Capitolo sedicesimo
Una giornata relativamente bella
Quella sera non riuscivo
a prendere sonno. Il timore che nel cuore della notte la campanella
si mettesse a suonare mi angosciava. Se l’avessi sentita
tintinnare, sulla mensola dell’atelier dove l’avevo lasciata,
cos’avrei dovuto fare? Tirarmi le coperte sopra la testa e stare
cosí fino al mattino, facendo finta di nulla? Oppure andare a
controllare, armato solo della mia torcia elettrica? E cos’avrei
trovato, una volta lí?
Incapace di prendere una
decisione, rimasi a letto a leggere. La campanella tuttavia non
suonò, neanche quando l’orologio segnò le due. C’erano soltanto i
rumori della notte. Ogni cinque minuti davo un’occhiata alla
sveglia sul comodino. Quando sullo schermo apparvero le cifre
02:30, finalmente tirai un sospiro di sollievo. Quella notte la
campanella non avrebbe suonato. Chiusi il libro, spensi la luce e
mi addormentai.
Il mattino dopo mi
svegliai alle sette, e la prima cosa che feci fu andare a
controllare nell’atelier: la campanella era sempre sulla mensola
dove l’avevo messa il giorno prima. Alla luce del giorno, non aveva
nulla di sinistro; era un semplice arredo sacro risalente a tempi
antichi, consumato dall’uso. Il sole illuminava i monti, i corvi
erano già impegnati nelle loro chiassose attività
mattutine.
Tornai in cucina, feci
il caffè e me ne versai una tazza. Scaldai nel tostapane
degli scones un po’ induriti. Poi uscii sulla terrazza, inspirai
l’aria del mattino e appoggiato alla ringhiera guardai la casa di
Menshiki dall’altra parte della valle. Ai raggi del sole le vetrate
splendevano, abbaglianti. Forse lavarle una volta alla settimana
era incluso nei compiti dell’agenzia di pulizie. Erano sempre terse
e sfavillanti. Tenni d’occhio la villa per un po’, ma non vidi
Menshiki sulla terrazza. Ancora non eravamo al punto di salutarci
con la mano da un lato all’altro della valle.
Alle dieci presi la
macchina e andai al supermercato a fare la spesa. Tornato a casa,
sistemai le provviste e mi preparai qualcosa da mangiare. Soltanto
tōfu, insalata di pomodori e un nigiri. Dopo pranzo bevvi un
tè sencha. Poi andai a sdraiarmi sul divano e ascoltai il
Quartetto Rosamunde
di Schubert. Un brano bellissimo. Il testo
sulla copertina diceva che durante la prima esecuzione era stato
giudicato «troppo moderno», incontrando l’ostilità del pubblico.
Non capendo in cosa fosse «troppo moderno», pensai che forse
offendeva il gusto del pubblico conservatore
dell’epoca.
Verso la fine del lato A
di colpo mi venne sonno, cosí presi una coperta e mi addormentai
sul divano. Dormii solo per una ventina di minuti, ma
profondamente. Feci diversi sogni, credo, ma quando mi svegliai li
avevo dimenticati. Ci sono sogni di questo tipo. Sogni complicati
che si sviluppano in una serie di frammenti senza nesso alcuno.
Ogni frammento ha una sua consistenza, ma una volta messi insieme,
si annullano l’uno con l’altro.
Andai in cucina, aprii
il frigo, bevvi dell’acqua minerale dalla bottiglia per scacciare
quel residuo di sonno che mi restava in corpo come uno stralcio di
nuvola. Poi di nuovo pensai alla situazione in cui mi trovavo, al
destino singolare che mi aveva portato a vivere da solo in mezzo a
quei monti. E al mistero della campanella: chi l’aveva fatta
suonare, in quella sinistra cripta rivestita di pietre nel bosco? E
quel qualcuno, dov’era andato a finire?
