Capitolo ventiquattresimo
Raccoglieva semplicemente informazioni
fresche, di prima mano
La sala da pranzo si
trovava allo stesso piano dello studio, e adiacente, c’era la
cucina; era una stanza rettangolare, con al centro un grosso tavolo
in legno intorno cui poteva sedersi una decina di commensali.
Sarebbe stato perfetto per il banchetto di Robin Hood e i suoi
allegri compari. Peccato che seduti lí quella sera c’eravamo
soltanto Menshiki e io. Il coperto del Commendatore era stato
preparato, ma lui non c’era. Il tovagliolo, le stoviglie in argento
e i bicchieri vuoti erano puri simboli. Il suo posto era solo un
pro forma.
Una parete, come già nel
salotto, era interamente occupata da grandi vetrate. La vista si
apriva sulla valle e la montagna di fronte, fino alla cima.
Naturalmente doveva vedersi anche la casa dove abitavo io, ma
trattandosi di un cottage di legno scuro, non di una villa enorme
come quella di Menshiki, non riuscivo a individuarla. Non erano
molte le case costruite sul quel versante della montagna, ed erano
tutte illuminate. Era l’ora di cena, le famiglie probabilmente
erano a tavola a mangiare nella loro intimità domestica, e in
quelle luci sentivo il calore del cibo che quelle persone portavano
alla bocca.
Da questa parte della
valle, invece, Menshiki, io e il Commendatore, seduti a
quell’enorme tavolo, stavamo per iniziare una cena del tutto
particolare, in un’atmosfera che difficilmente si sarebbe potuta
definire famigliare. Fuori continuava a cadere una pioggerella
silenziosa. Una quieta serata autunnale senza vento. Guardando la
pioggia, di nuovo pensai a quella buca nel bosco. Alla solitaria
cripta in pietra dietro il tempietto. Era sempre lí, anche in quel
momento, sempre fredda e buia. Il ricordo di quel luogo mi trasmise
un senso di gelo in fondo al petto.
– Questo tavolo l’ho
trovato in Italia, durante un viaggio, – disse Menshiki quando io
espressi la mia ammirazione. Non lo disse per vantarsi, nel suo
tono non c’era fierezza, mi stava semplicemente spiegando come se
l’era procurato. – L’ho visto in un negozio di mobili a Lucca, l’ho
comprato e l’ho fatto spedire via mare. Pesante com’è, farlo
portare fin qui è stata un’impresa.
– Lei va spesso
all’estero?
Storse un poco le
labbra, ma fu solo un attimo.
– Una volta ci andavo
spesso. Metà per lavoro, metà per svago. Di questi tempi però non
ho molte occasioni di lasciare il Paese, ora la mia attività è un
po’ cambiata. C’è da dire inoltre che ormai uscire, viaggiare, non
mi attira piú tanto. Sto quasi sempre qui.
Per chiarire cosa
intendesse con «qui», indicò con un gesto l’ambiente circostante.
Pensai che stesse anche per parlarmi della sua nuova attività, per
spiegarmi in cosa consistesse il cambiamento, ma lasciò cadere il
discorso. Come già la prima volta che aveva accennato al suo
lavoro, non sembrava propenso a dilungarsi sull’argomento. Né io
gli feci domande in proposito.
– Per iniziare, berrei
volentieri dello champagne ben freddo. Cosa ne dice? Le dispiace se
decido io?
Gli assicurai che per me
andava benissimo: mi affidavo a lui in tutto e per
tutto.
A un breve cenno del
padrone di casa il ragazzo col codino si avvicinò e ci versò dello
champagne gelato in due flûte, cosí leggere e sottili che
sembravano fatte di carta. Dal fondo dei bicchieri allegre
bollicine salirono in superficie. Brindammo noi due, poi Menshiki
alzò rispettosamente il braccio verso il terzo posto
apparecchiato.
– Benvenuto fra noi,
Commendatore, – disse.
Come prevedibile, non
ottenne risposta.
Sorseggiando il suo
champagne, Menshiki si mise a parlare di opera lirica. Mi raccontò
che in Sicilia, al teatro di Catania, aveva visto una splendida
rappresentazione dell’Ernani
di Verdi. Gli spettatori vicino a lui
accompagnavano con la voce i cantanti, e intanto mangiavano
mandarini. Aveva bevuto un ottimo champagne, in
quell’occasione.
