Capitolo secondo
Forse andremo tutti sulla luna
– Sono davvero desolata,
ma non credo di poter continuare a vivere con te, – mi disse mia
moglie in tono pacato. Poi rimase a lungo in silenzio.
Era un annuncio del
tutto assurdo, l’ultima cosa che potessi aspettarmi. A quella
dichiarazione improvvisa non sapevo cosa rispondere, e rimasi in
attesa del seguito. Un seguito che non prevedevo allegro, ma
cos’altro potevo fare?
Eravamo seduti uno di
fronte all’altra al tavolo della cucina. Una domenica pomeriggio
verso la metà di marzo. Giusto un mese dopo avremmo festeggiato il
nostro sesto anniversario di matrimonio. Quel giorno, fin dal
mattino, cadeva una fredda pioggia. La prima cosa che feci dopo che
mia moglie pronunciò quelle parole fu voltare la testa verso la
finestra e controllare se piovesse ancora. Sí, pioveva. Una pioggia
quieta e silenziosa. Non c’era vento. Eppure una sensazione di gelo
mi penetrava sottopelle. E mi diceva che la primavera era ancora
lontana. Velate dalla pioggia, si intravedevano le luci arancioni
della torre di Tōkyō. Nel cielo non volavano uccelli. Se ne stavano
tranquilli al riparo sotto lo spiovente di qualche
tetto.
– Non mi chiedi il
motivo? – domandò mia moglie.
Scossi leggermente la
testa. Non era né un sí né un no. Non sapevo cosa dire, né come,
davvero, non ne avevo la piú pallida idea. Il mio gesto era stato
poco piú che un riflesso.
Lei indossava una maglia
leggera lilla, con un’ampia scollatura. A lato delle clavicole
prominenti spuntavano le morbide bretelle della sottoveste bianca.
Sembravano un tipo speciale di pasta da usare in una ricetta
particolare.
– Una domanda ce
l’avrei, – dissi guardando involontariamente quelle bretelle. La
mia voce era tesa, secca, e aveva perso sonorità.
– Spero di essere in
grado di risponderti.
– Sono responsabile io,
di questa decisione?
Mia moglie ci pensò su
un momento. Poi fece un lento e profondo respiro, come qualcuno che
torni col viso in superficie dopo aver nuotato a lungo
sott’acqua.
– Non direttamente,
credo.
– Non
direttamente?
– No, non
credo.
Provai a valutare la
strana intonazione delle sue parole. Nel modo in cui si soppesa un
uovo tenendolo sul palmo della mano.
– Cosa vuoi dire? Che
indirettamente lo sono?
Mia moglie non
rispose.
– Alcuni giorni fa, poco
prima dell’alba, ho fatto uno strano sogno, – mi disse invece. –
Tanto vivido che non ero nemmeno sicura di sognare. E quando mi
sono svegliata, ho pensato proprio questo. Che ormai non potevo piú
vivere con te. Anzi, ne ho avuto la certezza.
– Cos’hai
sognato?
Lei scosse la
testa.
– Scusami, ma non te lo
posso raccontare.
– Perché i sogni sono
una cosa privata?
– Forse.
– E c’ero io, in quel
sogno? – chiesi.
– No, tu non c’eri. È in
questo senso che dico che non hai una responsabilità
diretta.
Per dire qualcosa,
riassunsi quello che avevo appena sentito. Quando non so cosa
rispondere, riassumere le parole di chi mi sta parlando è una mia
vecchia abitudine (cosa che irrita molto la persona in questione,
va da sé).
– Insomma, alcuni giorni
fa hai fatto un sogno estremamente vivido. E quando ti sei
svegliata, eri certa di non poter piú vivere con me. Cos’hai visto
in quel sogno, però, io non lo posso sapere. Perché i sogni sono
una cosa personale. È questo che mi stai dicendo?
Mia moglie fece cenno di
sí.
–
Esattamente.
– Già, ma non è una
spiegazione.
Lei posò le mani sul
tavolo e guardò all’interno della sua tazza. Come se volesse
consultare un oracolo leggendo i fondi del caffè. Dall’espressione
dei suoi occhi, sembrava stesse decifrando qualche simbolo molto
ambiguo.
Per mia moglie, i sogni
avevano un grande significato. Spesso determinavano le sue
decisioni o influenzavano le sue opinioni. Per quanta importanza vi
desse, però, ridurre a zero il peso di sei anni di matrimonio a
causa di un «sogno tanto vivido» era assurdo.
– Naturalmente il sogno
è stato solo il grilletto che ha innescato un processo, – disse
lei, come se mi avesse letto nel pensiero. – Mi ha fatto capire
tante cose.
– Schiacciando il
grilletto, – dissi, – si fa partire una pallottola.
– In che
senso?
– In un fucile il
grilletto è un elemento importante: dire «è stato solo il
grilletto» è un po’ riduttivo.
Mia moglie si limitò a
guardarmi in silenzio. Quasi non capisse quello che cercavo di
dirle. Ad essere sincero, non lo sapevo bene nemmeno
io.
– Hai un altro? – le
chiesi.
Lei annuí.
– E ci vai a letto, con
quest’altro?
– Sí. Mi dispiace, non
ho scuse.
Forse avrei dovuto
chiederle chi era, da quanto tempo la storia andava avanti. Ma non
mi interessava veramente saperlo. Né ci volevo pensare. Quindi
guardai di nuovo fuori dalla finestra la pioggia che non accennava
a smettere. Come avevo fatto a non rendermene conto fino a quel
momento?
– Comunque questa è
soltanto una delle tante cose che accadono, – disse mia
moglie.
Percorsi la stanza con
lo sguardo. Era un posto che avrebbe dovuto essermi familiare, dopo
tutti quegli anni. Eppure aveva già preso un’aria estranea,
fredda.
