Capitolo diciottesimo
La curiosità non uccide soltanto i gatti
Uscii per andare incontro a Menshiki. Era la prima volta che lo facevo, anche se non avevo una particolare ragione per farlo quel giorno. Volevo semplicemente sgranchirmi le gambe e respirare l’aria fresca.
Nel cielo c’erano ancora quelle nuvole bianche e rotonde. Arrivavano dal mare, portate dal vento di sud-ovest, e si dirigevano verso i monti. Come riuscissero a prendere una dopo l’altra la forma di un cerchio perfetto, da sole, senza l’intervento di una volontà, era un mistero. O forse no, forse per un meteorologo non lo era affatto, probabilmente lo era solo per me. Da quando vivevo su quei monti, ero affascinato da tante meraviglie della natura.
Menshiki indossava una polo rosso scuro, molto bella. E dei jeans azzurri sbiaditi aderenti, di stoffa morbida. A mio parere (ma forse esageravo) quando si vestiva sceglieva sempre colori che mettessero in risalto i suoi capelli bianchi. Quel rosso scuro, ad esempio, col bianco stava benissimo. Inoltre i suoi capelli erano sempre della stessa lunghezza, quella che lui, evidentemente, riteneva quella giusta. Come facesse non lo sapevo, ma non erano mai né piú lunghi, né piú corti di cosí.
– Le dispiace se prima andiamo nel bosco e ispezioniamo l’interno della buca? – mi chiese. – Vorrei controllare che non si sia verificato qualche cambiamento.
Non avevo nulla in contrario. Anch’io dal giorno degli scavi non mi ero piú avvicinato a quel luogo, e volevo vedere in che condizioni era.
– Mi scusi, ma potrebbe portare con noi anche la campanella? – chiese ancora Menshiki.
Andai a prenderla nell’atelier, sulla mensola dove l’avevo appoggiata.
Menshiki tirò fuori dal portabagagli della macchina la sua grossa torcia elettrica e se l’appese al collo con una cinghia. Poi si incamminò verso il bosco. Lo seguii. I colori della vegetazione erano già cambiati rispetto alla volta precedente. In quella stagione, sui monti, gli alberi prendono le tinte autunnali da un giorno all’altro: alcuni stavano diventando rossi, altri gialli, e non mancavano i sempreverdi. Uno splendore, insomma. Menshiki però non sembrava minimamente interessato al paesaggio.
– Ho fatto qualche ricerca, su questo terreno, – mi disse mentre camminavamo. – A chi è appartenuto, a che uso è stato destinato… questo genere di informazioni, insomma.
– E ha scoperto qualcosa?
Scosse la testa.
– Praticamente nulla. Mi ero immaginato che in altri tempi avesse un nesso con qualche organizzazione religiosa, ma dalle mie ricerche non è emerso nulla di simile. Non riesco a capire perché proprio qui sia stato eretto un tempietto e scavata una cripta. In origine pare che fosse solo un terreno boschivo in montagna. Che sia stato disboscato per costruirvi il cottage dove ora abita lei. Amada Tomohiko ha comprato casa e terreno insieme, nel 1955. Da un uomo politico che usava il cottage come residenza di montagna. Probabilmente conoscerà il suo nome, è stato addirittura ministro, nel periodo precedente la Seconda guerra mondiale. Nel dopoguerra si è ritirato a vita privata. Non so a chi appartenesse il terreno ancora prima, non sono risalito cosí indietro.
– Un po’ strano, non trova, che un membro del governo avesse una seconda casa in un posto sperduto come questo…
– No, a quei tempi diversi uomini politici avevano delle ville da queste parti. Anche Konoe Fumimaro1, ad esempio. Se non sbaglio aveva una casa nelle vicinanze. Qui siamo sulla strada tra Hakone e Atami, era un posto perfetto per ritrovarsi e tenere riunioni confidenziali. Perché a Tōkyō tanti personaggi importanti insieme rischiavano di attirare l’attenzione.
Spostammo le assi che facevano da coperchio alla buca.
– Allora mi calo giú, – disse Menshiki. – Può aspettare qui, per favore?
Gli dissi che non mi sarei mosso.