Finalmente il
Commendatore apparve in sala da pranzo. Ma non prese posto al
coperto preparato per lui. Tanto, considerata la sua taglia, col
naso sarebbe arrivato solo al bordo del tavolo. Si sedette comodo
su una mensola decorativa alle spalle di Menshiki, un po’ di lato.
A un metro e mezzo dal suolo, faceva dondolare i piedi in quelle
sue strane calzature di pelle nera. Sollevai impercettibilmente il
bicchiere verso di lui, stando ben attento che Menshiki non se ne
accorgesse. Il Commendatore fece finta di niente.
Poi cominciò ad arrivare
il cibo. Tra la cucina e la sala da pranzo c’era un passavivande
dal quale il barman col codino prendeva i piatti e li portava in
tavola. L’antipasto, impiattato ad arte, consisteva in pesce burro
con un contorno di verdure provenienti da una coltivazione
biologica. Per accompagnarlo, venne aperta una bottiglia di vino
bianco. Il barman tolse il tappo con mano sicura, ma con la cautela
con cui un artificiere maneggia una mina. Non spiegò di che vino si
trattasse, né da che Paese provenisse, tanto aveva un gusto
semplicemente perfetto. Ovviamente. Menshiki non avrebbe mai bevuto
un vino bianco meno che perfetto.
Seguí una bellissima
insalata di renkon, seppia e fagioli bianchi. Poi un brodo di tartaruga
marina. E coda di rospo.
– Non sarebbe ancora la
stagione, è un po’ presto, ma al porto ittico pare ne siano già
arrivati di magnifici, – disse Menshiki. E infatti il pesce era
freschissimo, squisito: la fermezza delle carni, la sottile
dolcezza, e il retrogusto delicato… Cotto al vapore, era stato
immediatamente cosparso con una salsa al dragoncello
(credo).
Dopo il pesce,
arrivarono in tavola spesse bistecche di capriolo. Venne descritta
la preparazione della salsa che le accompagnava, ma i termini erano
troppo tecnici e li dimenticai subito. In ogni caso, aveva un
profumo fantastico.
Il ragazzo col codino ci
versò da una caraffa del vino rosso. La bottiglia era stata
stappata un’ora prima e il vino messo a decantare, mi spiegò
Menshiki.
– Ora che ha preso aria,
è pronto per essere bevuto, – aggiunse.
Del prendere aria non
sapevo granché, ma era un vino dal sapore intenso. Man mano che
toccava la lingua e si spandeva nella bocca e poi scendeva in gola,
cambiava gusto. Come cambia la bellezza di una donna misteriosa col
variare della luce e dell’angolo da cui la si guarda. Lasciando un
piacevole retrogusto.
– È un Bordeaux, – disse
Menshiki. – Le risparmio i dettagli. Semplicemente un
Bordeaux.
– Sí, immagino che se
iniziasse a elencarli, i dettagli di questo vino, ne avrebbe per un
bel po’.
Menshiki sorrise. Agli
angoli degli occhi gli si formarono rughe sottili.
– Ha indovinato.
Andremmo per le lunghe. Inoltre classificazioni, denominazioni… non
mi piacciono tutti quei paroloni. In qualunque campo. L’importante
è che il vino sia buono. Non trova?
Mi dichiarai
d’accordo.
Dalla sua mensola, il
Commendatore ci guardava bere e mangiare. Stava perfettamente
immobile e controllava attentamente ogni cosa, ogni dettaglio, ma
non sembrava affatto impressionato da quanto vedeva. Come mi aveva
detto lui stesso, era solo un osservatore. Non aveva motivo di dare
valutazioni, di provare interesse o repulsione per qualcosa.
Raccoglieva semplicemente informazioni fresche, di prima
mano.
Allo stesso modo
guardava me e la mia amante sul letto, quando facevamo l’amore il
pomeriggio. A quel pensiero mi sentii a disagio. Per lui era come
vedere qualcuno fare ginnastica o pulire il camino, aveva detto.
Forse era vero. Ma era altrettanto vero che sapere di essere
osservato mi dava molto fastidio.