Solo una delle
tante?
Cosa diavolo significava
«solo una delle tante»?, mi chiesi allarmato. Mia moglie faceva
sesso con un uomo che non ero io. Però era soltanto «una delle
tante cose che accadono». Cos’altro poteva mai
esserci?
– Fra qualche giorno me
ne andrò, tu non devi fare nulla, – proseguí lei. – La
responsabilità è mia, ed è giusto che a lasciare questa casa sia
io.
– Hai già deciso dove
andare?
Non ottenni risposta, ma
ebbi l’impressione che lei avesse già qualcosa in mente.
Probabilmente si era decisa a parlarmi solo dopo aver programmato
tutto. Venni preso da un soffocante senso di impotenza, come se
avessi fatto un passo nelle tenebre. Le cose erano avanzate in modo
sistematico, senza che io sospettassi nulla.
– Farò preparare tutte
le pratiche per il divorzio il piú presto possibile. Ti sarei grata
se acconsentissi. So che ti sembrerà una decisione arbitraria,
ma…
Smisi di osservare la
pioggia e mi voltai a guardare mia moglie. Di nuovo pensai che per
sei anni avevo vissuto con lei sotto lo stesso tetto, ma non
l’avevo mai capita. Allo stesso modo in cui la gente ogni sera
guarda la luna, ma della luna non sa un bel niente.
– Da parte mia, ho solo
una richiesta, – le dissi alla fine. – Se accetti, per il resto
puoi fare come ti pare.
– Sí?
– Sarò io a lasciare
questa casa. E oggi stesso. Vorrei che tu restassi
qui.
– Oggi stesso? – mi
domandò mia moglie sorpresa.
– Be’, prima è, meglio
è. No?
Ci pensò un po’
su.
– Se è quello che
desideri…
– È quello che desidero.
E non voglio altro.
Era veramente ciò che
volevo. Tutto era meglio che essere lasciato solo in quel posto che
ormai sembrava un miserabile relitto, in quella fredda pioggia di
marzo.
– Prendo io la macchina.
Sei d’accordo?
Non c’era nemmeno
bisogno di chiederlo. Era un’automobile vecchia, col cambio
manuale, che aveva già fatto centomila chilometri e mi era stata
praticamente ceduta da un amico prima che mi sposassi. Inoltre mia
moglie non aveva neanche la patente.
– L’attrezzatura per
dipingere e i vestiti verrò a recuperarli piú in là. Fa lo
stesso?
– Sí, non mi importa. Ma
quanto «piú in là», piú o meno?
– Be’, non lo so, –
dissi. Non avevo certo la testa a quel genere di cose. Mi pareva di
non avere piú nemmeno la terra sotto i piedi. Era già uno sforzo
enorme alzarmi e restare fermo sulle gambe.
– No, perché non credo
che ci rimarrò ancora per molto tempo, qui, – disse mia moglie con
una certa riluttanza.
– Eh, forse andremo
tutti sulla luna, – replicai.
Lei non sembrò aver
sentito bene.
– Come? Cos’hai detto,
ora?
– No, nulla. Niente di
importante.
Passai il resto del
pomeriggio, fino alle sette, a riempire con la mia roba una grossa
sacca da ginnastica: un cambio d’abiti, gli effetti personali,
alcuni libri e il mio diario. L’avrei messa nel portabagagli della
mia Peugeot 205 rossa. Presi inoltre un semplice equipaggiamento da
campeggio che mi portavo sempre dietro nelle mie passeggiate in
montagna. Un album da disegno e un set di matite. Non mi veniva in
mente nient’altro che mi potesse servire. Ma non aveva importanza,
se avessi avuto bisogno di qualcosa, avrei potuto comprarlo
ovunque. Quando afferrai la sacca per uscire di casa, mia moglie
era ancora seduta al tavolo della cucina. La tazza da caffè era
sempre allo stesso posto. E lei continuava a fissarne il fondo con
la stessa espressione di prima.
– Senti, c’è ancora una
cosa che vorrei chiederti, – mi disse. – Se ci separiamo, possiamo
restare amici?
Non capivo cosa volesse
dire. Finii di mettermi le scarpe, sistemai la sacca sulla spalla e
con una mano già sulla maniglia della porta d’ingresso rimasi a
guardarla un momento.
– Restare
amici?
– Se fosse possibile, mi
piacerebbe vederti, ogni tanto, e parlare, – rispose
lei.
Continuavo a non
afferrare il senso delle sue parole. Restare amici? Incontrarci
ogni tanto e parlare? Ma parlare di cosa? Mi sembrava di dover
risolvere un indovinello. Quale messaggio cercava di trasmettermi,
mia moglie? Che non nutriva alcun risentimento verso di
me?
– Be’, non saprei, –
risposi. Non trovai altro da dire. Forse non l’avrei trovato
neanche se fossi rimasto fermo in piedi nell’ingresso per una
settimana. Quindi aprii la porta e me ne andai.
Ero uscito di casa senza
nemmeno pensare a com’ero vestito. Fossi anche stato in pigiama e
accappatoio, di sicuro non ci avrei fatto caso. Quando qualche ora
dopo mi guardai nello specchio a figura intera del bagno di un
autogrill, vidi che indossavo il maglione che mettevo per
dipingere, un vistoso piumino arancione e dei blue jeans. Ai piedi
avevo degli stivali da lavoro. Un vecchio berretto di lana in
testa. Sul maglione verde a collo alto, sfilacciato qua e là,
c’erano macchie bianche di pittura. Soltanto i jeans, di un azzurro
vivace, erano nuovi, e stonavano col resto. Nel complesso, era un
abbigliamento piuttosto improbabile, ma non si poteva nemmeno
definire strano. L’unica cosa che rimpiangessi era di aver
dimenticato la sciarpa.