Scese lungo la scala metallica che avevano lasciato gli operai. Ad ogni gradino su cui posava un piede, si udiva un lieve cigolio. Io lo osservavo dall’alto. Quando arrivò sul fondo, si tolse la torcia elettrica dal collo, l’accese e ispezionò lentamente le pareti della cripta. Le toccò, le colpí col pugno.
– Il muro è eretto con maestria. Oltre che bello solido, – mi disse alzando la testa a guardarmi. – Non credo che abbiano soltanto interrato un pozzo. Un pozzo non avrebbe richiesto tanto lavoro, bastava mettere una pietra sopra l’altra. Questa è un’opera fatta a regola d’arte.
– Pensa che l’abbiano costruita per qualche altro scopo?
Menshiki scosse la testa senza parlare. Per dirmi che non capiva, che non riusciva a immaginare.
– Senta, vorrei chiederle un favore, – fece poi.
– Mi dica…
– Sarà un po’ faticoso, quindi mi scuso in anticipo. Dovrebbe tirare su questa scala e chiudere bene la buca, in modo che ci entri meno luce possibile.
Per qualche secondo rimasi senza parole.
– Stia tranquillo, andrà tutto bene, – mi rassicurò lui. – Voglio sperimentare di persona, fisicamente, cosa si prova a stare chiusi qui dentro, in fondo a questa cavità buia. Anche se per il momento non ho intenzione di trasformarmi in una mummia!
– E quanto ci vuole restare, là sotto?
– Quando vorrò uscire, suonerò la campanella. Appena la sente, tolga il coperchio e cali di nuovo la scala. Se entro un’ora non sente nulla, prenda lei l’iniziativa di aprire. Non voglio restare in questa cripta per un tempo piú lungo. Mi raccomando, non si dimentichi che sono qui sotto! Se per qualche ragione dovesse scordarselo, finirei davvero mummificato.
– Il cacciatore di mummie che diventa lui stesso una mummia, – dissi.
Menshiki rise.
– Esattamente cosí.
– Si figuri se me ne dimentico! Però siamo sicuri? Davvero non è rischioso?
– Ma no, è una semplice curiosità. Voglio solo stare per un po’ seduto al buio in fondo a una buca. Ora le passo la torcia elettrica. In cambio, lei mi dia la campanella.
Menshiki salí fino a metà scala e mi consegnò la torcia. Io la presi e gli passai la campanella. La scosse leggermente. Si udí un tintinnio cristallino.
– Senta, però, – dissi guardando giú verso Menshiki. – Metta che io venga punto da uno sciame di vespe e perda conoscenza. O muoia. Lei non potrebbe uscire di lí mai piú. Non si sa mai cosa può capitare, a questo mondo.
– Soddisfare la propria curiosità implica un certo grado di rischio. Se non lo si accetta, non si ottiene nulla. La curiosità non uccide soltanto i gatti.
– Fra un’ora sarò qui, – dissi.
– Mi raccomando, faccia molta attenzione alle vespe!
– Anche lei, signor Menshiki, stia attento, laggiú nel buio.
Non rispose, si limitò ad alzare gli occhi su di me. Sembrava voler cogliere un significato nel mio viso rivolto verso di lui. Il suo sguardo però mi parve un po’ smarrito, quasi cercasse di mettere a fuoco qualcosa sulla mia faccia, senza riuscirci. Quello sguardo incerto non era da lui. Alla fine dovette rinuciare, perché si sedette per terra e appoggiò la schiena contro la parete circolare. Alzò la mano a farmi un piccolo cenno: era pronto. Tirai su la scala, spostai le assi di legno sulla buca in modo che la chiudessero bene, e sopra ci misi ancora qualche pietra. Dalle fessure tra le assi forse un po’ di luce all’interno filtrava, ma non abbastanza da rischiarare la cripta. Per un momento pensai di dire qualcosa a Menshiki, poi lasciai perdere. Dopotutto, era lui a desiderare la solitudine e il silenzio.