In capo a un’ora e
mezza, finalmente arrivammo al dessert (un soufflé) e all’espresso.
Una sequenza lunga, ma completa, perfetta. A quel punto il cuoco
per la prima volta emerse dalla cucina. Era un uomo alto, sui
trentacinque o trentasei anni, e indossava gli abiti bianchi del
suo mestiere. La barba gli nascondeva la parte inferiore del viso.
Si affacciò in sala da pranzo a salutare.
– Una cena squisita! –
mi complimentai io. – Non avevo mai mangiato cosí bene in vita mia,
veramente.
Ero sincero. Ma non
potevo credere che un cuoco della sua straordinaria bravura
lavorasse in un ristorantino francese vicino al porto di Hayakawa,
un posto conosciuto da pochi.
– La ringrazio, – disse
lui con un sorriso compiaciuto. – Il signor Menshiki mi fa l’onore
di ricorrere spesso ai miei servizi. – Poi si inchinò e si ritirò
di nuovo in cucina.
– Crede che anche il
Commendatore sia rimasto soddisfatto? – mi chiese Menshiki con aria
preoccupata quando rimanemmo soli. Nella sua espressione nulla
faceva pensare che recitasse. Sembrava che la soddisfazione del
Commendatore gli stesse davvero a cuore. Sembrava a me, per lo
meno.
– Sono sicuro di sí, –
risposi con tutta la serietà possibile. – Naturalmente è un peccato
che non abbia potuto assaggiare nulla di tante prelibatezze, ma
avrà apprezzato la piacevolissima atmosfera.
– Speriamo.
«È ovvio che sono
contento», mi mormorò all’orecchio il Commendatore.
Menshiki suggerí
qualcosa di forte, ma rifiutai. Avevo bevuto abbastanza. Lui prese
un brandy.
– C’è una cosa che le
vorrei chiedere, – disse facendo girare lentamente il liquido nel
bicchiere panciuto. – È una domanda strana. Forse anche
sgradevole.
– Mi chieda pure tutto
quello che vuole, non si faccia problemi.
Portò il brandy alle
labbra, ne bevve un piccolo sorso, lo tenne in bocca per
assaporarlo. Poi appoggiò con cautela il bicchiere sul
tavolo.
– Volevo parlarle di
quella buca nel bosco, – proseguí. – L’altro giorno sono rimasto
piú di un’ora in quella cripta di pietra. Seduto sul fondo, senza
la torcia elettrica. Lei l’aveva richiusa bene, aveva anche messo
dei pesi sul coperchio. Le avevo chiesto di farmi uscire dopo
un’ora. Ricorda?
– Certo.
– Perché crede che lo
abbia fatto?
– Non ne ho idea, –
risposi sinceramente.
– Il fatto è che ne
avevo bisogno. Non saprei spiegarle perché, ma ogni tanto ho
bisogno di essere lasciato solo in un posto angusto e buio, nel
silenzio totale.
Io attendevo che andasse
avanti.
– Allora la mia domanda
è questa: durante quell’ora, lei non ha mai provato il desiderio di
abbandonarmi lí dentro? Non le è venuta la tentazione?
Non capivo dove volesse
andare a parare.
– Abbandonarla? –
chiesi.
Menshiki si strofinò
leggermente il gomito destro. Come se volesse controllare lo stato
di una cicatrice. Poi disse:
– Cioè, la situazione
era questa: io mi trovavo in fondo a quella buca di due metri di
diametro. La scala era stata tolta. Da lí non avevo modo di uscire,
le pareti sono costruite in modo che non ci si possa arrampicare,
avevamo controllato attentamente. Inoltre sulla buca c’era un
pesante coperchio. Visto che eravamo in mezzo ai monti, avrei anche
potuto sgolarmi, suonare freneticamente la campanella, nessuno mi
avrebbe sentito − a parte lei, naturalmente. Comunque non avrei
potuto venire fuori di lí con le mie sole forze. Se lei non fosse
tornato, sarei rimasto in fondo a quella buca per sempre.
Giusto?
– Sí, è
vero.
Menshiki, che stava
ancora strofinandosi il gomito, a quel punto smise.
– Ora quello che vorrei
sapere è se lei, durante quell’ora, non ha pensato nemmeno per un
attimo: «Non lo faccio piú uscire. Lo lascio marcire lí dentro».