Erano già le due del
pomeriggio passate quando andai nell’atelier, dopo aver messo gli
abiti da lavoro, e mi piazzai davanti al ritratto di Menshiki. Di
solito lavoravo il mattino, dalle otto a mezzogiorno: erano le ore
in cui riuscivo a concentrarmi meglio. Quelle in cui restavo solo
in casa dopo che mia moglie era andata in ufficio, quando vivevo
ancora con lei. Mi piaceva quella «tranquillità famigliare». Ora
che mi ero trasferito in montagna, amavo l’aria pura e la luce
vivida del mattino che la natura dei dintorni mi regalava. Da
sempre, per me era importante lavorare ogni giorno nella stessa
fascia oraria e nello stesso posto. In questo modo si creava un
ritmo. Quel giorno invece, forse perché la notte non avevo dormito
bene, avevo passato il mattino aggirandomi per la casa senza
costrutto. Ecco perché andai nell’atelier solo al
pomeriggio.
Mi sedetti sullo
sgabello rotondo, a un paio di metri di distanza dal ritratto che
avevo iniziato, e lo osservai a braccia conserte. In una prima fase
avevo tracciato con una matita fine i tratti del viso di Menshiki.
Poi, quando lui aveva posato davanti a me per una quindicina di
minuti, l’avevo ripassato col colore a olio, nero. Per il momento
era solo una rozza ossatura, eppure era percorsa da una forte
elettricità. La corrente che generava Menshiki Wataru. Ed era
quello di cui avevo piú bisogno.
Quel giorno, mentre
studiavo quell’abbozzo in bianco e nero, si fece strada nella mia
mente il colore che avrei dovuto aggiungervi. Un’idea che si era
formata all’improvviso, ma in maniera del tutto spontanea. Il
colore delle foglie degli alberi bagnate dalla pioggia. Mescolai
diverse tinte sulla tavolozza e provai e riprovai fino a ottenere
la sfumatura esatta che volevo. Quella che corrispondeva
all’immagine che avevo in testa. E subito, senza pensarci due
volte, la stesi sul volto già delineato. Non immaginavo che genere
di quadro ne sarebbe venuto fuori, ma sarebbe stata una base
preziosa per quell’opera. Un’opera che si stava sempre di piú
allontanando da un ritratto tradizionale. Ma non aveva importanza,
continuavo a ripetermi, non ci potevo fare nulla. Se sentivo il
fluire di una corrente, dovevo seguirla, non avevo scelta;
dipingere a modo mio quello che sentivo (e del resto era anche il
desiderio di Menshiki): almeno per il momento. Dopo, soltanto dopo,
avrei pensato al risultato finale.
Inseguivo le idee che si
affollavano nella mia immaginazione, senza un piano né un
obiettivo, come un bambino che corre dietro a una farfalla rara
svolazzante in un campo, senza guardare dove mette i piedi. Dopo
aver steso un primo strato di colore, posai tavolozza e pennello, e
di nuovo osservai il quadro da un paio di metri di distanza, seduto
sullo sgabello. Sí, era il colore giusto. Quello delle foglie
bagnate su un albero. Annuii piú volte, rivolto a me stesso. Ne ero
convinto (grosso modo): una sensazione che non provavo da molto
tempo nei confronti di una mia opera. Cosí andava bene. Quello era
esattamente il colore che volevo. Usandolo come base, ne creai
diverse sfumature di cui mi servii per dare al tutto varietà e
spessore.
Una volta terminata
questa fase, mentre osservavo il risultato mi venne in mente il
colore successivo. Arancione. Ma non un semplice arancione. Doveva
essere il colore delle fiamme, comunicare una grande forza vitale,
e al tempo stesso contenere il presentimento di una degenerazione.
Forse la degenerazione che porta lentamente alla morte. Era un
colore molto piú difficile da ottenere. Doveva essere legato a una
passione. Una passione in balia del destino, eppure a suo modo
salda. Creare un colore che comunicasse tutto questo non era
semplice, è ovvio. Alla fine però ci riuscii. Lo stesi sulla tela
con un pennello pulito. Qua e là usai anche la spatola.
