Capitolo ventunesimo
È piccola, ma quando colpisce fa sgorgare il sangue
Seduto nel letto, rimasi in ascolto trattenendo il fiato. Da dove diavolo arrivava quel tintinnio? Piú forte e piú chiaro, ma senza dubbio prodotto dalla campanella. Rispetto alle altre volte, però, veniva da una direzione diversa: da dentro casa.
Non c’era altra spiegazione. Da quanto tempo avevo messo quell’aggeggio su una mensola dell’atelier? Non me lo ricordavo, la memoria mi giocava brutti scherzi. L’avevo posato lí con le mie mani, ecco, sí, poco dopo averlo trovato nella buca che avevamo scoperchiato. E infatti era da lí che arrivava il suono adesso. Dall’atelier.
Ne ero sicuro.
Cosa dovevo fare? Avevo la testa nel pallone. E avevo paura. In quella casa, sotto quel tetto, succedevano cose stranissime. Ero solo, in piena notte, in un posto sperduto fra i monti. Nulla di strano che fossi spaventato. In quel momento però, ripensandoci, la confusione era molto piú forte della paura. Forse l’animo umano funziona cosí. Per scacciare il terrore e la sofferenza, o per renderli piú sopportabili, si mobilitano tutti i sentimenti e le sensazioni disponibili. Come si prendono tutti i recipienti a portata di mano e li si riempie d’acqua per spegnere un incendio.
Cercai di schiarirmi le idee, e passai in rassegna tutte le possibilità. Una consisteva nel tirarmi la coperta sopra la testa e continuare a dormire. Il metodo di Masahiko, insomma, secondo il quale era meglio tenersi alla larga da tutto ciò che odorava di mistero. Spegnere il cervello, tapparsi occhi e orecchie. C’era un problema, però: non sarei mai riuscito a prendere sonno. Il tintinnio della campanella era cosí forte, che l’avrei sentito ugualmente, qualunque mezzo avessi escogitato per tenerlo lontano da me. Perché era dentro casa.
Come le altre volte, suonava a tratti. Alcuni rintocchi, un silenzio, altri rintocchi. I silenzi non avevano durata uguale, a volte erano piú brevi, a volte piú lunghi. Quella mancanza di uniformità faceva pensare a una presenza umana. La campanella non era azionata da un meccanismo, né si muoveva da sola. Qualcuno la teneva in mano e la scuoteva. Inviando un messaggio.
Basta, non potevo continuare a far finta di niente, dovevo sapere come stavano veramente le cose. Perché se ogni notte avessi sentito quel tintinnio, potevo dire addio al sonno e a una vita tranquilla. Tanto valeva affrontare il problema e andare a vedere cosa succedeva nell’atelier. Nella mia decisione c’era anche un po’ di rabbia − perché diavolo una cosa del genere doveva capitare proprio a me? − e una certa curiosità, naturalmente. Di qualunque cosa si trattasse, volevo vederci chiaro.
Saltai fuori dal letto e indossai un cardigan sopra il pigiama. La torcia elettrica in mano, andai nell’ingresso a prendere il bastone da passeggio scuro che Amada Tomohiko aveva lasciato nel portaombrelli. Lo afferrai: era solido, bello pesante. Non pensavo che mi sarebbe stato di qualche utilità, ma stringendolo nel pugno mi sentivo piú forte. Chi poteva sapere a cosa stavo andando incontro?
Avevo paura, è ovvio. Malgrado camminassi scalzo, non avevo quasi sensibilità sotto la pianta dei piedi. Ero irrigidito, ad ogni minimo movimento mi sembrava di sentir gemere le ossa. Qualcuno si era intrufolato in casa. E stava suonando la campanella. Probabilmente si trattava della stessa creatura che aveva mandato segnali dalla buca. Ma chi era? O piuttosto, cos’era? Non riuscivo a immaginarlo. Che fosse la mummia? Se entrando nell’atelier avessi visto una mummia agitare la campanella − un uomo incartapecorito di color manzo affumicato −, come avrei dovuto reagire? Colpirlo con tutte le mie forze col bastone di Amada Tomohiko?
Ma figuriamoci! Non avrei mai potuto fare una cosa del genere. La mummia era forse un sokushinbutsu. Non uno zombi.
Sí, ma allora? Ero sempre piú confuso e piú allarmato. Se non fossi riuscito a trovare qualche soluzione efficace, ero condannato a convivere in quella casa con una mummia? A sentire ogni notte, alla stessa ora, il suono di quella campanella?
