le sue giornate nel lusso. Che motivo poteva avere, un uomo cosí,
di interessarsi a uno come me? Cosa poteva indurlo a venire in
aiuto a me nel cuore della notte?
Scossi la testa e tornai
al mio libro. Potevo scervellarmi finché volevo, non sarebbe
servito a nulla. Non sarei arrivato a nessuna conclusione. Era come
cercare di ricomporre un puzzle cui mancavano dei pezzi. Questo
però non significava che potessi rinunciare a riflettere. Con un
sospiro posai il libro sul tavolo, chiusi gli occhi e ascoltai la
musica. Era il Quartetto n. 15 di Schubert, nell’esecuzione degli
archi del Konzerthaus di Vienna.
Da quando abitavo lí,
ascoltavo musica classica ogni giorno. E a pensarci bene, quasi
sempre musica classica tedesca (o austriaca). Perché la collezione
di Amada Tomohiko per lo piú comprendeva opere appartenenti
all’area germanica. Aveva anche dischi di Čajkovskij, Rachmaninov,
Sibelius, Vivaldi, Débussy e Ravel, ma quasi per dovere di
educazione. E data la sua passione per la lirica, naturalmente
aveva tutto Verdi e tutto Puccini. Ma, vista la preponderanza dei
musicisti tedeschi, era chiaro che questi erano i suoi
favoriti.
Probabilmente per Amada
Tomohiko la nostalgia del periodo di studi a Vienna era ancora
intensa. E questo lo spingeva ad ascoltare ossessivamente musica
tedesca. A meno che non fosse il contrario. Che avesse deciso di
andare a studiare in Austria, piuttosto che in Francia o altrove,
perché amava i musicisti di area germanica. Quale delle due
passioni venisse prima, non lo sapevo.
Comunque, non spettava a
me lamentarmi del fatto che in quella casa la musica tedesca fosse
particolarmente amata. Io lí ero solo una specie di custode, e
potevo già ritenermi contento di essere autorizzato a toccare quei
dischi. Tanto piú che Bach, Schubert, Brahms, Schumann e Beethoven
mi piacevano. Per non parlare di Mozart, della sua musica sublime!
Nella vita non avevo mai avuto l’occasione di ascoltare in tutta
tranquillità le opere di questi compositori. Avevo trascorso le mie
giornate lavorando, e anche economicamente non me l’ero mai potuto
permettere. Quindi volevo approfittare dell’opportunità e godermi
il piú possibile quella collezione.
Verso le undici feci un
sonnellino sul divano. Mi addormentai ascoltando la musica e dormii
una ventina di minuti. Quando mi svegliai il disco era finito, il
braccio dello stereo era tornato al suo posto e il piatto era
fermo. Nel soggiorno c’erano due impianti, uno automatico che
faceva tutto da solo e uno manuale. Per sicurezza − cioè per
potermi addormentare tranquillamente quando volevo − preferivo
servirmi di quello automatico. Infilai l’lp di Schubert nella sua
copertina e lo rimisi al suo posto sullo scaffale. Dalla finestra
aperta arrivava il coro vigoroso degli insetti. Finché loro
frinivano, il suono della campanella non si sarebbe
sentito.
Andai in cucina e
mangiai qualche biscotto bevendo del caffè riscaldato. Intanto
tendevo l’orecchio al canto degli insetti, che faceva vibrare i
monti. Poco prima delle dodici e mezzo sentii la Jaguar
arrampicarsi su per la salita. Ad ogni curva la luce gialla dei
fari balenava in diagonale sui vetri delle finestre. Poi i soliti
rumori: Menshiki che spegneva il motore e chiudeva la portiera
della macchina. Seduto sul divano, bevendo il mio caffè e cercando
di respirare con calma, aspettai che suonasse alla porta
d’ingresso.