Capitolo diciottesimo
La curiosità non uccide soltanto i gatti
Uscii per andare
incontro a Menshiki. Era la prima volta che lo facevo, anche se non
avevo una particolare ragione per farlo quel giorno. Volevo
semplicemente sgranchirmi le gambe e respirare l’aria
fresca.
Nel cielo c’erano ancora
quelle nuvole bianche e rotonde. Arrivavano dal mare, portate dal
vento di sud-ovest, e si dirigevano verso i monti. Come riuscissero
a prendere una dopo l’altra la forma di un cerchio perfetto, da
sole, senza l’intervento di una volontà, era un mistero. O forse
no, forse per un meteorologo non lo era affatto, probabilmente lo
era solo per me. Da quando vivevo su quei monti, ero affascinato da
tante meraviglie della natura.
Menshiki indossava una
polo rosso scuro, molto bella. E dei jeans azzurri sbiaditi
aderenti, di stoffa morbida. A mio parere (ma forse esageravo)
quando si vestiva sceglieva sempre colori che mettessero in risalto
i suoi capelli bianchi. Quel rosso scuro, ad esempio, col bianco
stava benissimo. Inoltre i suoi capelli erano sempre della stessa
lunghezza, quella che lui, evidentemente, riteneva quella giusta.
Come facesse non lo sapevo, ma non erano mai né piú lunghi, né piú
corti di cosí.
– Le dispiace se prima
andiamo nel bosco e ispezioniamo l’interno della buca? – mi chiese.
– Vorrei controllare che non si sia verificato qualche
cambiamento.
Non avevo nulla in
contrario. Anch’io dal giorno degli scavi non mi ero piú avvicinato
a quel luogo, e volevo vedere in che condizioni era.
– Mi scusi, ma potrebbe
portare con noi anche la campanella? – chiese ancora
Menshiki.
Andai a prenderla
nell’atelier, sulla mensola dove l’avevo appoggiata.
Menshiki tirò fuori dal
portabagagli della macchina la sua grossa torcia elettrica e se
l’appese al collo con una cinghia. Poi si incamminò verso il bosco.
Lo seguii. I colori della vegetazione erano già cambiati rispetto
alla volta precedente. In quella stagione, sui monti, gli alberi
prendono le tinte autunnali da un giorno all’altro: alcuni stavano
diventando rossi, altri gialli, e non mancavano i sempreverdi. Uno
splendore, insomma. Menshiki però non sembrava minimamente
interessato al paesaggio.
– Ho fatto qualche
ricerca, su questo terreno, – mi disse mentre camminavamo. – A chi
è appartenuto, a che uso è stato destinato… questo genere di
informazioni, insomma.
– E ha scoperto
qualcosa?
Scosse la
testa.
– Praticamente nulla. Mi
ero immaginato che in altri tempi avesse un nesso con qualche
organizzazione religiosa, ma dalle mie ricerche non è emerso nulla
di simile. Non riesco a capire perché proprio qui sia stato eretto
un tempietto e scavata una cripta. In origine pare che fosse solo
un terreno boschivo in montagna. Che sia stato disboscato per
costruirvi il cottage dove ora abita lei. Amada Tomohiko ha
comprato casa e terreno insieme, nel 1955. Da un uomo politico che
usava il cottage come residenza di montagna. Probabilmente
conoscerà il suo nome, è stato addirittura ministro, nel periodo
precedente la Seconda guerra mondiale. Nel dopoguerra si è ritirato
a vita privata. Non so a chi appartenesse il terreno ancora prima,
non sono risalito cosí indietro.
– Un po’ strano, non
trova, che un membro del governo avesse una seconda casa in un
posto sperduto come questo…
– No, a quei tempi
diversi uomini politici avevano delle ville da queste parti. Anche
Konoe Fumimaro1, ad esempio. Se non
sbaglio aveva una casa nelle vicinanze. Qui siamo sulla strada tra
Hakone e Atami, era un posto perfetto per ritrovarsi e tenere
riunioni confidenziali. Perché a Tōkyō tanti personaggi importanti
insieme rischiavano di attirare l’attenzione.
