Capitolo ventiseiesimo
La composizione era perfetta, non avrebbe
potuto essercene una migliore
Due giorni dopo
ricevetti una telefonata dal mio agente di Tōkyō. Mi disse che
Menshiki aveva saldato con un bonifico il compenso per il quadro, e
lui a sua volta, dopo aver trattenuto la sua percentuale, aveva
girato la somma sul mio conto. Nel sentire a quanto ammontava la
cifra, rimasi sorpreso. Era molto piú alta di quanto pattuito
all’inizio.
– È anche arrivato un
messaggio da parte del signor Menshiki. Dice che ha voluto
aggiungere un bonus perché il risultato va ben al di là delle sue
aspettative. La prega di accettare senza fare complimenti, – mi
spiegò l’agente.
A corto di parole, mi
limitai a un vago grugnito.
– Non ho visto
l’originale, ma il signor Menshiki me ne ha mandato una foto via
mail. Be’, per quel che posso dire dalla foto, mi sembra un’opera
magnifica. Trascende il ritratto, pur avendone tutta la forza di
persuasione.
Ringraziai. Poi misi giú
il telefono.
Subito dopo mi chiamò la
mia amante. Mi chiese se poteva venire da me l’indomani, prima di
mezzogiorno. Le dissi che andava bene. Il venerdí pomeriggio, sul
tardi, avevo il corso di pittura, ma prima ero libero.
– Allora, l’altro ieri
sei stato a cena dal signor Menshiki? – mi domandò
lei.
– Sí. Una cena con tutti
i crismi.
– Hai mangiato
bene?
– Benissimo. Il cibo, il
vino, tutto era straordinario.
– E la casa? All’interno
com’è?
– Stupenda. Se dovessi
descrivertela stanza per stanza, ci metterei mezza
giornata.
– Quando ci vediamo però
mi racconti tutto, d’accordo?
– Prima?
Dopo?
– Meglio dopo, – fece
lei, telegrafica.
Dopo quella telefonata
andai nell’atelier e guardai L’assassinio del Commendatore appeso a una parete. L’avevo osservato decine di volte,
ma vedendolo ora, dopo aver sentito la storia che mi aveva
raccontato Menshiki, vi trovai un incredibile, sorprendente
realismo. Non era il solito quadro storico che riproduceva un
episodio accaduto nel passato, magari con un pizzico di nostalgia.
L’espressione, i gesti di ognuno dei quattro personaggi raffigurati
nel dipinto (a parte l’uomo dalla faccia lunga), riflettevano le
emozioni che provavano in quel momento. Il viso del giovane che
trafiggeva il Commendatore con una lunga spada era del tutto
impassibile. Probabilmente aveva soffocato in fondo al cuore ogni
emotività. Sul volto del Commendatore colpito al petto c’era
dolore, ma anche sorpresa, quasi si stesse dicendo: «Questa non me
l’aspettavo!» La giovane donna che osservava la scena (nell’opera
Donna Anna), sconvolta dall’orrore, era come spezzata in due. Il
suo bel viso era distorto dalla sofferenza. Con la dolce mano
bianca si copriva la bocca. L’uomo tozzo che sembrava un domestico
(Leporello) tratteneva il fiato davanti a quell’esito inatteso
della situazione, gli occhi rivolti al cielo. E tendeva la mano
destra nell’aria, come per afferrare qualcosa.
La composizione era
perfetta, non avrebbe potuto essercene una migliore. I personaggi
erano distribuiti magnificamente. Ognuno di loro fissato in un
gesto di straordinario dinamismo. Provai a adattare la scena alla
Vienna del 1938, all’attentato fallito. Il Commendatore non
indossava un’antica veste giapponese, ma una divisa militare nera,
un’uniforme nazista. Veniva trafitto al petto da una spada o da un
pugnale. A colpirlo era forse Amada Tomohiko. Chi era allora la
donna che tratteneva il respiro lí accanto? L’amante austriaca di
Tomohiko? In tal caso, cos’era a straziarle il cuore?
Seduto sullo sgabello,
rimasi a lungo a osservare il quadro. Con un po’ di fantasia, vi si
potevano leggere una montagna di significati nascosti e di messaggi
in codice. Ma per quante congetture imbastissi, alla fine si
trattava solo di ipotesi senza uno straccio di prova. E
l’ispirazione storica del quadro, l’attentato cosí come me l’aveva
descritto Menshiki, era tutt’altro che un fatto storico accertato,
ma solo una diceria. Un melodramma fatto di ipotesi, di frasi che
iniziano con un «Forse…»
«Come sarebbe bello se
adesso qui ci fosse mia sorella!» pensai
all’improvviso.