Tornai a casa, scaldai l’acqua e mi preparai un tè. Mi sedetti sul divano col libro che avevo iniziato in quei giorni. Però stavo all’erta, le orecchie tese per timore di non sentire il suono della campanella, col risultato che non riuscivo a concentrarmi. Ogni cinque minuti guardavo l’orologio. Immaginavo Menshiki seduto da solo in fondo a quella fossa buia. Che strano personaggio, pensai. Far venire a proprie spese degli operai per spostare un cumulo di massi e aprire una buca misteriosa. E adesso era chiuso lí dentro, da solo… cosí come mi aveva chiesto lui!
Bah, e io che ci potevo fare? Non sapevo da quale bisogno o quale obiettivo fosse mosso (ammesso che l’avesse, un bisogno o un obiettivo), ma in ogni caso era un problema suo e doveva risolverlo lui. Da parte mia, in quel piano progettato da un’altra persona, mi limitavo a fare la mia parte senza pormi troppe domande. Rinunciai a leggere, mi stesi sul divano e chiusi gli occhi. Non mi addormentai, però. Non era certo il momento.
Un’ora passò senza che sentissi suonare la campanella. Ma poteva anche darsi che per qualche ragione il tintinnio mi fosse sfuggito. In ogni caso, era l’ora di aprire la buca. Mi alzai, nell’ingresso mi rimisi le scarpe, uscii e mi diressi verso il bosco. D’un tratto mi venne paura di imbattermi in un sciame di vespe, o in un cinghiale, ma per fortuna non feci incontri spiacevoli. Un uccellino, forse un passero, attraversò velocissimo l’aria davanti a me. Avanzai fra gli alberi, girai attorno al tempietto. Tolsi le pietre e spostai una delle assi.
– Signor Menshiki? – chiamai.
Nessuna risposta.
Guardai nell’apertura, ma dentro la fossa faceva troppo buio per riuscire a vedere nulla.
– Signor Menshiki? – chiamai di nuovo.
Niente, ancora silenzio. Cominciavo a preoccuparmi. Non era mica scomparso? Come la mummia che avremmo dovuto trovare là sotto. Non era razionalmente concepibile, ma lo temevo sul serio.
Spostai in fretta un’altra asse. Un’altra ancora. Finalmente la luce del sole illuminò il fondo della buca. E vidi la figura di Menshiki, seduto a terra.
– Tutto bene, signor Menshiki? – gli domandai, un poco sollevato.
Come se al suono della mia voce avesse ripreso conoscenza, lui guardò in alto e fece un piccolo cenno con la testa. Poi si coprí il viso con entrambe le mani, forse abbagliato.
– Sí, tutto bene, – disse a bassa voce. – Mi lasci qui ancora qualche minuto, però. I miei occhi si devono riabituare alla luce.
– È passata un’ora esatta. Se vuole restare là sotto piú a lungo, posso richiudere la buca.
Scosse la testa.
– No, è sufficiente. Per il momento va bene cosí. Non potrei resistere di piú. Può darsi che sia troppo pericoloso.
– Troppo pericoloso?
– Dopo le spiego, – disse Menshiki. E si strofinò la faccia con le mani, come se volesse liberare la pelle da qualcosa.
Passati cinque minuti, si alzò, risalí lungo la scala di metallo che avevo di nuovo calato e riemerse in superficie. Spazzolò la polvere che gli era rimasta attaccata ai pantaloni, socchiuse gli occhi e sollevò la testa a guardare il cielo azzurro che si intravedeva fra i rami degli alberi. Per lunghi minuti rimase a contemplare quel cielo autunnale, quasi con affetto. Poi mi aiutò a rimettere a posto le assi, in modo che nessuno cadesse per sbaglio nella buca. Vi posammo sopra anche le pietre. Ne memorizzai la posizione: se qualcuno le avesse spostate, l’avrei visto subito. La scala la lasciammo dentro.
– Il suono della campanella non l’ho sentito, – dissi camminando.
– Infatti non l’ho scossa, – rispose Menshiki.
Non aggiunse altro, né io gli feci domande.
Uscimmo dal bosco e tornammo a casa. Lui camminava davanti, io lo seguivo. Senza dire una parola mise di nuovo la torcia elettrica nel portabagagli della Jaguar. Andammo a sederci in soggiorno a bere un caffè caldo. Menshiki continuava a stare zitto, immerso in qualche sua riflessione. Non che avesse un’espressione particolarmente preoccupata, ma era chiaro che la sua mente era altrove, persa in qualche territorio lontano. Un territorio dove lui era solo. Lo lasciai ai suoi pensieri, senza disturbarlo. Come faceva il dottor Watson con Sherlock Holmes.