Uscii con la macchina
dal parcheggio sotterraneo del condominio, nella fredda e
silenziosa pioggia di marzo. Il rumore stridente dei tergicristalli
ricordava la voce di un vecchio che si schiarisce la
gola.
Non sapevo dove andare,
non ne avevo la minima idea. Per un po’ guidai senza meta per le
strade della città, immerso nei miei pensieri. All’incrocio con
Nishi-asabu presi la Gaien-nishidōri verso Aoyama, ad
Aoyama-sanchōme svoltai a destra verso Akasaka, feci un po’ di giri
e finii per arrivare a Yotsuya. Mi fermai a un distributore di
benzina che vidi lungo la strada e feci il pieno. Già che c’ero,
chiesi di controllare anche il livello dell’olio e di riempire il
serbatoio del liquido per i tergicristalli. Poteva darsi che
dovessi percorrere molta strada. Chissà, magari andare sulla
luna.
Pagai con la carta di
credito e tornai sulla strada. In quella domenica sera di pioggia,
non c’era molto traffico. Accesi la radio, ma trasmettevano solo
chiacchiere insulse. Tutti parlavano con voci stridenti. Nel
lettore cd era inserito il primo album di Sheryl Crow. Ascoltai i
primi tre brani, poi spensi.
A un certo punto mi resi
conto che ero sulla Mejiro-dōri. Mi ci volle un po’ di tempo per
capire in che direzione stessi andando. Poi mi resi conto che stavo
procedendo da Waseda verso Nerima. Non sopportando piú il silenzio,
riaccesi il lettore e ascoltai altre canzoni di Sheryl Crow. Di
nuovo spensi. Il silenzio era opprimente, la musica troppo
rumorosa. Fra i due, però, era piú sopportabile il primo. Alle mie
orecchie arrivavano soltanto il rumore delle spazzole logore dei
tergicristalli contro il vetro e quello delle gomme sull’asfalto
bagnato. Come uno scrosciare continuo.
In quel silenzio, mi
immaginai mia moglie fra le braccia di un altro.
Come avevo fatto a non
accorgermene in tempo? Sarebbe stato meglio, pensai. Perché non mi
era nemmeno venuto in mente? Erano mesi che non facevamo l’amore.
Se io la cercavo, lei trovava sempre una scusa per rifiutare. Anzi,
già da parecchio non sembrava piú interessata al sesso. Mi ero
detto: «Bah, ci sono periodi cosí». Lavorava tutto il giorno e
probabilmente era stanca, non si sentiva in forma. Invece andava a
letto con un altro. Quando era iniziata, quella storia? Risalii il
corso dei miei ricordi. Sí, dalle prime avvisaglie erano passati
quattro, forse cinque mesi, quindi in ottobre o
novembre.
Peccato che non
ricordassi cosa fosse successo, in ottobre o novembre. Figuriamoci,
non ricordavo nemmeno cosa fosse successo il giorno
precedente!
Mentre facevo attenzione
a non passare col rosso e non avvicinarmi troppo alle luci
posteriori della macchina che avevo davanti, pensavo a tutte le
cose che erano accadute in autunno. Mi concentrai cosí tanto che mi
sentivo fumare il cervello. La mia mano destra azionava il cambio
in funzione del flusso del traffico, il mio piede sinistro
rispondeva pigiando sulla frizione. Non sono mai stato meno
contento di avere una macchina col cambio manuale. Oltre ad
arrovellarmi sul comportamento di mia moglie, dovevo muovere
concretamente mani e piedi.
Ma cos’era successo in
ottobre e in novembre?
Immaginai la scena. Una
sera d’autunno: su un grande letto, le mani di un uomo − chissà chi
− spogliavano mia moglie… Mi tornarono in mente le bretelle della
sua sottoveste bianca. E, sotto, i suoi capezzoli rosa. Non che mi
facesse piacere rievocare uno per uno quei particolari, ma una
volta messa in moto l’immaginazione non c’era modo di fermarla.
Sospirai e mi infilai nel parcheggio di un autogrill che vidi lungo
la strada. Abbassai il finestrino, respirai l’aria umida a pieni
polmoni, cercai di calmare i battiti del cuore. Poi scesi dalla
macchina. Senza ombrello, protetto solo dal mio berretto di lana,
attraversai il parcheggio sotto la pioggia sottile ed entrai nella
caffetteria. Andai a sedermi in uno dei séparé in fondo al
locale.
C’era poca gente. Alla
cameriera venuta a prendere l’ordinazione chiesi un caffè caldo e
un sandwich con prosciutto e formaggio. Dopo, mentre bevevo il
caffè, chiusi gli occhi e riuscii a calmarmi un poco. Mi sforzai di
scacciare dalla testa l’immagine di mia moglie che faceva l’amore
con un altro. Peccato che non volesse sparire.
Andai in bagno, mi lavai
bene le mani col sapone, poi mi guardai nello specchio al di sopra
del lavandino. Gli occhi, iniettati di sangue, sembravano piú
piccoli del solito. Un animale selvatico, cui la fame ha tolto ogni
forza vitale. Un animale esausto e spaventato. Mi asciugai le mani
e la faccia con una salvietta in cotone, poi esaminai il mio
aspetto nel grande specchio sulla parete. Quello che vedevo
riflesso era un uomo di trentasei anni, sfinito, con una vecchia
maglia sporca di pittura addosso.
Osservando la mia
immagine mi chiesi dove avessi intenzione di andare. O piuttosto,
pensai, a cosa ero arrivato, alla fine dei conti? Dov’ero? Anzi,
prima ancora, chi ero?
Ipotizzai di farmi il
ritratto mentre mi guardavo allo specchio. Supponendo che ci
riuscissi, quale me stesso avrei raffigurato? Avrei potuto nutrire
anche solo un’ombra di affetto per la mia persona? Vi avrei trovato
qualcosa che brillasse sotto la superficie, anche solo un
barlume?