Spostammo le assi che
facevano da coperchio alla buca.
– Allora mi calo giú, –
disse Menshiki. – Può aspettare qui, per favore?
Gli dissi che non mi
sarei mosso.
Scese lungo la scala
metallica che avevano lasciato gli operai. Ad ogni gradino su cui
posava un piede, si udiva un lieve cigolio. Io lo osservavo
dall’alto. Quando arrivò sul fondo, si tolse la torcia elettrica
dal collo, l’accese e ispezionò lentamente le pareti della cripta.
Le toccò, le colpí col pugno.
– Il muro è eretto con
maestria. Oltre che bello solido, – mi disse alzando la testa a
guardarmi. – Non credo che abbiano soltanto interrato un pozzo. Un
pozzo non avrebbe richiesto tanto lavoro, bastava mettere una
pietra sopra l’altra. Questa è un’opera fatta a regola
d’arte.
– Pensa che l’abbiano
costruita per qualche altro scopo?
Menshiki scosse la testa
senza parlare. Per dirmi che non capiva, che non riusciva a
immaginare.
– Senta, vorrei
chiederle un favore, – fece poi.
– Mi dica…
– Sarà un po’ faticoso,
quindi mi scuso in anticipo. Dovrebbe tirare su questa scala e
chiudere bene la buca, in modo che ci entri meno luce
possibile.
Per qualche secondo
rimasi senza parole.
– Stia tranquillo, andrà
tutto bene, – mi rassicurò lui. – Voglio sperimentare di persona,
fisicamente, cosa si prova a stare chiusi qui dentro, in fondo a
questa cavità buia. Anche se per il momento non ho intenzione di
trasformarmi in una mummia!
– E quanto ci vuole
restare, là sotto?
– Quando vorrò uscire,
suonerò la campanella. Appena la sente, tolga il coperchio e cali
di nuovo la scala. Se entro un’ora non sente nulla, prenda lei
l’iniziativa di aprire. Non voglio restare in questa cripta per un
tempo piú lungo. Mi raccomando, non si dimentichi che sono qui
sotto! Se per qualche ragione dovesse scordarselo, finirei davvero
mummificato.
– Il cacciatore di
mummie che diventa lui stesso una mummia, – dissi.
Menshiki
rise.
– Esattamente
cosí.
– Si figuri se me ne
dimentico! Però siamo sicuri? Davvero non è rischioso?
– Ma no, è una semplice
curiosità. Voglio solo stare per un po’ seduto al buio in fondo a
una buca. Ora le passo la torcia elettrica. In cambio, lei mi dia
la campanella.
Menshiki salí fino a
metà scala e mi consegnò la torcia. Io la presi e gli passai la
campanella. La scosse leggermente. Si udí un tintinnio
cristallino.
– Senta, però, – dissi
guardando giú verso Menshiki. – Metta che io venga punto da uno
sciame di vespe e perda conoscenza. O muoia. Lei non potrebbe
uscire di lí mai piú. Non si sa mai cosa può capitare, a questo
mondo.
– Soddisfare la propria
curiosità implica un certo grado di rischio. Se non lo si accetta,
non si ottiene nulla. La curiosità non uccide soltanto i
gatti.
– Fra un’ora sarò qui, –
dissi.
– Mi raccomando, faccia
molta attenzione alle vespe!
– Anche lei, signor
Menshiki, stia attento, laggiú nel buio.