L’essenziale era non pensare a nulla. Per quanto possibile
scollegai il cervello e aggiunsi quel colore alla composizione
generale. Mentre dipingevo, non pensavo a nulla: né al suono della
campanella, né alla buca che avevamo scoperto, né a mia moglie da
cui mi ero separato, né che lei andasse a letto con un altro, né
alla mia nuova amante che era una donna sposata, né ai corsi di
pittura, né al mio futuro… Quello che stavo dipingendo era il
ritratto di Menshiki, è ovvio, ma nella mia mente il viso di
Menshiki non c’era. Era stato solo il punto di partenza. Ora stavo
semplicemente raffigurando ciò che mi veniva
spontaneo.
Non ricordo bene quanto
tempo passò. Finché a un certo punto mi accorsi che nella stanza
era calato il buio. Il sole autunnale era già tramontato da un po’,
ma io avevo continuato a lavorare infervorato, dimenticando persino
di accendere la luce. Sulla tela c’erano già cinque colori diversi.
Uno sopra l’altro, e sopra l’altro ancora. In alcuni punti si
accostavano in modo armonioso, in altri si scontravano,
tollerandosi appena.
Accesi la luce, mi
risedetti sullo sgabello e di nuovo osservai il quadro. Sapevo che
non era terminato. Sentivo scaturire in esso qualcosa di brutale, e
quella violenza mi emozionava piú di ogni cosa. Una violenza che
per molto tempo non ero riuscito a vedere. Eppure non bastava.
Occorreva un elemento centrale che controllasse tanta brutalità,
che la domasse e la guidasse. Qualcosa come un’idea che governasse
la passione. Per trovarla però dovevo lasciar passare un po’ di
tempo. Far riposare per il momento la fonte da cui sgorgavano i
colori. Sarebbe stato il lavoro di un nuovo giorno, sotto una nuova
luce. A tempo debito, qualcosa sarebbe venuto a comunicarmi che era
trascorso il tempo necessario. Non mi restava che attendere. Come
quando si aspetta con pazienza che squilli il telefono. Per munirmi
della pazienza necessaria, dovevo avere fiducia nel tempo. Sentirlo
mio alleato.
Seduto sul mio sgabello,
chiusi gli occhi e feci un profondo respiro. In quella sera
d’autunno, percepivo un radicale mutamento dentro di me. Come se il
mio corpo venisse provvisoriamente smembrato e poi ricomposto in
modo diverso. Sí, ma perché questo mi accadeva proprio in quel
momento, e in quel luogo particolare? Quella trasformazione era il
risultato del mio incontro casuale con Menshiki, a generarla era
stata la sua richiesta di un ritratto? Oppure a stimolare qualcosa
nel mio spirito era stata la scoperta di quella cavità misteriosa,
guidato da una campanella che suonava in piena notte? Quella cripta
che avevamo aperto dopo aver demolito il tumulo di pietre? Ma
poteva anche darsi che tutto ciò non c’entrasse niente, che per me
fosse semplicemente arrivato il momento di cambiare. Qualunque
spiegazione mi dessi, non aveva il minimo fondamento
razionale.
«Ho come l’impressione
che questo sia solo l’inizio», aveva detto Menshiki al momento di
salutarci. Quindi stavo già avanzando nel processo che secondo lui
era appena cominciato? Ma che importanza poteva avere? Di qualunque
cosa si trattasse, finalmente, dopo tanto tempo, dipingendo avevo
provato una vera, forte emozione, mi ero immerso nel lavoro fino a
dimenticare lo scorrere delle ore. Rimettendo in ordine colori e
pennelli, continuavo a sentire a fior di pelle una piacevole
febbre.
Mentre sistemavo tutto,
gli occhi mi caddero sulla campanella posata su una mensola. La
presi e la scossi due o tre volte. Il suono squillante riecheggiò
nella stanza. Quel suono che in piena notte mi aveva messo in
ansia, ora invece mi lasciava indifferente. Mi chiesi soltanto, un
po’ sorpreso, perché quella vecchia campanella avesse ancora un
timbro tanto limpido. La rimisi al suo posto, spensi la luce e
uscii chiudendo la porta. In cucina mi versai un bicchiere di vino
bianco e bevendone un sorso ogni tanto mi preparai la
cena.