Tornai a sedermi al mio
posto senza essermi dato una risposta. Quando finii il caffè, la
cameriera venne a riempirmi di nuovo la tazza. Le chiesi un foglio
di carta in cui avvolgere il sandwich che non avevo toccato. Non
avevo voglia di mangiarlo, forse piú tardi mi sarebbe venuta
fame.
Uscii dall’autogrill,
ripresi la strada e procedetti nella stessa direzione, finché vidi
un’indicazione per l’ingresso dell’autostrada Kan-etsu. Decisi di
imboccarla in direzione nord. Non sapevo cosa ci fosse, a nord. Ma
avevo l’impressione che il nord fosse preferibile al sud. Volevo
andare in un posto freddo e pulito. Ma soprattutto, volevo
allontanarmi da quella città, in qualunque direzione
fosse.
Aprii il vano
portaoggetti: c’erano cinque o sei cd. Fra questi l’Ottetto per
doppio quartetto d’archi di Mendelssohn nell’esecuzione dei Musici
– a mia moglie piaceva ascoltarlo mentre eravamo in macchina. Era
un brano particolare, eseguito da un ensemble di due quartetti
d’archi, ma la melodia era bella. Mendelssohn l’aveva composta
quando aveva sedici anni. Me l’aveva detto mia moglie. Un bambino
prodigio.
– Tu cosa facevi, a
sedici anni?
– A sedici anni ero
innamorato perso di una mia compagna di classe, – le avevo
risposto.
– E ti sei fidanzato con
lei?
– No, non le ho quasi
mai parlato. Mi limitavo a guardarla da lontano. Figurati se avevo
il coraggio di rivolgerle la parola! Poi tornavo a casa e la
disegnavo. Fogli su fogli.
– Be’, da allora hai
continuato a fare sempre la stessa cosa, – aveva riso mia
moglie.
– Sí, esatto. Sempre la
stessa cosa. Fin da quando ero ragazzo.
Fin da quando ero
ragazzo, ho sempre fatto la stessa cosa, mi ripetei.
Estrassi il disco di
Sheryl Crow dal lettore cd e inserii un album del Moder Jazz
Quartet: Pyramid. Poi un assolo di Milt Jackson. Ascoltandone il blues
sentimentale avanzavo in autostrada, sempre dritto verso nord. Ogni
tanto mi fermavo a riposare in un’area di servizio, dove orinavo
per un tempo lunghissimo. Bevvi diverse tazze di caffè nero
bollente, ma a parte queste pause, non staccai le mani dal volante
per tutta la notte. Mi tenni sempre sulla seconda corsia, solo
quando dovevo superare qualche Tir mi spostavo in quella di
sorpasso. Stranamente non avevo sonno. Al punto che cominciavo a
dubitare che il sonno sarebbe mai piú venuto a trovarmi in vita
mia. Quando cominciava ad albeggiare, ero arrivato al mar del
Giappone.
Dalla prefettura di
Niigata, svoltai a destra verso nord lungo la litoranea,
attraversai le prefetture di Yamagata, Akita e Aomori, fino
all’imbocco del tunnel sotto il mare che portava nell’Hokkaidō. Da
Niigata avevo lasciato l’autostrada e preso solo strade nazionali,
guidando adagio. Tanto non avevo fretta, in tutti i sensi. La notte
avrei potuto trovare un albergo modesto o un semplice
ryōkan, fare il
check-in, buttarmi su uno stretto materasso e dormire. Per mia
fortuna, riuscivo a addormentarmi subito, ovunque mi trovassi, in
qualunque letto.
Il mattino del secondo
giorno, nei pressi della città di Murakami, chiamai il mio agente,
per dirgli che da quel momento, per un certo tempo, non avrei piú
fatto ritratti. Avevo ancora dei lavori commissionati in corso, ma
non ero in condizioni di dipingere.
– Be’, non è corretto,
questo. Sono commissioni che ho accettato a nome suo, mi sono
impegnato, – mi disse lui seccamente.
Mi scusai.
– Purtroppo però non c’è
rimedio, – dissi. – Trovi un pretesto, per favore, dica che ho
avuto un incidente stradale. Ci saranno altri pittori, oltre a
me.
Il mio agente rimase
qualche secondo in silenzio. Non avevo mai consegnato un lavoro in
ritardo. E del resto anche lui sapeva bene che non ero il genere di
persona che non rispetta gli impegni professionali, che non ero un
irresponsabile.
– Ci sono motivi che mi
terranno per qualche tempo lontano da Tōkyō. Nel frattempo non sarò
in grado di lavorare. Non so come scusarmi.
– Per qualche tempo?
Cioè? Cosa intende dire?
Non sapevo cosa
rispondere. Spensi il cellulare. Al primo fiume che incontrai
fermai la macchina sopra il ponte e dal finestrino gettai il
piccolo apparecchio nell’acqua. Non avevo scuse, ma il mio agente
doveva rassegnarsi. Per quel che mi riguardava, pensasse pure che
ero andato sulla luna!
Passando dalla città di
Akita, avevo prelevato dei contanti da un bancomat e controllato
quanto restava sul mio conto personale: c’erano ancora abbastanza
soldi. A quel conto era anche abbinata la carta di credito. Per un
certo periodo potevo continuare il mio viaggio, tanto non avrei
avuto grandi spese. La benzina, i pasti, il pernottamento in
qualche business hotel
1… questo genere di
cose.