Non rispose, si limitò
ad alzare gli occhi su di me. Sembrava voler cogliere un
significato nel mio viso rivolto verso di lui. Il suo sguardo però
mi parve un po’ smarrito, quasi cercasse di mettere a fuoco
qualcosa sulla mia faccia, senza riuscirci. Quello sguardo incerto
non era da lui. Alla fine dovette rinuciare, perché si sedette per
terra e appoggiò la schiena contro la parete circolare. Alzò la
mano a farmi un piccolo cenno: era pronto. Tirai su la scala,
spostai le assi di legno sulla buca in modo che la chiudessero
bene, e sopra ci misi ancora qualche pietra. Dalle fessure tra le
assi forse un po’ di luce all’interno filtrava, ma non abbastanza
da rischiarare la cripta. Per un momento pensai di dire qualcosa a
Menshiki, poi lasciai perdere. Dopotutto, era lui a desiderare la
solitudine e il silenzio.
Tornai a casa, scaldai
l’acqua e mi preparai un tè. Mi sedetti sul divano col libro che
avevo iniziato in quei giorni. Però stavo all’erta, le orecchie
tese per timore di non sentire il suono della campanella, col
risultato che non riuscivo a concentrarmi. Ogni cinque minuti
guardavo l’orologio. Immaginavo Menshiki seduto da solo in fondo a
quella fossa buia. Che strano personaggio, pensai. Far venire a
proprie spese degli operai per spostare un cumulo di massi e aprire
una buca misteriosa. E adesso era chiuso lí dentro, da solo… cosí
come mi aveva chiesto lui!
Bah, e io che ci potevo
fare? Non sapevo da quale bisogno o quale obiettivo fosse mosso
(ammesso che l’avesse, un bisogno o un obiettivo), ma in ogni caso
era un problema suo e doveva risolverlo lui. Da parte mia, in quel
piano progettato da un’altra persona, mi limitavo a fare la mia
parte senza pormi troppe domande. Rinunciai a leggere, mi stesi sul
divano e chiusi gli occhi. Non mi addormentai, però. Non era certo
il momento.
Un’ora passò senza che
sentissi suonare la campanella. Ma poteva anche darsi che per
qualche ragione il tintinnio mi fosse sfuggito. In ogni caso, era
l’ora di aprire la buca. Mi alzai, nell’ingresso mi rimisi le
scarpe, uscii e mi diressi verso il bosco. D’un tratto mi venne
paura di imbattermi in un sciame di vespe, o in un cinghiale, ma
per fortuna non feci incontri spiacevoli. Un uccellino, forse un
passero, attraversò velocissimo l’aria davanti a me. Avanzai fra
gli alberi, girai attorno al tempietto. Tolsi le pietre e spostai
una delle assi.
– Signor Menshiki? –
chiamai.
Nessuna
risposta.
Guardai nell’apertura,
ma dentro la fossa faceva troppo buio per riuscire a vedere
nulla.
– Signor Menshiki? –
chiamai di nuovo.
Niente, ancora silenzio.
Cominciavo a preoccuparmi. Non era mica scomparso? Come la mummia
che avremmo dovuto trovare là sotto. Non era razionalmente
concepibile, ma lo temevo sul serio.
Spostai in fretta
un’altra asse. Un’altra ancora. Finalmente la luce del sole
illuminò il fondo della buca. E vidi la figura di Menshiki, seduto
a terra.
– Tutto bene, signor
Menshiki? – gli domandai, un poco sollevato.
Come se al suono della
mia voce avesse ripreso conoscenza, lui guardò in alto e fece un
piccolo cenno con la testa. Poi si coprí il viso con entrambe le
mani, forse abbagliato.
– Sí, tutto bene, –
disse a bassa voce. – Mi lasci qui ancora qualche minuto, però. I
miei occhi si devono riabituare alla luce.
– È passata un’ora
esatta. Se vuole restare là sotto piú a lungo, posso richiudere la
buca.
Scosse la
testa.
– No, è sufficiente. Per
il momento va bene cosí. Non potrei resistere di piú. Può darsi che
sia troppo pericoloso.
– Troppo
pericoloso?
– Dopo le spiego, –
disse Menshiki. E si strofinò la faccia con le mani, come se
volesse liberare la pelle da qualcosa.