Alle nove di sera
ricevetti una telefonata da Menshiki.
– Com’è andata stanotte?
– mi chiese. – La campanella si è fatta sentire?
Gli risposi che avevo
aspettato sveglio fino alle due e mezzo, ma non avevo udito nulla.
Era stata una notte molto tranquilla.
– Benissimo! E a parte
questo, non le è piú successo niente di insolito?
– No, nulla. Nulla di
particolarmente strano, – dissi.
– Meno male. E spero che
d’ora in poi non ci siano altre bizzarrie, – fece Menshiki. Poi,
dopo una pausa, aggiunse: – A proposito, verrei da lei domani
mattina, se non le dispiace. Se possibile, mi piacerebbe osservare
ancora una volta, con calma, quella cripta di pietre. È un posto
che mi interessa moltissimo.
Gli dissi che per me
andava bene. Che non avevo impegni o programmi per il mattino
dopo.
– Allora posso venire
verso le undici?
– L’aspetto, –
dissi.
– Ah, senta! Quella di
oggi per lei è stata una bella giornata? – mi chiese
Menshiki.
Quella di oggi era stata
una bella giornata, per me? La frase mi suonava come una di quelle
traduzioni da una lingua straniera fatte col traduttore automatico
del computer.
– Sí, relativamente
bella, mi pare, – risposi con una certa riluttanza. – Per lo meno,
non mi è successo niente di brutto. Ha fatto bel tempo e nel
complesso mi sono sentito bene. E lei, signor Menshiki? Anche per
lei è stata una bella giornata?
– Be’, oggi mi sono
successe due cose: una bella, e una che non definirei cosí. Delle
due, quale abbia piú peso, quella bella o quella brutta, ancora non
lo so valutare. Propendo ora per l’una ora per l’altra. È cosí che
mi sento al momento.
Non sapendo cosa
rispondere a quella spiegazione, rimasi in silenzio.
– Per mia sfortuna, –
proseguí Menshiki – al contrario di lei non sono un artista. Vivo
nel mondo degli affari. In particolare, nel mondo delle
informazioni. In quel campo, per lo piú le cose si possono
trasformare in cifre, le informazioni hanno un valore di scambio.
Di conseguenza è diventata un’abitudine mentale, per me, attribuire
un valore numerico sia alle cose belle che a quelle brutte. Se le
prime pesano piú delle seconde… be’, ad esempio, una giornata può
diventare tutto sommato positiva, malgrado sia anche accaduto
qualcosa di negativo. Il bilancio è positivo, in un certo
senso.
Ancora non capivo dove
volesse andare a parare. Decisi di restare in
silenzio.
– Riguardo agli eventi
di ieri, a quella cripta che abbiamo aperto, – continuò lui, –
probabilmente abbiamo perso e al tempo stesso guadagnato qualcosa.
Ma che cosa? Dove sta la perdita e dove sta il beneficio? È un
pensiero che non riesco a togliermi dalla testa.
A quel punto mi parve
che Menshiki attendesse la mia risposta.
– Credo che non abbiamo
ottenuto nulla cui si possa dare un valore numerico, – dissi dopo
averci riflettuto su un momento. – Per adesso, naturalmente.
Abbiamo soltanto recuperato quell’arredo sacro, quella campanella.
È probabile che non abbia alcun valore commerciale, però. Non ha
una storia, non è una reliquia rara. Per contro, la perdita non
dovrebbe essere difficile valutarla in cifre. Fra poco le arriverà
la fattura dell’architetto paesaggista.
Sentii Menshiki ridere
brevemente.
– Non sarà una grossa
cifra. Di questo non si deve preoccupare. Quello che mi turba,
invece, è che ancora non abbiamo ottenuto quello che avremmo
dovuto.