In un outlet nella
periferia di Hakodate comprai una semplice tenda e un materassino
da campo. Nell’Hokkaidō, all’inizio della primavera, faceva ancora
freddo, quindi mi procurai anche della biancheria termica. Cosí
equipaggiato, arrivando in un posto avrei potuto trovare un
campeggio aperto nelle vicinanze e dormire lí, nella tenda. Volevo
spendere il meno possibile. Al suolo c’era ancora neve indurita, la
notte il freddo era intenso, ma dopo aver dormito in soffocanti
stanzette di qualche business
hotel, nella tenda avrei provato un
senso di sollievo e libertà. Sotto di me la dura terra, sopra di me
il cielo infinito. E la luce di innumerevoli stelle.
Nient’altro.
Da quel giorno, per tre
settimane girai sulla mia Peugeot per varie province dell’Hokkaidō,
senza una meta precisa. Ormai era aprile, ma quell’anno la neve non
si decideva a sciogliersi. Il colore del cielo però era cambiato e
qua e là sugli alberi cominciavano a spuntare dei germogli. Se
arrivavo in una stazione termale mi fermavo a dormire in un
ryōkan, facevo
un lungo bagno nell’acqua bollente, mi lavavo i capelli e mi
rasavo, mangiavo dei pasti relativamente buoni. Una volta mi pesai
e notai che da quando avevo lasciato Tōkyō avevo perso cinque
chili.
Non leggevo giornali né
guardavo la televisione. Quanto all’autoradio, da quando ero
arrivato nell’Hokkaidō non prendeva bene, e alla fine non si
sentiva proprio piú niente. Per cui ero completamente all’oscuro di
quanto accadeva nel mondo, né, del resto, volevo saperlo. Una
volta, nella cittadina di Tomakomai, entrai in una lavanderia self
service e infilai tutti i vestiti sporchi in lavatrice. In attesa
che asciugassero, andai da un barbiere nei paraggi, gli chiesi di
tagliarmi i capelli e farmi la barba. Lí, per la prima volta dopo
tanto tempo, sul televisore nella bottega del barbiere, vidi il
telegiornale della Nhk. Cioè lo sentii, dato che tenevo gli occhi
chiusi, ma non potevo evitare che la voce dell’annunciatore mi
arrivasse alle orecchie. Però di tutto quello che disse,
dall’inizio alla fine, non c’era quasi nulla che avesse una qualche
attinenza con me. Era come se parlasse di fatti avvenuti su un
altro pianeta, o di cose inventate di sana pianta da chissà
chi.
L’unica notizia che mi
parve in qualche modo riguardarmi fu quella di un anziano di
settantatre anni che era andato per funghi sulle montagne
dell’Hokkaidō, era stato assalito da un orso ed era morto.
L’annunciatore disse che gli orsi, quando si svegliano dal letargo
invernale, sono estremamente pericolosi perché hanno fame, e la
fame li rende irritabili. Quando dormivo in tenda, ogni tanto mi
veniva voglia di fare una passeggiata e me ne andavo da solo per i
boschi, quindi non era da escludere che venissi attaccato da un
orso anch’io. Era solo un caso che fosse capitato a quel vecchio e
non a me. Eppure, non so perché, nel sentire quella notizia non
provai compassione per l’uomo ucciso. Non riuscivo a condividere il
dolore, la paura e lo shock di quel poveraccio. Anzi, nutrivo
simpatia per l’orso. O meglio, no, non era simpatia, pensai. Era
qualcosa piú simile alla complicità.
Che cosa mi stava
succedendo? mi chiesi guardandomi nello specchio del barbiere.
«Forse sto cominciando a impazzire, – mormorai a voce bassissima. –
Forse farei meglio a non avvicinarmi a nessuno. Almeno per un
po’».
All’inizio della seconda
metà di aprile, cominciai ad averne abbastanza del freddo. Lasciai
l’Hokkaidō e tornai indietro. Dalla prefettura di Aomori procedetti
lungo la costa del Pacifico fino a quella di Iwate, poi di Miyagi.
Man mano che andavo verso sud, il clima si faceva primaverile. Nel
frattempo continuavo a pensare a mia moglie. A lei, e alle braccia
sconosciute che in quel momento, probabilmente, la stringevano su
qualche letto. Non è che volessi pensarci, ma non potevo farne a
meno.
L’avevo conosciuta poco
prima di compiere trent’anni. Lei ne aveva tre meno di me. Aveva
una laurea breve in Architettura, e a quel tempo lavorava in uno
studio di progettazione edilizia. Era una ex compagna di liceo
della ragazza con cui stavo all’epoca. Aveva i capelli lunghi e
lisci, un trucco leggero, un viso piuttosto dolce (solo in seguito
mi resi conto che era meno dolce di quanto apparisse). Una volta
che ero uscito con la mia ragazza d’allora, ci presentarono: me ne
innamorai immediatamente, lí, su due piedi.
Il suo viso non aveva
nulla di eccezionale. Nessun difetto particolare, ma nemmeno
qualcosa che catturasse lo sguardo. Aveva lunghe ciglia, il naso
sottile, era abbastanza minuta, e i capelli che le arrivavano alle
scapole avevano un taglio bellissimo (curava molto i suoi capelli).
All’angolo destro della bocca carnosa aveva un piccolo neo, che si
muoveva in modo sorprendente in accordo con i cambiamenti
d’espressione. Quel particolare aveva qualcosa di sensuale, ma solo
quando ci si faceva caso. Mi era bastato vederla per esserne
conquistato, un vero colpo di fulmine, malgrado la mia ragazza
fosse oggettivamente piú bella. Per quale ragione? Mi ci erano
volute diverse settimane per capirlo. Un giorno, però, di colpo
ebbi un’illuminazione: mi ricordava mia sorella morta. In modo
impressionante.
Non si può dire che
fisicamente fossero poi molto simili. Anzi, guardandole in
fotografia difficilmente qualcuno avrebbe detto che si
assomigliavano. Ed è il motivo per cui all’inizio non me n’ero
accorto. A evocare mia sorella, in lei, non era tanto il viso,
quanto il modo in cui cambiava espressione, il movimento e la luce
degli occhi… era identico, al punto da sembrarmi quasi prodigioso.