Quest’idea non le è passata per la testa? Mai? Vorrei che mi
rispondesse con sincerità, le assicuro che non me ne avrò a
male.
Staccò la mano dal
gomito, riprese il bicchiere e di nuovo lo fece ruotare lentamente.
Però non lo portò alle labbra. Si limitò a inspirare l’aroma del
brandy, le palpebre socchiuse, poi lo posò di nuovo sul
tavolo.
– No, l’idea non mi ha
nemmeno sfiorato, – gli risposi con franchezza. – Neppure per un
attimo. Nella mia testa c’era un solo pensiero: trascorsa un’ora
avrei dovuto aprire la buca e tirarla fuori di lí.
– È la
verità?
– La pura verità. Al
cento per cento.
– Ecco… se io fossi
stato al suo posto, – disse allora Menshiki in tono pacato, con
l’aria di rivelarmi una cosa grave, – be’, io ci avrei pensato, ne
sono sicuro. Avrei avuto la tentazione di lasciarla in eterno lí
sotto. Perché un’occasione cosí bella non si sarebbe presentata mai
piú.
Non sapendo cosa
rispondere, tacevo.
– E mentre stavo in
quella buca, pensavo solo a questo: che nei suoi panni quell’idea
l’avrei avuta. Che strana cosa, vero? Lei era in superficie, io
sotto terra, eppure per tutto il tempo ho immaginato il contrario:
lei sotto terra, e io sopra.
– Già, ma se lei mi
avesse lasciato lí dentro, sarei morto di fame. Magari avrei
continuato a suonare la campanella fino a diventare davvero una
mummia. Per lei era indifferente?
– Ma erano solo
fantasie. Se non addirittura vaneggiamenti. È ovvio che non avrei
mai fatto una cosa del genere. Mi divertivo a far lavorare
l’immaginazione, a giocare nella mia fantasia con l’idea della
morte. Quindi non si preoccupi. È che… ecco, il fatto che lei non
abbia provato quella tentazione per me è incomprensibile, volevo
solo dire questo.
– Sí, ma non aveva
paura, quando stava da solo nella buca, al buio? La possibilità che
io cedessi alla tentazione di lasciarla lí dentro non la
spaventava?
Scosse la
testa.
– No, non avevo paura.
Cioè… la verità è che forse, in fondo al cuore, speravo che lo
facesse.
– Lo sperava? – chiesi
sorpreso. – Sperava che io l’abbandonassi lí?
– Esatto.
– Mi sta dicendo che
accettava di venire ucciso in quel modo?
– No, non sono mai
arrivato a pensare che morire mi stava bene. Provo ancora per la
vita un certo attaccamento. Inoltre morire di fame e di sete non è
esattamente il genere di decesso che mi auguro. Volevo soltanto
avvicinarmi un poco alla morte. Perché so che la frontiera tra i
due mondi è estremamente sottile.
Riflettei sulle sue
parole. Continuavo a non capire di cosa parlasse. Gettai
un’occhiata verso il Commendatore. Era sempre seduto sulla sua
mensola. Il volto impassibile.
– La cosa che ho temuto
piú di tutto, prigioniero in quello spazio stretto e buio, –
proseguí Menshiki, – non era morire. No. La paura è cominciata
quando ho iniziato a pensare che rischiavo di vivere eternamente
cosí. È stato allora che ho avuto davvero paura. Una paura che mi
toglieva il fiato. Avevo le allucinazioni, vedevo le pareti
stringersi intorno a me fino a stritolarmi. Per resistere vivi lí
dentro è necessario sormontare quell’angoscia. Occorre sapersi
dominare. E a questo scopo, arrivare piú vicino possibile alla
morte.
– Questo comporta un
pericolo, però.
– Già. Come per Icaro,
quando si avvicinò troppo al sole. Non è facile capire dove si
trovi il limite, la linea di demarcazione. È molto
rischioso.
– Ma se non ci si
avvicina a quel confine, non è possibile vincere la
paura.
– Infatti. L’essere
umano, se non ci riesce, non può elevarsi al gradino superiore, –
disse Menshiki. Poi fece silenzio, pareva riflettere. Finché tutt’a
un tratto − per lo meno a me sembrò un gesto improvviso − si alzò,
andò alla finestra e guardò fuori.