– Cioè? Cos’è che
avremmo dovuto ottenere?
Menshiki si schiarí la
voce.
– Come le ho appena
detto, io non sono un artista. Ho a modo mio un certo intuito, ma
disgraziatamente non possiedo i mezzi per convertirlo in qualcosa
di concreto. Per quanto acuto sia, questo intuito, non sono capace
di esprimerlo in quella forma universale chiamata arte. Non ne ho
la forza.
Attendevo il seguito del
discorso senza fiatare.
– Motivo per cui, in
sostituzione della possibilità di realizzarmi concretamente in una
forma artistica e universale, fino a oggi non ho mai smesso di
inseguire il processo di trasformazione delle cose in valori
numerici. Gli esseri umani, per vivere bene, hanno bisogno di un
perno intorno al quale muoversi. È d’accordo? Per quel che mi
riguarda, il mio intuito, se posso chiamarlo cosí, lo uso in un mio
sistema personale che trasforma le cose in valori numerici, e mi
sento di poter dire di aver ottenuto un certo successo in
quest’attività, un successo socialmente riconosciuto. E stando al
mio intuito… – a quel punto Menshiki si interruppe, in un silenzio
denso di significato – … stando al mio intuito, noi, da quella
cripta sotterranea che abbiamo trovato, dovremmo poter ricavare
qualcosa.
– Ad esempio? Cos’ha in
mente?
Menshiki scosse la
testa. Per lo meno, ebbi la netta sensazione che lo facesse,
dall’altra parte del filo.
– Questo ancora non lo
so. La mia opinione, tuttavia, è che dovremmo saperlo. Mettendo
insieme le nostre rispettive capacità intuitive; dando, ognuno a
modo suo, forma concreta e valore numerico alle cose.
Di nuovo non afferravo
bene il senso del suo discorso. Ma di cosa stava blaterando,
quell’uomo?
– Allora ci vediamo
domani verso le undici, – concluse. E interruppe con garbo la
conversazione.
Avevo appena messo giú
la cornetta, che mi chiamò la mia amante. Ne fui un po’ sorpreso.
Era strano che telefonasse a quell’ora.
– Senti, possiamo
vederci domani verso mezzogiorno? – mi chiese.
– Scusami, ma domani ho
un impegno. Ho appena preso un appuntamento, un minuto
fa.
– Non sarà mica con
un’altra donna, per caso?
– No. È col signor
Menshiki, come al solito. Gli sto facendo il ritratto.
– Ah, gli stai facendo
il ritratto… – ripeté lei. – Allora dopodomani?
– Dopodomani sono libero
come l’aria.
– Fantastico. Posso
venire nel primo pomeriggio?
– Certo. Ma è sabato, fa
lo stesso?
– In qualche modo mi
arrangio.
– È successo qualcosa? –
chiesi.
– Perché me lo
domandi?
– Perché non mi hai mai
chiamato a quest’ora.
– Adesso sono in
macchina, da sola. Ti sto chiamando dal cellulare, – rispose lei a
bassa voce. Sembrava che parlasse dal fondo della gola e cercasse
di regolare il respiro.
– Ma cosa ci fai, da
sola in macchina?
– Niente. Avevo voglia
di starmene qui senza essere disturbata. Succede, a volte, alle
casalinghe. Qualcosa in contrario?
– No, no,
figurati!
Fece un sospiro. Un
sospiro profondo nel quale ne erano condensati tanti
altri.
– Mi piacerebbe che tu
fossi qui, adesso. E che mi prendessi da dietro. Senza preliminari
né nulla, non ce ne sarebbe bisogno. Non avresti problemi perché
sono già bagnata. Dovresti solo darci dentro, scoparmi a fondo
cosí.
– Sarebbe un piacere.
Difficile però, scoparti a fondo, come dici tu, in una
Mini.
– È tutto quello che
posso offrire.
– Dovremo inventarci
qualcosa.