Nel frattempo, io pensavo al programma della mia giornata. Dovevo tornare sulla Terra: nel pomeriggio avrei preso la macchina e sarei andato alla scuola di pittura di Odawara, per guardare i disegni fatti dagli allievi e dare a ognuno di loro il mio giudizio di insegnante. Avevo due lezioni di fila, una per bambini e una per adulti. Era quasi l’unica occasione che mi si offriva, nella vita di tutti i giorni, di incontrare delle persone e scambiare due parole con loro. Senza quelle lezioni, avrei vissuto su quei monti come un eremita. E a vivere a lungo da soli, si finisce con l’impazzire, come aveva detto Masahiko (d’altronde poteva darsi che avessi già iniziato).
Di conseguenza, va da sé, avrei dovuto accogliere con gratitudine quell’occasione di contatto con il mondo reale, con la vita sociale. Eppure non ci riuscivo. Le persone che incontravo alla scuola di pittura, piú che esseri reali, mi sembravano semplici ombre che mi passavano davanti agli occhi. Sorridevo ad ognuna di loro, le chiamavo per nome, valutavo i loro disegni. Anzi, no, non si può dire che li valutassi. Mi limitavo a elogiarli. In ogni lavoro trovavo qualcosa di buono, e se non c’era, me lo inventavo.
Ragion per cui pare che come insegnante godessi di un’ottima reputazione. A sentire il direttore della scuola, ero simpatico alla maggior parte degli allievi. Ne ero rimasto sorpreso. Non avevo mai pensato di essere portato per l’insegnamento. Comunque fosse, non me ne importava granché. Essere simpatico o meno mi era del tutto indifferente. Mi bastava tenere quelle lezioni in santa pace, senza problemi. Per debito morale nei confronti di Masahiko.
Detto ciò, non proprio tutte le persone erano per me come delle ombre. Con due di loro, due donne, avevo stretto una relazione personale. Entrambe non partecipavano piú ai corsi di pittura, forse avrebbero trovato imbarazzante continuare a seguire le mie lezioni. Me ne sentivo in un certo senso responsabile.
La seconda, la piú matura, sarebbe venuta a casa mia l’indomani. Avremmo passato il pomeriggio a letto, a fare l’amore. Come avrei potuto considerarla solo un’ombra di passaggio? Era una donna decisamente reale, in carne e ossa. O magari un’ombra in carne e ossa che passava di lí? Non avrei saputo decidere.
Menshiki mi chiamò. Tornai alla realtà. Senza accorgermene, anch’io ero sprofondato nei miei pensieri.
– Le stavo chiedendo del ritratto, – disse.
Lo guardai: sulla sua bella faccia era tornata l’espressione abituale. Calma, riflessiva, rassicurante.
– Se ha bisogno che posi, posso farlo anche adesso, – disse. – Sono pronto a proseguire, quando vuole lei.
Lo osservai per qualche secondo. Posare? Ah, sí, stava parlando del ritratto. Abbassai lo sguardo cercando di mettere ordine nei miei pensieri, e intanto bevvi un sorso di tè ormai freddo, posai la tazza sul piattino con un piccolo colpo secco. Poi alzai la testa e gli dissi:
– Mi scusi, ma oggi devo andare alla scuola di pittura.
– Ah, giusto, giusto… – fece lui. Gettò un’occhiata al suo orologio e aggiunse: – Me ne ero completamente dimenticato. Che lei insegna in quella scuola davanti alla stazione di Odawara, intendo. Deve già andare?
– No, ho ancora un po’ di tempo, – dissi. – Inoltre c’è qualcosa di cui le devo parlare.
– Di cosa si tratta?
– In realtà, il quadro l’ho già finito. In un certo senso.
Il viso di Menshiki si irrigidí un poco. Mi guardò dritto negli occhi. Come scrutando in fondo alle mie pupille alla ricerca di qualcosa.