– Piove ancora, ma è una
pioggerella fine fine. Verrebbe un momento con me sulla terrazza?
Vorrei mostrarle qualcosa.
Lasciammo la sala da
pranzo e ripassammo dal salotto per uscire sulla grande terrazza
piastrellata, in stile mediterraneo. Ci appoggiammo alla ringhiera
di legno. Da lí, lo sguardo abbracciava tutta la valle, come da un
piazzale panoramico di una zona turistica. Ormai la pioggia era
quasi impercettibile. Nelle case sul versante opposto le luci erano
ancora accese. Visto da questo lato della valle, lo stesso
paesaggio faceva un effetto molto diverso.
Una parte della terrazza
era coperta da una tettoia, sotto la quale erano collocate delle
sdraio per prendere il sole o per sedersi a leggere. Accanto c’era
un tavolino dal ripiano di vetro su cui posare un bicchiere o un
libro, una grossa pianta in vaso non fiorita e un attrezzo coperto
da un fodero di plastica. La lampada a muro era spenta. Un po’ di
chiarore veniva dalle luci del salotto.
– La mia casa dove si
trova, piú o meno? – chiesi.
– Da quella parte, –
disse Menshiki indicando verso destra.
La cercai con lo
sguardo, ma prima di uscire avevo spento tutte le luci e non
riuscii a distinguerla in quella pioggerellina simile a
nebbia.
– Niente, non la vedo, –
dissi.
– Aspetti un momento, –
fece Menshiki muovendosi verso le sdraio. Liberò l’attrezzo del suo
fodero di plastica e me lo portò tenendolo con tutt’e due le
braccia. Sembrava un binocolo dotato di un treppiede. Non era molto
grande, ma era strano, diverso da un normale binocolo. Di color
verde oliva scuro, per la forma tozza lo si sarebbe potuto prendere
per uno strumento ottico di misurazione. Menshiki lo posò vicino
alla ringhiera, ne corresse la direzione e regolò la messa a
fuoco.
– Guardi qui dentro, –
mi disse. – Quella è la sua casa.
Avvicinai gli occhi al
binocolo. Era uno strumento potente, di alta precisione, con un
vasto, nitido campo visivo. Non il genere di strumento che si può
comprare in un grande magazzino. Attraverso il velo impalpabile
della pioggia, il paesaggio lontano sembrava a portata di mano. E
quella era proprio la mia casa. Vedevo la terrazza e la sedia a
sdraio dove mi sedevo sempre. Dietro c’era il soggiorno, e di
fianco l’atelier dove ogni giorno dipingevo. Con le luci spente non
si distingueva l’interno, ma di giorno forse qualcosa si scorgeva.
Guardare in quel modo (o magari spiare?) la casa in cui vivevo mi
faceva uno strano effetto.
– Si tranquillizzi, –
disse Menshiki alle mie spalle, quasi mi avesse letto nel pensiero.
– Non violo la sua privacy, non si preoccupi. In realtà, non è
successo quasi mai che abbia orientato questo binocolo verso casa
sua. Abbia fiducia. Ciò che desidero vedere è da un’altra
parte.
– Ciò che desidera
vedere? – ripetei. Staccai gli occhi dalle lenti e mi voltai a
guardarlo. Come sempre, il suo viso era impassibile, non rivelava
nulla. Su quella terrazza, di notte, i suoi capelli sembravano
ancora piú bianchi del solito.
– Glielo mostro, –
disse. Con gesti sapienti corresse l’angolazione dello strumento
girandolo leggermente piú verso nord e in un istante lo mise a
fuoco. Poi indietreggiò di un passo e mi invitò a
guardare:
– Prego, –
fece.
Di nuovo avvicinai gli
occhi alle lenti. Vidi una casa molto bella, rivestita in legno,
costruita a mezza costa. Due piani che sfruttavano il pendio e una
terrazza rivolta verso valle. Topograficamente la casa era vicino
alla mia, ma, dato che a causa della configurazione del terreno non
c’erano sentieri che collegassero le due abitazioni, vi si accedeva
solo da un’altra strada che saliva dalla valle. Le finestre erano
illuminate. All’interno non si vedeva niente perché le tende erano
chiuse, ma se fossero state aperte, quel binocolo telemetrico
avrebbe permesso di osservare senza problemi le persone nelle
stanze.