– Con la mano destra
dovresti stringermi i capezzoli, con la sinistra carezzarmi il
clitoride.
– E col piede destro,
cosa dovrei fare? Magari sintonizzare la radio? Su qualcosa cantato
da Tony Bennett, ad esempio, ti andrebbe?
– Guarda che non sto
scherzando. Sto parlando sul serio.
– D’accordo. Ti chiedo
scusa. Facciamo sul serio, allora.
– Vuoi sapere che cosa
ho addosso, in questo momento? – mi chiese lei in tono
seducente.
– Sí, cosí me lo posso
immaginare.
A quel punto lei mi fece
una descrizione dettagliata dei vestiti che indossava, uno per uno.
Ero sempre sorpreso dalla grande varietà di indumenti che poteva
mettersi addosso una donna non piú giovanissima.
– Allora? Ce l’hai già
abbastanza duro? – mi chiese.
– Un martello, –
risposi.
– Potresti servirtene
per piantare i chiodi?
– Sicuro.
Qualcuno ha detto che al
mondo i martelli esistono per piantare i chiodi, e i chiodi per
essere piantati dai martelli. Chi è stato? Nietzsche? Schopenhauer?
Oppure nessuno si è mai sognato di dire una cosa del
genere?
Attraverso la linea del
telefono, i nostri corpi si avvinghiarono uno all’altro. Era la
prima volta che facevo una cosa del genere, con lei o con qualunque
altra donna. Ma le sue descrizioni erano cosí particolareggiate ed
eccitanti, che quello immaginario, almeno in parte, era ancora piú
coinvolgente dell’atto reale. Le parole possono essere molto
erotiche. Al termine di quello scambio, prima che me ne rendessi
conto stavo già eiaculando. E anche lei aveva raggiunto
l’orgasmo.
Per un po’ di tempo
restammo al telefono senza parlare, col fiato corto, aspettando di
calmarci.
– Bene, allora ci
vediamo sabato, – disse lei quando il suo respiro ritrovò un ritmo
normale. – Anche riguardo al tuo Menshiki, ho qualcosa da
raccontarti.
– Hai avuto altre
informazioni?
– Sí, qualcuna, sempre
attraverso il tam-tam locale. Ma preferisco parlartene quando ci
vediamo. Magari mentre facciamo cose indecenti.
– Adesso torni a
casa?
– Certo, – disse lei. –
Ormai è ora che rientri.
– Guida con
prudenza.
– Già, meglio che faccia
attenzione. Perché in certe parti sento ancora dei
fremiti.
Andai sotto la doccia e
mi lavai col sapone il pene sporco di sperma. Poi misi il pigiama,
un cardigan, e con un bicchiere di mediocre vino bianco in mano
uscii sulla terrazza. Guardai in direzione della casa di Menshiki.
Nella sua grande villa bianca dall’altra parte della valle, le luci
erano ancora accese. In tutte le stanze, pareva. Cosa stava
combinando, da solo (supponevo), lí dentro? Naturalmente non lo
potevo sapere. Forse, di fronte allo schermo del computer,
insisteva a cercare il valore numerico dell’intuito?
– Una giornata
relativamente bella, – dissi a me stesso.
Però era stata anche una
giornata strana. E l’indomani? Non riuscivo nemmeno a immaginarlo.
All’improvviso mi venne in mente il gufo nel sottotetto. Mi chiesi
se anche lui avesse passato una bella giornata. Poi mi resi conto
che per lui la giornata stava per cominciare adesso. Quando fuori
c’è luce i gufi dormono al buio, e appena cala la notte escono,
vanno nel bosco a caccia di prede. Forse quella domanda avrei
dovuto fargliela il mattino presto: «Oggi è stata una bella
giornata, per te?»
Andai a letto, lessi per
un po’, alle dieci e mezzo spensi la luce e mi addormentai. Dormii
fino alle sei del mattino seguente senza svegliarmi nemmeno una
volta, segno che probabilmente durante la notte nessuno aveva fatto
suonare la campanella.