Passati cinque minuti,
si alzò, risalí lungo la scala di metallo che avevo di nuovo calato
e riemerse in superficie. Spazzolò la polvere che gli era rimasta
attaccata ai pantaloni, socchiuse gli occhi e sollevò la testa a
guardare il cielo azzurro che si intravedeva fra i rami degli
alberi. Per lunghi minuti rimase a contemplare quel cielo
autunnale, quasi con affetto. Poi mi aiutò a rimettere a posto le
assi, in modo che nessuno cadesse per sbaglio nella buca. Vi
posammo sopra anche le pietre. Ne memorizzai la posizione: se
qualcuno le avesse spostate, l’avrei visto subito. La scala la
lasciammo dentro.
– Il suono della
campanella non l’ho sentito, – dissi camminando.
– Infatti non l’ho
scossa, – rispose Menshiki.
Non aggiunse altro, né
io gli feci domande.
Uscimmo dal bosco e
tornammo a casa. Lui camminava davanti, io lo seguivo. Senza dire
una parola mise di nuovo la torcia elettrica nel portabagagli della
Jaguar. Andammo a sederci in soggiorno a bere un caffè caldo.
Menshiki continuava a stare zitto, immerso in qualche sua
riflessione. Non che avesse un’espressione particolarmente
preoccupata, ma era chiaro che la sua mente era altrove, persa in
qualche territorio lontano. Un territorio dove lui era solo. Lo
lasciai ai suoi pensieri, senza disturbarlo. Come faceva il dottor
Watson con Sherlock Holmes.
Nel frattempo, io
pensavo al programma della mia giornata. Dovevo tornare sulla
Terra: nel pomeriggio avrei preso la macchina e sarei andato alla
scuola di pittura di Odawara, per guardare i disegni fatti dagli
allievi e dare a ognuno di loro il mio giudizio di insegnante.
Avevo due lezioni di fila, una per bambini e una per adulti. Era
quasi l’unica occasione che mi si offriva, nella vita di tutti i
giorni, di incontrare delle persone e scambiare due parole con
loro. Senza quelle lezioni, avrei vissuto su quei monti come un
eremita. E a vivere a lungo da soli, si finisce con l’impazzire,
come aveva detto Masahiko (d’altronde poteva darsi che avessi già
iniziato).
Di conseguenza, va da
sé, avrei dovuto accogliere con gratitudine quell’occasione di
contatto con il mondo reale, con la vita sociale. Eppure non ci
riuscivo. Le persone che incontravo alla scuola di pittura, piú che
esseri reali, mi sembravano semplici ombre che mi passavano davanti
agli occhi. Sorridevo ad ognuna di loro, le chiamavo per nome,
valutavo i loro disegni. Anzi, no, non si può dire che li
valutassi. Mi limitavo a elogiarli. In ogni lavoro trovavo qualcosa
di buono, e se non c’era, me lo inventavo.
Ragion per cui pare che
come insegnante godessi di un’ottima reputazione. A sentire il
direttore della scuola, ero simpatico alla maggior parte degli
allievi. Ne ero rimasto sorpreso. Non avevo mai pensato di essere
portato per l’insegnamento. Comunque fosse, non me ne importava
granché. Essere simpatico o meno mi era del tutto indifferente. Mi
bastava tenere quelle lezioni in santa pace, senza problemi. Per
debito morale nei confronti di Masahiko.
Detto ciò, non proprio
tutte le persone erano per me come delle ombre. Con due di loro,
due donne, avevo stretto una relazione personale. Entrambe non
partecipavano piú ai corsi di pittura, forse avrebbero trovato
imbarazzante continuare a seguire le mie lezioni. Me ne sentivo in
un certo senso responsabile.
La seconda, la piú
matura, sarebbe venuta a casa mia l’indomani. Avremmo passato il
pomeriggio a letto, a fare l’amore. Come avrei potuto considerarla
solo un’ombra di passaggio? Era una donna decisamente reale, in
carne e ossa. O magari un’ombra in carne e ossa che passava di lí?
Non avrei saputo decidere.
Menshiki mi chiamò.