Se Komi fosse stata lí,
le avrei raccontato tutto quello che era successo fino a quel
momento, e lei avrebbe ascoltato attenta, interrompendo solo ogni
tanto con qualche breve domanda. Non credo che sarebbe rimasta
turbata da quella storia tanto intricata e complessa, o che si
sarebbe lasciata sfuggire esclamazioni di sorpresa. Avrebbe
conservato la sua espressione tranquilla e concentrata. Poi, a
racconto terminato, avrebbe riflettuto un po’ e alla fine mi
avrebbe dato qualche consiglio utile. Era sempre stato cosí, fra
noi, fin da quando eravamo piccoli. Ora che ci pensavo, però, non
era mai lei a chiedere consiglio a me. Per quanto mi sforzassi di
ricordare, non era mai successo. Perché? Non aveva mai dovuto
affrontare delle difficoltà sue, non aveva mai avuto delle
preoccupazioni a tormentarla? Oppure pensava che rivolgersi a me
non le sarebbe servito a niente? Probabilmente erano vere tutte e
due le cose.
Se fosse stata in buona
salute, tuttavia, se non fosse morta a dodici anni, forse non
avrebbe continuato ad avere con me, suo fratello, quel rapporto
confidenziale. Chissà, magari avrebbe sposato un uomo banale,
sarebbe andata a vivere lontano, si sarebbe logorata i nervi nella
vita di tutti i giorni e a crescere i figli; avrebbe perso la sua
luce pura e non avrebbe piú avuto né tempo né voglia di farsi
carico dei miei problemi. Nessuno poteva sapere come sarebbe
vissuta, come saremmo diventati, lei e io.
Se con Yuzu a un certo
punto le cose erano andate storte, forse era perché inconsciamente
avevo cercato in lei un sostituto di mia sorella. Non lo escludevo.
Non l’avevo fatto apposta, naturalmente, ma a pensarci bene, dopo
aver perso Komi, quando qualcosa mi inquietava o mi angosciava,
cercavo qualcuno cui appoggiarmi. Mia moglie, però, non era mia
sorella. Yuzu non era Komi. Diversa era la sua posizione, diverso
il suo ruolo. E soprattutto era diverso il passato che io avevo
condiviso con l’una e con l’altra.
Mentre seguivo il filo
di questi pensieri, tutt’a un tratto mi tornò in mente la volta in
cui ero andato a trovare la famiglia di Yuzu nel quartiere di
Setagaya, prima di sposarmi.
Il padre era un alto
dirigente, a capo di una filiale di una grande banca. Nella stessa
banca era impiegato il fratello. Sia l’uno che l’altro si erano
laureati in Economia presso l’Università di
Tōkyō1. Era un po’ una
tradizione di famiglia, la banca. Avevo intenzione di sposare Yuzu
(intenzione ricambiata, ovviamente), ed ero andato a casa sua per
mettere i suoi genitori al corrente della nostra decisione. Il
padre però mi concesse solo mezz’ora, durante la quale non si
mostrò certo entusiasta, anzi. Ero solo un pittore di scarso
successo che sbarcava il lunario facendo ritratti, e non avevo
introiti stabili. Non mi si poteva neanche considerare un giovane
di belle speranze. Niente di strano che non riscuotessi la simpatia
di un direttore di banca. Me l’ero immaginato, ovviamente, ed ero
deciso ad affrontare la situazione senza perdere le staffe, non
facendo caso a eventuali offese. Per carattere, sono uno che
incassa bene.
Tuttavia, mentre
ascoltavo i ripetuti ammonimenti del padre di Yuzu, sentivo
crescere dentro di me una repulsione fisica, tanto che finii col
perdere il controllo. Mi venne addirittura la nausea. Nel bel mezzo
della conversazione mi alzai e chiesi se potevo usare il bagno. In
ginocchio davanti al water, mi sforzavo di buttar fuori quello che
avevo nello stomaco. Ma non vomitai. Nulla, nemmeno succo gastrico.
Del resto non avevo mangiato quasi niente. Cosí respirai a fondo
due o tre volte e cercai di calmarmi. Feci qualche gargarismo per
togliermi l’odore sgradevole dalla bocca. Mi asciugai il sudore dal
viso con un fazzoletto e tornai in salotto.
– Tutto bene? – mi
chiese Yuzu guardandomi preoccupata. Probabilmente ero
livido.
– Ognuno è libero di
sposarsi con chi vuole, ma l’avverto: questo matrimonio non durerà.
Quattro, cinque anni al massimo.