– Questo è un binocolo
militare in dotazione alle truppe della Nato. Non è sul mercato,
quindi non è stato facile procurarmelo. Il grado di luminosità è
straordinario, consente di vedere le cose distintamente anche
nell’oscurità.
Di nuovo staccai il viso
dal binocolo e guardai Menshiki.
– Dunque è quella casa
lassú, che lei tiene sotto osservazione? – gli chiesi.
– Esatto. Ma non mi
fraintenda, non sto spiando nessuno.
Gettò un’ultima occhiata
attraverso il binocolo, poi lo riportò con tutto il treppiede nel
posto dove l’aveva preso e lo ricoprí col telo di
plastica.
– Rientriamo, qui
prendiamo freddo, – disse.
Tornammo in salotto. Ci
sedemmo rispettivamente sul divano e su una poltrona. Il giovane
col codino riapparve e ci chiese se desideravamo bere qualcosa.
Rifiutammo entrambi. Menshiki lo ringraziò e gli disse che poteva
andare, per quella sera sia lui che il cuoco avevano finito. Il
giovane salutò con un inchino e si ritirò.
Il Commendatore adesso
era seduto sullo Steinway a coda nero. Sembrava che lo preferisse
alla scaletta della libreria. I gioielli intarsiati sull’elsa della
spada, colpiti dalla luce, mandavano riflessi
abbaglianti.
– Nella casa che ha
appena visto, – disse Menshiki di punto in bianco, – vive la
ragazza che potrebbe essere mia figlia. È lei che desidero vedere,
anche se da cosí lontano mi appare piccola piccola.
Rimasi senza
parole.
– Ricorda, vero, quello
che le ho raccontato l’altra volta? Che la mia ex fidanzata si è
sposata con un altro e ha avuto una bambina che potrebbe avere il
mio sangue…
– Certo che lo ricordo.
Mi ha detto che è morta in seguito a delle punture di vespa, e la
figlia adesso ha tredici anni. Giusto?
Menshiki fece brevemente
cenno di sí con il capo.
– Vive lí col padre. In
quella casa lassú. Dall’altra parte della valle.
Mi ci volle un po’ di
tempo per mettere ordine fra tutte le domande che mi si affollavano
nella testa. Nel frattempo Menshiki rimase in silenzio, aspettando
pazientemente che mi decidessi a comunicargli le mie
impressioni.
– Allora, se ho capito
bene, lei cercava un posto che si trovasse proprio di fronte a
quella casa, al solo scopo di osservare ogni giorno col binocolo
quella ragazza che potrebbe essere sua figlia. Quindi ha speso una
montagna di soldi per acquistare questa villa e un’altra montagna
di soldi per ristrutturarla. È andata cosí?
Menshiki
annuí.
– Sí, esattamente cosí.
Questo è un punto di osservazione ideale. Volevo entrare in
possesso di questa casa a qualunque costo. Perché non c’era nessun
altro terreno edificabile in vendita in questa zona. Da allora,
ogni giorno con questo binocolo cerco di vedere quella ragazza
attraverso la valle. Ma sono molte di piú le volte in cui non la
vedo.
– Ecco perché non
incontra mai nessuno, non fa mai venire nessuno, non vuole che
altre persone abitino qui… perché non vuole seccatori fra i
piedi.
Ancora una volta
Menshiki annuí.
– Proprio cosí. Non
voglio che nessuno venga a darmi fastidio. A mettere disordine. È
tutto quello che desidero. Ho bisogno di stare solo, in questa
casa, senza restrizioni di sorta. Inoltre, lei è l’unica persona al
mondo a conoscere questo mio segreto. Una faccenda tanto delicata
non la si racconta a chiunque!
Aveva ragione, pensai. E
mi venne naturale fargli una domanda:
– Allora perché ne parla
a me, adesso? C’è qualche ragione?
Menshiki incrociò le
gambe nell’altro senso e mi guardò dritto in faccia. Poi, in tono
terribilmente calmo, mi disse:
– Sí, è ovvio che una
ragione c’è. Vede… vorrei pregarla di fare una cosa per me. Glielo
chiedo come favore personale.