Di punto in bianco mi venne in mente Menshiki. Era per colpa sua, delle sue stramberie, se ora mi trovavo in quella situazione! Aveva fatto venire addirittura una ruspa per spostare le pietre e scoperchiare quella buca misteriosa, ed ecco il risultato: insieme alla campanella, un essere di natura sconosciuta mi si era installato in casa. Pensai di telefonargli. Anche a quell’ora di notte, probabilmente sarebbe arrivato di corsa sulla sua Jaguar. Però cambiai idea. Non avevo il tempo di aspettare che lui venisse a mettere a posto le cose. Era un problema che dovevo risolvere io, lí, subito. Dovevo assumermene io la responsabilità.
A passo deciso andai in soggiorno e accesi la luce. Questo non bastò a far cessare il suono della campanella. Veniva dall’altro lato della porta che si apriva sull’atelier, non mi potevo sbagliare. Il bastone ben stretto in mano, attraversai a passi decisi la vasta sala fino a quella porta e ne afferrai la maniglia. Poi feci un profondo respiro, presi il coraggio a quattro mani e la abbassai. Spinsi il battente, e nello stesso momento la campanella, come se avesse atteso solo quello, smise di colpo di suonare. Calò un profondo silenzio.
Nell’atelier c’era buio pesto. Non si vedeva assolutamente nulla. Appoggiai la mano contro la parete alla mia sinistra e cercai a tastoni l’interruttore della luce. Il lampadario sul soffitto si accese illuminando tutta la stanza. Piantato a gambe larghe sulla soglia, il bastone ben stretto in mano, gettai una rapida occhiata nella stanza, pronto ad ogni evenienza. Per la tensione avevo la gola talmente secca che non riuscivo nemmeno a inghiottire la saliva.
Non c’era nessuno. Nessuna mummia secca che agitasse campanelle. Vidi solo il cavalletto nel mezzo della stanza, e la tela posata sopra. Davanti al cavalletto, il vecchio sgabello di legno a tre gambe. Era tutto. Di persone, neanche l’ombra. E nessun suono: né il verso di un insetto, né il rumore del vento. Le tende bianche alle finestre cadevano immobili, senza un fremito. Il bastone che tenevo in mano vibrava un po’, talmente ero teso. La vibrazione si trasmetteva alla punta, che batteva ritmicamente sul pavimento.
La campanella era sempre sulla sua mensola. Avanzai fin lí e la osservai. Non la toccai, ma non notai nulla di diverso. Era esattamente nel posto dove l’avevo messa a mezzogiorno, dopo averla presa in mano.
Mi sedetti sullo sgabello, davanti al cavalletto, e di nuovo mi guardai intorno nella stanza. Scrutai attentamente ogni angolo. Nessuno. Il solito atelier che ero abituato a vedere ogni giorno. Anche la tela era come l’avevo lasciata. Con l’abbozzo del quadro intitolato L’uomo con la Subaru Forester bianca.
Lanciai un’occhiata alla sveglia che si trovava su uno scaffale. Erano le due in punto. Il tintinnio mi aveva svegliato all’una e trentacinque, quindi erano passati venticinque minuti. Strano, avrei detto cinque o sei minuti al massimo. Non avevo piú un senso oggettivo del tempo. Oppure lo scorrere stesso del tempo si era alterato.
Rinunciai a capirci qualcosa, mi alzai, spensi la luce, uscii dalla stanza e chiusi la porta. Mi fermai un attimo in ascolto, ma non udii nulla. Nessun tintinnio. Sentivo solo silenzio. Sentire il silenzio… non era un gioco di parole. In cima alle montagne deserte, anche il silenzio ha un suono. Per qualche secondo, fermo dov’ero, tesi le orecchie.
Fu in quel momento che mi accorsi di qualcosa di inusuale sul divano del soggiorno. Qualcosa delle dimensioni di un cuscino, o di una bambola. Non ricordavo di avercelo messo, però. Mi strofinai gli occhi e guardai meglio: non era né un cuscino, né una bambola. Era un piccolo essere umano, vivo. Alto forse sessanta centimetri. Indossava una strana veste bianca. E si dimenava. Come se non si sentisse a proprio agio negli abiti che aveva addosso. Dove l’avevo già vista, quella veste? Era di foggia antica. Il tipo di indumento che indossavano in altri tempi in Giappone le persone di alto rango. E non si trattava soltanto della veste. Anche la faccia di quella creatura non mi era nuova…
Il Commendatore, ecco chi era!