– Sta parlando del mio ritratto? – chiese.
– Esatto.
– Fantastico! – Sulla sua faccia apparve l’accenno di un sorriso. – È veramente una cosa magnifica. Ha detto «in un certo senso», però. Cosa significa?
– Non è facile da spiegare. Senza contare che io non sono per nulla bravo a dare spiegazioni.
– Si prenda tutto il tempo che le serve e me ne parli come le viene meglio. Sono qui e l’ascolto.
Incrociai le mani sulle ginocchia, sforzandomi di scegliere bene le parole.
Nel frattempo era calato il silenzio. Un silenzio tanto profondo che sembrava di sentir scorrere il tempo. Scorre molto lentamente il tempo sui monti.
– Lei mi ha fatto da modello, e io l’ho raffigurata su una tela, come mi aveva chiesto. Però, ad essere sincero, non penso che l’opera che ho appena terminato si possa considerare un ritratto nel vero senso della parola. Credo che la si possa soltanto definire «un quadro che ha lei come soggetto». Non saprei stimare il suo valore commerciale. L’unica cosa di cui sono certo è che dovevo dipingerlo cosí, non potevo fare diversamente. È tutto quello che posso dirle. Le confesso che sono disorientato. Finché non avrò chiarito anche a me stesso alcune cose, non le darò il quadro. Lo terrò qui. È meglio. O almeno credo. Di conseguenza le restituirò intero l’anticipo che mi ha dato. Le chiedo scusa per averle fatto perdere del tempo prezioso.
– Mi sta dicendo che in realtà non è un ritratto, – rispose Menshiki scegliendo con cura le parole. – Ma in che senso, non lo è?
– Finora mi sono guadagnato da vivere facendo ritratti, è la mia professione. Fare un ritratto, fondamentalmente significa raffigurare una persona nel modo in cui desidera essere vista. È il soggetto a commissionare l’opera, e se il risultato non lo soddisfa, può anche succedere che rifiuti di pagare. Quindi bisogna evitare nella misura del possibile di ritrarne gli aspetti negativi. Occorre insistere sui pregi, cercare in tutti i modi di abbellirne l’immagine. Per questo motivo è difficile che un ritratto su commissione, a meno che sia opera di un novello Rembrandt, possa essere considerato vera arte. Nel caso del suo ritratto, tuttavia… insomma, signor Menshiki, l’ho dipinto senza pensare a lei, pensando solo a me stesso. In altre parole, in quanto autore ho dato francamente la precedenza al mio ego rispetto al suo, malgrado lei fosse il mio modello e committente.
– Ma questo per me non è affatto un problema, – disse Menshiki, sempre col sorriso sulle labbra. – Anzi, ne sono felice. Fin dall’inizio le ho detto chiaramente che poteva dipingere come voleva, che non avrei sollevato obiezioni.
– Ha ragione. È quello che mi ha detto. Lo ricordo bene. Quello che mi preoccupa infatti non è il risultato del mio lavoro. Piuttosto: cos’ho dipinto, io, in quel quadro? Vorrei tanto saperlo. Assecondando unicamente la mia volontà, forse ho finito per raffigurare qualcosa che non dovevo. È questo il mio timore.
Menshiki mi osservò.
– Dunque lei teme di aver tirato fuori, dipingendo, qualcosa che è presente dentro di me, ma che andava lasciato dov’era. Dico bene?
– Sí, esatto, – confermai. – Ho pensato solo a me stesso, e può darsi che cosí facendo abbia smosso qualcosa che non dovevo dentro di lei, signor Menshiki. – Stavo per aggiungere che avevo messo in evidenza una sua tara, ma ci ripensai. Quella parola me la tenni per me.
Menshiki rifletté a lungo su quanto gli avevo detto.
– Interessante, – osservò con aria divertita. – Questa sua opinione è molto interessante.
Non ribattei.
– Sa, io penso di essere una persona con un saldo equilibrio interiore, – proseguí lui. – O diciamo piuttosto che ho un forte controllo su me stesso.
– Lo so, – dissi.
Menshiki si premette leggermente le tempie con le dita, sorrise.
– Dunque il quadro è terminato? Il mio «ritratto», diciamo cosí.