Come se per magia o chissà che altro, il passato rivivesse davanti
ai miei occhi.
Anche mia sorella aveva
tre anni meno di me, e soffriva di un difetto congenito della
valvola cardiaca. Da piccola aveva subito diverse operazioni: erano
tutte riuscite, ma le avevano lasciato delle complicanze
irreparabili. Complicanze dall’evoluzione imprevedibile, neppure i
medici sapevano se sarebbero guarite naturalmente o avrebbero
portato a danni fatali. Alla fine mia sorella morí quando io avevo
quindici anni. Aveva appena iniziato le medie. Nella sua breve vita
non aveva mai smesso di lottare contro quel difetto congenito, ma
non aveva mai rinunciato al suo carattere allegro. Fino all’ultimo
non si era persa d’animo, anzi, aveva sempre qualche progetto
preciso. Non c’era posto per la morte nei suoi programmi. Dotata di
un’intelligenza brillante, a scuola aveva ottimi voti (ben migliori
dei miei), era determinata e quando prendeva una decisione non vi
rinunciava, per nessun motivo. Quando litigavamo − ma succedeva
raramente − alla fine ero sempre io che cedevo. Nell’ultimo periodo
era diventata molto magra, ma i suoi occhi erano sempre vivaci e
pieni di vita.
Erano stati quegli occhi
a conquistarmi, in mia moglie. Qualcosa che luccicava in fondo alle
sue pupille. Quando li avevo visti per la prima volta, il mio cuore
aveva ricevuto una scossa. Detto ciò, non è che in lei volessi
ritrovare mia sorella morta. Capivo bene che un simile desiderio
era destinato alla delusione. Ciò che cercavo, ciò di cui avevo
bisogno, era la luce di quella volontà. Quella fonte di calore
necessaria alla vita. Per me era qualcosa di familiare, qualcosa
che conoscevo bene, ma che di mio, forse, non avevo a
sufficienza.
Riuscii a farmi dare il
suo numero di telefono e la chiamai per invitarla a uscire. Lei
naturalmente rimase sorpresa, tergiversò. Comunque la si vedesse,
io stavo con una sua amica. Non mollai. Le dissi che volevo
soltanto incontrarla e fare due chiacchiere. Mi bastava. Non
chiedevo nulla di piú. Cenammo in un piccolo ristorante tranquillo,
dove parlammo di tante cose, seduti uno di fronte all’altra.
All’inizio la conversazione fu un po’ impacciata, ma poi si sciolse
e si animò. Gli argomenti non mancavano perché c’era una montagna
di cose che volevo sapere su di lei. Il suo compleanno cadeva a tre
giorni di distanza da quello di mia sorella.
– Posso fare il tuo
ritratto? – le chiesi.
– Qui? Adesso? – rispose
lei guardandosi attorno. Avevamo appena ordinato il
dessert.
– Finisco prima che ci
portino il dolce, – dissi.
– Be’, allora fai pure,
– concesse lei, convinta solo a metà.
Presi dalla cartella il
piccolo album da disegno che portavo sempre con me e con una matita
2B in quattro e quattr’otto feci lo schizzo del suo viso. Come
promesso, avevo finito prima che arrivasse il dessert. La parte
essenziale naturalmente erano i suoi occhi. Era quello che piú di
ogni cosa volevo disegnare. In fondo a quegli occhi si apriva un
universo profondo, al di là del tempo.
Le mostrai il ritratto.
Le piacque moltissimo.
– È pieno di vita, –
disse.
– Sei tu ad essere piena
di vita.
Rimase a guardarlo a
lungo, come se ne fosse impressionata. Come se vedesse una se
stessa che non conosceva.
– Se ti piace, te lo
regalo.
– Ah, posso tenerlo? Sul
serio?
– Ma certo. È solo uno
schizzo.
– Allora
grazie.
Da quel giorno ci
incontrammo diverse volte, finché ci mettemmo insieme. Le cose
procedettero in maniera molto naturale. Per la mia ex ragazza fu
uno shock scoprire che le ero stato portato via da un’amica che
considerava intima. E poi forse pensava di sposarsi con me (anche
se non era mai stato nelle mie intenzioni), quindi era naturale che
fosse furibonda. Inoltre all’epoca quella che sarebbe diventata mia
moglie aveva una relazione con un altro uomo, e anche per lui non
fu facile accettare la cosa. Restava qualche altra difficoltà, ma
nel giro di sei mesi eravamo marito e moglie. Facemmo una piccola
festa simpatica solo per gli amici e andammo ad abitare in un
appartamento a Hiroo. L’appartamento apparteneva allo zio di lei,
che ce l’aveva dato in affitto per una cifra relativamente bassa.
Adibii la stanza piú piccola ad atelier e continuai a svolgere lí
la mia professione di ritrattista: che ormai non era piú un impiego
temporaneo. La vita matrimoniale esigeva un introito stabile, e
l’unico modo che avessi di guadagnare con regolarità era ritrarre
le persone. Mia moglie per andare allo studio di Yotsuya-sanchōme
prendeva la metropolitana. La conseguenza naturale di questa
situazione era che delle faccende domestiche mi occupavo
soprattutto io, che restavo a casa: ma a me non pesava. Non mi era
mai dispiaciuto farlo e mi permetteva, di tanto in tanto, di
staccare dal lavoro. In ogni caso, era infinitamente meglio che
andare ogni giorno in un ufficio e stare tutto il tempo seduto a
una scrivania.