Fu l’ultima cosa che suo
padre mi disse quel giorno, prima che salutassi e me ne andassi
senza neanche rispondergli. Quelle parole, però, lasciarono nelle
mie orecchie un’eco funesta. Forse fu una specie di
maledizione.
I genitori di Yuzu si
opposero fino alla fine, ma noi sbrigammo le pratiche e diventammo
ufficialmente marito e moglie. Con i miei, io non avevo quasi piú
rapporti. Non li invitai alla cerimonia. Gli amici noleggiarono una
piccola sala e organizzarono per noi una festa senza pretese (a
occuparsi di quasi tutto, naturalmente, fu Masahiko, che si fece in
quattro). Eppure eravamo felici, Yuzu e io. Per lo meno i primi
tempi, di questo sono sicuro. Per quattro o cinque anni, fra noi
non ci furono problemi che si potessero davvero considerare tali. A
un certo punto, però, come a una grande nave a cui si rompe il
timone in mezzo al mare, cominciammo ad andare lentamente alla
deriva. Il motivo non ero in grado di capirlo nemmeno adesso. Non
ci fu un momento preciso, o quantomeno io non me ne accorsi. Forse
erano lontane le nostre idee sulla vita matrimoniale, una distanza
che col tempo non ha fatto che aumentare. Finché a un certo punto
lei si era legata a un altro uomo: la nostra unione era durata solo
sei anni.
Era probabile che il
padre di Yuzu, nell’apprendere che il nostro matrimonio era
naufragato, avesse riso sotto i baffi. «Ecco, vedi! L’avevo detto!»
deve aver pensato (e non aveva tutti i torti, in effetti). Il fatto
che Yuzu mi avesse lasciato doveva essere per mio suocero un motivo
di gioia. Chissà se lei, dopo la separazione, ha mai ripreso i
contatti con la sua famiglia? Non potevo saperlo, né ci tenevo.
Erano affari suoi, io non c’entravo piú niente. Ciononostante non
riuscivo a liberarmi della maledizione di suo padre; continuavo a
sentirne il peso. E poi… dovevo riconoscere che la ferita nel mio
cuore era piú profonda di quanto volessi ammettere. Continuava a
sanguinare. Come quella inferta al Commendatore nel quadro di Amada
Tomohiko.
Intanto stava calando il
buio, la sera arrivava presto, in autunno. Il cielo era già scuro,
corvi dal lucente piumaggio nero volteggiavano tra le pareti
montuose della valle gracchiando. Uscii sulla terrazza e mi
appoggiai alla ringhiera, a guardare la casa di Menshiki di fronte
a me. Nel giardino le lampade erano già accese, l’edificio bianco
emergeva vagamente dall’oscurità. Immaginai lui lí, a osservare
come ogni sera Akikawa Marie col suo potente binocolo. Era solo con
quell’obiettivo in mente − poter vedere quella ragazzina − che si
era appropriato di quella casa. Aveva investito un sacco di soldi,
di tempo e di lavoro solo per avere quella villa troppo grande per
lui e nemmeno di suo gusto.
A quel punto mi resi
conto di una cosa strana (strana per me, cioè): comprendevo
Menshiki, i suoi sentimenti, come non mi era mai successo con
nessun’altra persona. Era solo empatia? Forse la si poteva anche
chiamare solidarietà. In un certo senso eravamo simili, noi due. A
farci agire non era solo la consapevolezza di quanto avevamo o
cercavamo di ottenere, ma piuttosto il rimpianto di ciò che avevamo
perso, di ciò che non era piú nostro. Non potevo dire di essere del
tutto d’accordo col suo comportamento. Lo trovavo un po’ eccessivo.
Però lo capivo.
Andai in cucina, presi
la bottiglia che mi aveva regalato Masahiko, mi preparai un whisky
con ghiaccio e andai a sedermi sul divano del soggiorno. Scelsi fra
i dischi di Amada Tomohiko un album di Schubert e lo misi sul
piatto dello stereo. Era l’opera intitolata Rosamunde. Ascoltando il
Quartetto che avevo sentito a casa di Menshiki, ogni tanto facevo
girare il ghiaccio nel bicchiere.
Venne la sera senza che
il Commendatore si facesse vedere. Probabilmente si riposava
insieme al gufo nel sottotetto. Persino le idee hanno bisogno di un
giorno di riposo. Come me, che per tutta la giornata non mi ero
nemmeno avvicinato alla tela sul cavalletto. Anch’io avevo bisogno
di un giorno di riposo.
Alzai il bicchiere alla
salute del Commendatore.
1. L’Università statale
di Tōkyō, la piú prestigiosa del Giappone, forma la maggior parte
della classe dirigente economica e politica del Paese. Vi si accede
con un severissimo test di ammissione.