Annuii.
– Sí, è terminato. Insomma, questa è la mia sensazione.
– Magnifico! Tanto per cominciare, perché non me lo fa vedere? Dopo potremo decidere insieme cosa farne. Le dispiace?
– Come vuole, – risposi.
Condussi Menshiki nell’atelier. Si piazzò a un paio di metri dal cavalletto, a braccia conserte, e osservò il quadro. Il ritratto cui aveva fatto da modello. Anzi, la figura che un pugno di colori stava proiettando sulla tela − non riuscivo a definire diversamente quel quadro. La folta capigliatura bianca era diventata uno sprazzo candido, un vorticare di neve. Al di sotto, a prima vista, non si distingueva nessun volto. La traccia di ciò che ci si aspetta di trovare in un volto si nascondeva al di là dei colori. Eppure, innegabilmente, su quella tela Menshiki c’era. Ne ero convinto.
Lui rimase immobile a contemplare il quadro a lungo. Non muoveva un muscolo, letteralmente. Veniva da chiedersi se respirava ancora. Al suo fianco, poco distante, c’ero io che lo osservavo. Quanto tempo passò cosí? Un’eternità, mi parve. Mentre studiava il quadro, dal suo viso era scomparsa ogni espressione. I suoi occhi, come se fossero velati dalla nebbia, avevano perso profondità. Mi ricordavano il riflesso di un cielo nuvoloso nell’acqua ferma di una pozzanghera. Uno sguardo che impediva ogni intrusione. Che sentimenti si agitavano in fondo al suo cuore? Non riuscivo nemmeno a immaginarlo.
Alla fine Menshiki, come una persona risvegliata dall’ipnosi dal battito delle mani di un mago, raddrizzò la schiena e fu percorso da un fremito quasi impercettibile. Un’espressione cosciente tornò sul suo viso e la luce di sempre illuminò di nuovo i suoi occhi. Mi si avvicinò, posando la mano sulla mia spalla.
– È stupendo, – dichiarò. – Prodigioso, davvero. Che dire? È esattamente il quadro che volevo.
Lo guardai in viso. Capii dalla luce nei suoi occhi che era sincero. Il mio quadro gli piaceva, lo emozionava.
– Quest’opera mi raffigura cosí come sono, – proseguí. – È il mio ritratto, in un senso profondo e autentico. Lei ha ragione, ha fatto la cosa giusta.
La sua mano era ancora sulla mia spalla. Era semplicemente posata lí, eppure mi trasmetteva una forza particolare.
– Ma come è riuscito a scoprire quest’opera? – mi chiese Menshiki.
– Scoprire?
– Naturalmente a dipingerla è stato lei. È qualcosa che ha creato con il suo talento, lo so. Eppure, nello stesso tempo, è come se questo quadro lei l’avesse «scoperto». Ha scovato un’immagine che teneva nascosta dentro di lei e l’ha portata alla luce. In un certo senso, l’ha «riesumata». Non è d’accordo?
Ora che me lo faceva notare… be’, forse aveva ragione, pensai. Ovviamente il quadro l’avevo dipinto io con le mie mani, fedele unicamente all’ispirazione del momento. Ero stato io a scegliere i colori e stenderli sulla tela servendomi di pennelli e spatole. Da un altro punto di vista, però, cercando di cogliere l’essenza del soggetto − di Menshiki − avevo scoperto qualcosa che era sepolto dentro di me e l’avevo… sí, l’avevo riesumato. Cosí come io e lui avevamo trovato quella strana cripta dietro il tempietto, dopo aver sollevato strati di pietre e una pesante grata. E non potevo non vedere un nesso tra quei due eventi, due eventi accaduti nello stesso luogo a poca distanza di tempo l’uno dall’altro. Tutto era iniziato quando avevo incontrato quell’uomo, Menshiki, e sentito in piena notte il suono della campanella: tutto ciò che era seguito nasceva da quelle due cose.