I primi anni, la vita
matrimoniale trascorse in maniera tranquilla e soddisfacente per
entrambi, credo. In poco tempo e con naturalezza si creò tra noi
una piacevole quotidianità. Nei fine settimana e nei giorni di
ferie smettevo di dipingere e uscivamo insieme: andavamo a vedere
una mostra o a camminare fuori città. Oppure facevamo anche solo
dei giri a piedi senza una meta precisa. Prenderci del tempo per
confidarci anche segreti intimi era per noi diventata un’abitudine
preziosa. Non nascondevamo nulla di quanto ci accadeva e ci
parlavamo con sincerità. Ci scambiavamo idee e ci confidavamo i
nostri sentimenti.
C’era soltanto una cosa
che non le avevo detto. Che i suoi occhi mi ricordavano in modo
impressionante quelli di mia sorella morta a dodici anni, e che
questa somiglianza era la cosa che piú mi aveva attratto in lei. Se
non fosse stato per i suoi occhi, forse non avrei cercato di
conquistarla con tanta determinazione. Sentivo che era meglio non
dirlo, e non ne feci parola fino alla fine. Era l’unico segreto che
avessi per mia moglie. Quali segreti avesse lei per me − forse non
ne aveva… − non lo sapevo.
Si chiamava Yuzu. Come
lo yuzu2 che si usa in cucina.
A letto, quando facevamo l’amore, a volte per scherzo la
chiamavo sudachi3. Glielo mormoravo
piano piano all’orecchio. Lei rideva ogni volta, ma un po’, mi sa,
si arrabbiava.
– No, non
sudachi:
yuzu. Sono
simili, ma non uguali, – mi diceva.
Poi le cose erano
cominciate ad andare nella direzione sbagliata. Da quando? Mentre
al volante della mia macchina mi spostavo da un autogrill
all’altro, da un business hotel
all’altro, solo per non dovermi fermare
definitivamente in un posto, continuavo ad arrovellarmi su questa
domanda. Non riuscivo a individuare un momento preciso in cui le
cose avevano iniziato ad andare male. Avevo sempre pensato che la
nostra coppia funzionasse. Ovviamente c’erano delle questioni
irrisolte, certo, come in tutte le coppie del mondo, e ne
discutevamo. La piú grave, credo, la piú concreta, era capire se
volevamo dei figli o no. Ma avevamo ancora un po’ di tempo prima
che diventasse urgente decidere. A parte questo (un argomento che
restava in sospeso), conducevamo una sana vita matrimoniale, fra
noi c’era un profondo accordo sia spirituale che fisico. Fino
all’ultimo ne ero stato convinto.
Perché ero stato tanto
ottimista? Anzi, perché ero stato tanto stupido? Nel mio campo
visivo doveva esserci un punto cieco… un punto cieco congenito, per
cosí dire. Come se mi dovesse sempre sfuggire qualcosa. Qualcosa di
importante.
Il mattino, dopo che mia
moglie era uscita, mi concentravo nel lavoro fino a mezzogiorno
passato, poi pranzavo, facevo un giro nei dintorni, passavo al
supermercato, e nel pomeriggio preparavo la cena. Due o tre volte
alla settimana andavo a nuotare nella piscina di una palestra del
quartiere. Quando mia moglie tornava mettevo in tavola quello che
avevo preparato. Bevevamo insieme una birra o del vino. Se mi
chiamava per dirmi che doveva fare gli straordinari e avrebbe
cenato da qualche parte vicino all’ufficio, mangiavo qualcosa di
semplice da solo. È cosí che avevo, piú o meno, passato le mie
giornate in quei sei anni di vita matrimoniale. Da parte mia, non
ne ero scontento.
Succedeva sempre piú
spesso che mia moglie restasse in ufficio oltre l’orario di lavoro
perché aveva troppo da fare. Erano sempre piú frequenti le sere in
cui dovevo cenare da solo. A volte lei tornava a casa quasi in
piena notte. «È che in questo periodo siamo oberati», mi spiegava.
Mi aveva detto che uno dei suoi colleghi era stato trasferito
all’improvviso, e toccava a lei tappare il buco che si era creato.
In ufficio non si decidevano ad assumere qualcun altro. Quando
rientrava tardi era sempre stanca, faceva una doccia e andava a
dormire. Di conseguenza accadeva sempre piú di rado che facessimo
l’amore. A volte lei doveva andare in ufficio per smaltire il
lavoro arretrato anche quando era in ferie. Naturalmente io
accettavo le sue spiegazioni senza farmi tante domande. Non avevo
motivo di non crederle.
Ora però mi chiedevo se
fosse vera, quella storia degli straordinari. Mentre io cenavo a
casa da solo, probabilmente lei faceva sesso con l’amante in
qualche albergo.
Yuzu era piuttosto
estroversa. In apparenza era riservata, ma era sveglia e spiritosa:
di una qualche forma di socialità ne aveva bisogno. Io però non me
la sentivo di condividerla con lei, questa socialità. Cosí alla
fine ogni tanto lei pranzava con delle nuove amiche (ne aveva
molte) e dopo il lavoro andava a bere qualcosa con i colleghi
(reggeva l’alcol meglio di me). Io non avevo nulla in contrario al
fatto che uscisse da sola e si divertisse. Anzi, forse la
incoraggiavo addirittura.
Adesso che ci penso,
anche il rapporto con mia sorella era un po’ cosí. Non mi era mai
piaciuto passare il tempo fuori casa, neanche da giovane: quando
tornavo da scuola mi chiudevo nella mia stanza a leggere o a
disegnare. Rispetto a me, mia sorella era molto piú attiva e
socievole. Quindi capitava di rado di condividere qualcosa con lei,
un interesse, un’attività di qualche tipo. Eppure ci capivamo al
volo e ci stimavamo. Forse non era cosí diffuso tra fratello e
sorella della nostra generazione, ma noi parlavamo molto. Al primo
piano di casa nostra c’era un balcone dove mettevamo il bucato ad
asciugare: avevamo l’abitudine di andare lí per dirci tante cose,
senza stufarci mai, sia d’estate che d’inverno. Ci raccontavamo
soprattutto delle cose buffe, aneddoti, battute, sbellicandoci
dalle risate.