Mi sentii gelare fin nelle ossa. Come se un pezzo di ghiaccio grande come un pugno mi risalisse lungo la schiena. Il Commendatore raffigurato nel quadro di Amada Tomohiko era seduto sul divano del soggiorno di casa mia − anzi, della casa di Amada − e mi guardava dritto in faccia. Quel piccolo uomo era abbigliato esattamente come il personaggio di quella scena, e aveva la stessa faccia. Sembrava saltato fuori dalla tela cosí com’era.
Dove si trovava, adesso, il quadro? Mi sforzai di ricordare. Ah, sí, nella camera degli ospiti. L’avevo nascosto lí, avvolto nel suo imballaggio di carta marrone, perché non lo vedesse nessuno nel caso ricevessi visite. Per evitare guai, insomma. Ma se quell’uomo era uscito da quella tela, a quel punto la scena com’era ridotta? Mancava soltanto la figura del Commendatore?
Com’era possibile che uno dei personaggi dipinti in un quadro ne uscisse fuori? Era inconcepibile, naturalmente. Una cosa assurda. Neanche a parlarne. Nessuno avrebbe potuto…
Mentre inseguivo il filo dei miei pensieri che aveva perso ogni logica, osservavo il Commendatore seduto sul divano. Il tempo sembrava sospeso, anzi era come se oscillasse avanti e indietro, in attesa che io facessi un po’ d’ordine nella mia mente. Intanto non riuscivo a staccare gli occhi da quell’alieno − il fatto che venisse da un altro mondo mi sembrava evidente. Quanto a lui, aveva alzato la testa e mi guardava dal divano. Io tacevo, incapace di trovare qualcosa da dire. Forse lo shock era troppo grande. Tutto quello che riuscivo a fare era respirare piano, la bocca socchiusa, gli occhi fissi su quel personaggio.
Anche il Commendatore mi scrutava in silenzio, le labbra serrate. Teneva le piccole gambe distese sul divano. Era appoggiato allo schienale, ma la testa non arrivava al bordo. Calzava scarpe dalla forma strana. Di pelle nera, apparentemente. La punta era allungata e girata all’insú. Ai fianchi aveva legata una lunga spada dall’impugnatura decorata. Lunga rispetto a lui, perché in realtà era piú o meno delle dimensioni di un pugnale. Detto ciò, era naturalmente un’arma mortale. Se era una spada vera.
– Sí, è vera, – disse il Commendatore leggendomi nel pensiero. Per essere di taglia ridotta, aveva una voce forte e chiara. – È piccola, ma quando colpisce fa sgorgare il sangue.
Non riuscendo a trovare una risposta, rimasi in silenzio. «Allora parla!» fu la prima cosa che mi venne in mente. Poi pensai che si esprimeva in modo davvero strano. Una persona normale non avrebbe mai formulato una frase in quel modo. Già, ma tanto per cominciare, un Commendatore alto sessanta centimetri venuto fuori da un quadro non era una persona normale. Non c’era da stupirsi che parlasse in modo strano.
– Nel quadro di Amada Tomohiko, mi viene conficcata una spada nel petto e disgraziatamente sto morendo, – proseguí. – Come voi sapete bene, signore. Eppure adesso non ho ferite. Vedete? Non ne ho! Se me ne andassi in giro sanguinando sarebbe un problema per me, e una seccatura per voi. Vi imbratterei di sangue tappeti e mobili. Quindi per il momento ho messo da parte la realtà e mi sono liberato della ferita. Ho tolto l’«assassinio» dall’Assassinio del Commendatore. Se avete bisogno di chiamarmi per nome, chiamatemi semplicemente Commendatore.
Si esprimeva in modo davvero originale, ma non era certo a corto di parole. Anzi, era piuttosto loquace. Da parte mia invece ero ancora bloccato, muto come un pesce. Il confine tra realtà e irrealtà era sempre piú labile.
– Sentite, vi spiacerebbe mettere via quel bastone, signore? – disse il Commendatore. – Non è certo il caso che adesso voi e io ci si debba sfidare a duello…
Mi guardai la mano. Teneva ancora ben stretto il bastone da passeggio di Amada Tomohiko. Lo lasciai cadere. Il bastone di legno rotolò sul tappeto con un rumore sordo.