– Possiamo addirittura paragonare quanto lei ha fatto a un terremoto in fondo al mare, – continuò Menshiki. – Un terremoto che nessuno ha visto, avvenuto in un luogo inaccessibile, dove non arriva la luce del sole. Ma che pure ha generato un cataclisma nel suo inconscio. Una metamorfosi che si è trasmessa in superficie e ha provocato una reazione a catena. Assumendo, alla fine, la forma che abbiamo davanti agli occhi adesso. Non sono un artista, lo sa, ma lo stesso sono in grado di capire l’origine di un processo creativo, quando me lo trovo davanti. Anche negli affari, le grandi idee nascono cosí. Nella maggior parte dei casi non si generano dal nulla, ma emergono… emergono da un’oscurità piú profonda.
Menshiki tornò a guardare il quadro, questa volta da vicino, in piedi davanti alla tela. Lo esaminò attentamente, come se stesse studiando una complicata carta topografica. Poi si allontanò di qualche passo e di nuovo lo osservò nell’insieme, socchiudendo un po’ gli occhi. Sul suo viso apparve un’espressione estatica. Mi ricordava un rapace esperto sul punto di catturare la sua preda. Già, ma in cosa consisteva la preda? Il quadro che avevo dipinto? Io stesso? Qualcos’altro ancora? Non avrei saputo dirlo. Comunque quell’aria stranamente estatica poco per volta − come la nebbia che il mattino fluttua sulla superficie di un fiume − scomparve dal suo viso, che riprese la solita espressione allo stesso tempo affabile e controllata.
– Non ho l’abitudine di vantarmi, – disse, – tuttavia constatare di aver visto giusto, nel valutare una persona, mi dà una certa soddisfazione. Personalmente non ho alcun talento artistico, la creatività non fa parte del mio mondo, ma sono in grado di riconoscere un’opera d’arte. Sono molto orgoglioso di questa capacità.
Lo sguardo rapace, che gli avevo colto negli occhi mentre osservava il quadro, mi aveva turbato. Quello che diceva non mi suonava sincero, per cui non mi lusingò piú di tanto.
– Dunque le piace? Veramente? – gli chiesi per avere una conferma.
– Non c’è bisogno di dirlo. Questo è un dipinto di valore. Raffigurando me, o ispirandosi a me, lei ha creato una splendida, potente opera d’arte, regalandomi cosí una gioia che va oltre le mie aspettative. E visto che il quadro l’ho commissionato io, col suo permesso me lo porto via. Nulla in contrario, vero?
– Se le cose stanno cosí, no, non ho nulla in contrario. Semplicemente, da parte mia…
Fulmineo, Menshiki alzò una mano a bloccare le mie parole.
– Inoltre, per ringraziarla di aver creato quest’opera splendida, se non le dispiace vorrei invitarla a casa mia nei prossimi giorni. Cosa ne dice? A bere qualcosa insieme, insomma. Se per lei non è una seccatura, s’intende.
– No, si immagini! Nessuna seccatura. Ma non è necessario che si prenda tanto disturbo, lei ha già…
– No, no, ci tengo. Voglio che festeggiamo insieme. Venga a cena da me una di queste sere. Non le prometto nulla di speciale, sarà una cosa modesta. Solo noi due, nessun altro. A parte il cuoco e il barman, s’intende.
– Il cuoco e il barman?
– Vicino al porto di Hayakawa, c’è un ristorante francese che conosco bene, ci vado da molto tempo. Farò venire il cuoco e il barman nel giorno di riposo del locale. Il cuoco è molto bravo. Serve solo pesce freschissimo e penserà a cucinarlo al meglio. A dire la verità, volevo già invitarla a casa mia, a prescindere dal quadro. Avevo anche già fatto qualche preparativo e… Be’, questa è l’occasione perfetta!
Dovetti fare uno sforzo per non lasciar trasparire il mio stupore. Non riuscivo nemmeno a immaginare quanti soldi ci volessero per organizzare una cena del genere, ma forse per Menshiki era una spesa che rientrava nell’ordine abituale delle cose. O per lo meno non superava i limiti del ragionevole.
– Se facessimo fra quattro giorni? – propose. – Martedí sera. Che ne dice?
– Sí, martedí sera non ho impegni, – dissi.
– Perfetto, allora è deciso. Ora però, se non ha nulla in contrario, prendo il quadro e me lo porto a casa. Se riesco, prima di mostrarglielo di nuovo, vorrei farlo incorniciare e appenderlo a una parete.