Forse non c’entrava
nulla con tutto questo, ma riguardo alla relazione con mia moglie
mi sentivo sereno. Consideravo il ruolo che mi era toccato nella
commedia di quel matrimonio − quello di partner taciturno e
cooperativo − come naturale e ovvio. Ma forse per Yuzu non era
cosí. Forse lei non era del tutto soddisfatta dell’esistenza che
conducevamo, le mancava qualcosa. Lei e mia sorella avevano
personalità molto diverse. E io, non c’è bisogno di dirlo, non ero
piú un adolescente.
Anche aprile finí e
quando iniziò maggio non ne potevo piú di guidare da mattino a
sera, giorno dopo giorno. E anche di pensare e ripensare alle
stesse cose, le mani strette sul volante. Mi ripetevo sempre le
medesime domande: ma di risposte nemmeno l’ombra. A forza di stare
seduto in macchina, mi era venuto mal di schiena. La mia Peugeot
205 non era certo una vettura di lusso. I sedili erano scomodi, le
sospensioni visibilmente consumate. E per colpa della luce che si
riverberava di continuo sulla strada, mi facevano male gli
occhi.
Sui monti al confine tra
le prefetture di Miyagi e Iwate trovai una piccola stazione termale
senza pretese dove decisi di prendermi una pausa dal mio
vagabondare. Situata in fondo a una valle, non aveva un nome ed era
frequentata dagli abitanti della zona per lunghi soggiorni a scopo
curativo. La locanda costava poco, e nella cucina comune era
possibile prepararsi dei piccoli pasti. L’uso della vasca era
gratuito e si poteva dormire quanto si voleva. Mentre mi riprendevo
dalla fatica di guidare, leggevo sdraiato sui tatami. E quando mi
stancavo di leggere, tiravo fuori dalla sacca il mio album da
disegno. Dopo molto tempo, avevo ritrovato il desiderio di
raffigurare qualcosa. Prima disegnai i fiori e gli alberi del
giardino, poi i conigli allevati in cortile. Erano semplici schizzi
a matita, ma suscitavano l’ammirazione di tutti. Cominciai a fare
il ritratto a tutti quelli che me lo chiedevano. Agli altri ospiti
della locanda, ai gestori. Alle persone che mi passavano davanti,
insomma. Gente che non avrei mai piú incontrato. E a chi lo
desiderava, quei ritratti, li regalavo.
Era tempo di tornare a
Tōkyō, però. Continuando cosí, non sarei arrivato da nessuna parte.
Inoltre volevo ricominciare a dipingere. Non ritratti su
commissione, non semplici schizzi… no: sistemarmi da qualche parte
e dipingere per me stesso. Non sapevo se ci sarei riuscito o no, ma
di sicuro dovevo cominciare.
Volevo rimettermi alla
guida della mia Peugeot, lasciare la regione del Tōhoku e rientrare
nel Kantō, ma arrivato sulla SN6, poco prima di Iwaki,
improvvisamente la macchina mi piantò in asso. Non ci fu modo di
rimetterla in moto, il carburatore era andato. C’era poco di cui
potessi lamentarmi, ad essere sincero: fino a quel momento non
l’avevo mai nemmeno fatta revisionare. L’unica fortuna in quella
circostanza fu che la macchina si era rotta nelle vicinanze di un
garage dove trovai un meccanico molto gentile. Mi disse che
sostituire delle parti di una Peugeot vecchio modello era molto
difficile e non c’era neanche il tempo di farle arrivare. E anche
supponendo di riuscire a ripararla, ben presto mi avrebbe dato
altri problemi. La cinghia della ventola teneva per miracolo, le
pastiglie dei freni erano consumate. Quanto alle sospensioni, erano
un disastro.
– Non glielo dico per
cattiveria. Ma è meglio farle fare una morte dolce.
Dire addio alla mia
Peugeot, con la quale per un mese e mezzo avevo condiviso le mie
giornate sulla strada − il contachilometri ne segnava quasi
duecentomila −, fu triste, ma dovetti rassegnarmi a lasciarla.
Aveva esalato l’ultimo respiro al posto mio, pensai.
Al meccanico, che si
prese la briga di mandare la macchina alla demolizione, lasciai la
tenda, il sacco a pelo e l’equipaggiamento da campeggio: era un
modo per ringraziarlo. Feci un ultimo schizzo della Peugeot 205,
poi sistemai la sacca in spalla e tornai a Tōkyō con la linea
Jōban. Dalla stazione chiamai Masahiko e gli spiegai velocemente la
situazione in cui mi trovavo. Gli dissi che il mio matrimonio era
in crisi, che ero andato in giro per qualche tempo e adesso ero
tornato in città. Al momento non sapevo dove stare. Aveva per caso
la possibilità di darmi alloggio da qualche parte?
– Se le cose stanno
cosí… ho la casa che fa per te, – mi rispose. – Mio padre ci ha
vissuto da solo per molto tempo, ma ora è disabitata perché lui è
stato ricoverato in un istituto per anziani di Izukōhara. È
ammobiliata e provvista di tutto il necessario, non hai bisogno di
portarti niente. Non si trova in un luogo comodissimo, è vero, ma
c’è il telefono. Se ti va, puoi andare ad abitare lí per un
po’.
Gli dissi che era piú di
quanto sperassi. Davvero. Piú di quanto sperassi.
Fu cosí che iniziai una
nuova vita in un posto nuovo.
1. Alberghi modesti, in
stile occidentale, utilizzati soprattutto per viaggi di
lavoro.
2. Ibrido tra il
mandarino e la papeda, molto diffuso in Giappone.
3. Agrume simile allo
yuzu, ma con frutti piú piccoli.