– Guardate che non sono venuto fuori da quel quadro, sapete? – disse il Commendatore leggendomi di nuovo nel pensiero. – Quel dipinto (davvero notevole) è sempre nelle condizioni in cui l’avete trovato. Il Commendatore viene ucciso in quel preciso momento. Dal suo cuore esce un fiume di sangue. Io ho solo preso in prestito le sembianze di quel personaggio. Per incontrarvi, signore, avevo bisogno di assumere un aspetto. E ho trovato opportuno rivestire i suoi panni. Mi perdonate, vero?
Io sempre zitto.
– D’altronde, che importanza può avere, ormai? Il Maestro Amada adesso vive nel suo mondo nebuloso e pacifico, e non ha certo registrato il marchio di fabbrica del Commendatore. Se fosse Topolino o Pocahontas, la Walt Disney mi chiederebbe un sacco di soldi, ma con il Commendatore non c’è questo rischio.
Ridacchiò scuotendo le spalle.
– Per quanto mi concerne, non avrei avuto problemi a prendere l’aspetto di una mummia, ma voi sareste rimasto sconvolto, imbattendovi in una mummia a notte fonda. Se aveste visto una creatura simile a un pezzo di manzo affumicato agitare nel buio una campanella, chissà, poteva anche venirvi un infarto!
Quasi di riflesso, annuii. Aveva ragione, cento volte meglio il Commendatore di una mummia! Perché davvero mi sarebbe venuto un infarto. Per non parlare di Topolino o Pocahontas, trovarli in casa con una campanella in mano a quell’ora di notte sarebbe stato anche peggio. Tutto sommato, prendere le sembianze del Commendatore abbigliato nella foggia del periodo Asuka era stata una scelta assennata.
– Scusi, ma lei è un fantasma? – mi decisi a chiedergli. La mia voce secca e roca sembrava quella di un convalescente.
– Bella domanda! – disse lui. Poi alzò il suo piccolo indice pallido. – Anzi, ottima domanda, caro signore. Chi sono io? Per il momento, sono il Commendatore. Nient’altro che il Commendatore. Tuttavia, questo è solo il mio aspetto provvisorio. Non so quale sarà il prossimo. Quindi chi sono, in realtà? E voi? Chi siete voi? Avete preso quell’aspetto lí, ma in realtà chi siete? Vedete, questa domanda vi mette in imbarazzo, anche voi troverete difficile rispondere. Lo stesso è per me.
– Sí, ma lei può assumere qualsiasi aspetto? – chiesi.
– No, le cose non sono tanto semplici. C’è un limite, alla forma che posso assumere. Non posso trasformarmi in quello che voglio. In poche parole, il mio guardaroba è piuttosto ridotto. Sono in grado di prendere soltanto l’aspetto necessario alla circostanza. In questa occasione, questo Commendatore in miniatura era piú o meno tutto quello che avevo a disposizione. Le dimensioni del quadro mi permettevano solo quest’altezza. Questi abiti però sono cosí scomodi! – disse dimenandosi di nuovo nella veste bianca. – Comunque, per tornare alla domanda che mi avete posto prima, sono io un fantasma? No, no, non è cosí, signore. Non sono un fantasma. Sono una pura e semplice «idea». Un fantasma è fondamentalmente un essere sovrannaturale autonomo, libero. Io no. A me vengono poste molte condizioni.
Avevo mille domande da fargli. O piuttosto ne avrei avute. Peccato che non me ne venisse in mente nemmeno una. Tanto per cominciare, perché mi diceva «voi», visto che io ero uno solo? Ma questa era un’inezia. Non valeva neanche la pena di chiedergliene il motivo. Forse nel mondo delle «idee» si usava cosí.
– Sí, condizioni severe, – proseguí il Commendatore. – Ad esempio, il tempo durante il quale posso prendere l’aspetto di qualcosa è limitato, solo un’ora al giorno. E visto che mi piacciono le ore misteriose della notte, ho a disposizione solo l’intervallo di tempo tra l’una e mezzo e le due e mezzo. Se lo facessi alla luce del sole, per me sarebbe troppo faticoso. Il resto del tempo rimango allo stato di idea senza forma e mi riposo. Come il gufo nel sottotetto. Inoltre la mia natura mi impedisce di andare in un posto dove non sono invitato. Grazie a voi, signore, che avete aperto la cripta e portato qui questa campanella, ho potuto venire in questa casa.
– Ma lei è rimasto chiuso lí dentro per tutto questo tempo? – gli chiesi. La mia voce era un poco piú chiara, ma non del tutto normale.