– Sí, signor Menshiki, ma… ma lei veramente in questo dipinto riesce a vedere la sua faccia? – chiesi di nuovo.
– Certamente, – rispose Menshiki guardandomi con aria stupita. – Ovvio che ci vedo la mia faccia. E in modo molto chiaro. Cos’altro ci dovrei vedere, scusi?
– Benissimo, – dissi. – È un quadro che ho dipinto su sua richiesta. Se le piace, è già suo. Può farne quello che vuole. Faccia attenzione quando lo trasporta, però. I colori non sono ancora secchi. Anche per farlo incorniciare, è meglio che attenda ancora un po’. Ci vorranno alcune settimane, perché asciughi completamente.
– D’accordo. Farò molta attenzione. Per la cornice aspetterò qualche giorno.
Prima di andarsene Menshiki mi tese la mano, e io gliela strinsi. Un gesto che non facevamo da molto tempo. Sulla sua faccia c’era un sorriso soddisfatto.
– Allora ci vediamo martedí sera. Manderò una macchina a prenderla verso le sei.
– A proposito, la mummia non la invita a cena? – chiesi. Non so nemmeno io perché glielo chiesi. Di colpo mi era venuta in mente la storia della mummia, e non avevo potuto fare a meno di tirarla in ballo.
Menshiki mi guardò come se cercasse sul mio viso qualcosa.
– La mummia? Quale mummia?
– Quella che avremmo dovuto trovare nella cripta. Quella che ogni notte presumibilmente suonava la campanella, per poi lasciarla lí e scomparire. O forse dovrei dire il sokushinbutsu. Magari anche lui vorrebbe essere invitato. Come la statua del Commendatore nel Don Giovanni.
Menshiki rifletté qualche secondo, poi un sorriso allegro apparve sulla sua faccia: finalmente aveva capito.
– Ah, ecco! Vorrebbe che invitassi a cena la mummia, come Don Giovanni invita la statua del Commendatore.
– Esatto. E tra le due cose c’è forse un nesso.
– Benissimo. Non ho obiezioni. È una cena per festeggiare un evento. Se la mummia vuole essere dei nostri, la invito con piacere. Sarà una serata molto interessante. Cosa potrei servirle per dessert, però? – disse Menshiki ridendo divertito. – L’unico problema è che non la si vede da nessuna parte. E se non la vedo, come faccio a invitarla?
– Giusto, – dissi. – Ma non possiamo affermare che soltanto le cose visibili siano reali. Non crede?
Menshiki sollevò con cautela il quadro con entrambe le mani e lo portò fino alla macchina. Poi prese dal portabagagli una vecchia coperta e la stese sul sedile accanto al posto di guida. Vi posò sopra la tela facendo attenzione che i colori non toccassero la stoffa. Dopodiché, servendosi di una corda sottile e due scatole di cartone, la legò bene, con prudenza, in modo che non si muovesse. Gesti essenziali. Nel portabagagli sembrava tenere pronto ogni tipo di attrezzo.
– Ma è vero, sa? Forse ha proprio ragione lei, – disse a bassa voce, di punto in bianco, prima di andarsene. Guardandomi dritto in faccia, le mani sul volante di pelle.
– Ho ragione io?
– Sí, riguardo alla vita. Spesso non capiamo bene dove passa il confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Pensiamo che la linea demarcazione tra ciò che esiste e ciò che non esiste sia mobile, come una frontiera che si sposta di sua volontà. A questi spostamenti dobbiamo prestare la massima attenzione. Altrimenti non capiamo piú da quale parte ci troviamo. Quando le ho detto che era pericoloso restare piú a lungo nella cripta, prima, intendevo proprio questo.
Non riuscii a trovare una parola che fosse una per rispondergli. Né lui aggiunse altro. Mi salutò con la mano dal finestrino aperto, mise in moto − subito si udí il gradevole rombo sommesso − e scomparve dal mio campo visivo insieme al quadro non ancora asciutto.
1. Primo ministro dal giugno del 1937 al gennaio del 1939. Firmò il Patto tripartito con Hitler e Mussolini.