– Non lo so. In realtà, io non ho una vera e propria memoria. In ogni caso è vero che ero rinchiuso in fondo a quella buca. Ma per qualche ragione non potevo uscirne. Non è che mi sentissi privato di libertà, tuttavia. Sono fatto in modo da non sentirmi prigioniero, da non provare sofferenza, anche se restassi confinato per migliaia di anni in un anfratto buio. Però vi sono grato per avermi permesso di uscire di lí. È molto piú divertente essere libero, che non esserlo. Va da sé. E sono riconoscente anche a quell’uomo che si chiama Menshiki. Senza il suo aiuto, non sarebbe stato possibile aprire la cripta.
– È proprio cosí, – feci annuendo.
– Ho avvertito i primi segnali con estrema intensità. Sentivo che c’era la possibilità di uscire. Allora mi sono detto: «Ora, è il momento!»
– Quindi è per questo motivo che un po’ di tempo fa ha iniziato a suonare la campanella in piena notte?
– Esatto. Poi la buca è stata scoperchiata. E il signor Menshiki è stato tanto gentile da invitarmi persino a cena.
Di nuovo annuii. Era vero, aveva invitato a cena il Commendatore − lui aveva usato la parola mummia − per martedí sera. Come aveva fatto il Don Giovanni dell’opera con la statua. Forse Menshiki l’aveva detto solo per fare una battuta, ma adesso mi rendevo conto che non c’era piú da scherzare.
– Io non mangerò, tuttavia, – proseguí il Commendatore. – E non berrò alcol. Tanto per cominciare, non ho organi digestivi. Sí, è proprio un peccato visto che imbandirà un banchetto fantastico! Comunque ho accettato umilmente l’invito. Perché non s’era mai visto che un’idea venisse invitata a cena da qualcuno!
Furono le ultime parole che il Commendatore disse quella notte. Appena finí di pronunciarle tacque, abbassò lentamente le palpebre. Immaginai che stesse tornando poco per volta nel mondo delle idee. A occhi chiusi, il suo viso assunse un’espressione molto piú introspettiva. Non fece piú nemmeno un movimento. La sua figura divenne sempre piú evanescente, i contorni meno nitidi. E in pochi secondi sparí del tutto. Per reazione guardai l’orologio. Erano le due e quindici. Probabilmente il tempo concessogli per «assumere un aspetto» era terminato.
Andai fino al divano e passai la mano sulla parte dov’era seduto prima il Commendatore. Non sentii nulla. Non si percepiva una differenza di temperatura, né si notava l’impronta di un corpo. La sua presenza non aveva lasciato alcuna traccia. Già, le idee non hanno né calore, né peso. Prendono solo in prestito sembianze provvisorie. Mi sedetti lí accanto, respirai a fondo. Mi strofinai la faccia con entrambe le mani.
Che avessi fatto solo un sogno, dall’inizio alla fine? Cosí lungo e chiaro da sembrare reale? E forse vi ero ancora dentro, forse ero ancora nel mondo dei sogni. Vi ero imprigionato. Questa per lo meno era l’impressione che avevo. Eppure in qualche modo sapevo, avevo la certezza, che non era cosí. Ciò che era appena successo forse non era la realtà, ma non l’avevo soltanto sognato. Menshiki e io avevamo fatto uscire il Commendatore − o un’idea che aveva preso l’aspetto del Commendatore − da quella strana fossa. E lui era venuto a vivere in casa mia. Come il gufo nel sottotetto. Non sapevo che significato avesse tutto questo. A quale risultato avrebbe portato.
Mi alzai, raccolsi dal pavimento il bastone da passeggio di Amada Tomohiko, spensi la luce e uscii dal soggiorno. Tutt’intorno c’era silenzio. Non il minimo rumore. Mi tolsi il cardigan e tornai a letto. Cosa mi conveniva fare, adesso? Cercai di riflettere. Il Commendatore voleva davvero andare a casa di Menshiki martedí. Perché Menshiki l’aveva invitato a cena. Cosa sarebbe successo, a quel punto? Per quanto mi scervellassi, non riuscivo a sentirmi tranquillo, mi sembrava di traballare come un tavolo con una gamba piú corta.
Poi mi venne un sonno tremendo. Ogni mia funzione cerebrale pareva affievolita, come per indurmi a dormire. Come per tirarmi fuori, con le buone o con le cattive, dal mio stato di confusione. Ben presto mi addormentai. Un attimo prima di sprofondare nel sonno, pensai al gufo. Cosa stava facendo?
«Dormite, signore», mormorava al mio orecchio il Commendatore.
Ma forse stavo già sognando.