Tornai alla realtà. Senza accorgermene, anch’io ero sprofondato nei
miei pensieri.
– Le stavo chiedendo del
ritratto, – disse.
Lo guardai: sulla sua
bella faccia era tornata l’espressione abituale. Calma, riflessiva,
rassicurante.
– Se ha bisogno che
posi, posso farlo anche adesso, – disse. – Sono pronto a
proseguire, quando vuole lei.
Lo osservai per qualche
secondo. Posare? Ah, sí, stava parlando del ritratto. Abbassai lo
sguardo cercando di mettere ordine nei miei pensieri, e intanto
bevvi un sorso di tè ormai freddo, posai la tazza sul piattino con
un piccolo colpo secco. Poi alzai la testa e gli
dissi:
– Mi scusi, ma oggi devo
andare alla scuola di pittura.
– Ah, giusto, giusto… –
fece lui. Gettò un’occhiata al suo orologio e aggiunse: – Me ne ero
completamente dimenticato. Che lei insegna in quella scuola davanti
alla stazione di Odawara, intendo. Deve già andare?
– No, ho ancora un po’
di tempo, – dissi. – Inoltre c’è qualcosa di cui le devo
parlare.
– Di cosa si
tratta?
– In realtà, il quadro
l’ho già finito. In un certo senso.
Il viso di Menshiki si
irrigidí un poco. Mi guardò dritto negli occhi. Come scrutando in
fondo alle mie pupille alla ricerca di qualcosa.
– Sta parlando del mio
ritratto? – chiese.
– Esatto.
– Fantastico! – Sulla
sua faccia apparve l’accenno di un sorriso. – È veramente una cosa
magnifica. Ha detto «in un certo senso», però. Cosa
significa?
– Non è facile da
spiegare. Senza contare che io non sono per nulla bravo a dare
spiegazioni.
– Si prenda tutto il
tempo che le serve e me ne parli come le viene meglio. Sono qui e
l’ascolto.
Incrociai le mani sulle
ginocchia, sforzandomi di scegliere bene le parole.
Nel frattempo era calato
il silenzio. Un silenzio tanto profondo che sembrava di sentir
scorrere il tempo. Scorre molto lentamente il tempo sui
monti.
– Lei mi ha fatto da
modello, e io l’ho raffigurata su una tela, come mi aveva chiesto.
Però, ad essere sincero, non penso che l’opera che ho appena
terminato si possa considerare un ritratto nel vero senso della
parola. Credo che la si possa soltanto definire «un quadro che ha
lei come soggetto». Non saprei stimare il suo valore commerciale.
L’unica cosa di cui sono certo è che dovevo dipingerlo cosí, non
potevo fare diversamente. È tutto quello che posso dirle. Le
confesso che sono disorientato. Finché non avrò chiarito anche a me
stesso alcune cose, non le darò il quadro. Lo terrò qui. È meglio.
O almeno credo. Di conseguenza le restituirò intero l’anticipo che
mi ha dato. Le chiedo scusa per averle fatto perdere del tempo
prezioso.
– Mi sta dicendo che in
realtà non è un ritratto, – rispose Menshiki scegliendo con cura le
parole. – Ma in che senso, non lo è?
– Finora mi sono
guadagnato da vivere facendo ritratti, è la mia professione. Fare
un ritratto, fondamentalmente significa raffigurare una persona nel
modo in cui desidera essere vista. È il soggetto a commissionare
l’opera, e se il risultato non lo soddisfa, può anche succedere che
rifiuti di pagare. Quindi bisogna evitare nella misura del
possibile di ritrarne gli aspetti negativi. Occorre insistere sui
pregi, cercare in tutti i modi di abbellirne l’immagine. Per questo
motivo è difficile che un ritratto su commissione, a meno che sia
opera di un novello Rembrandt, possa essere considerato vera arte.
Nel caso del suo ritratto, tuttavia… insomma, signor Menshiki, l’ho
dipinto senza pensare a lei, pensando solo a me stesso. In altre
parole, in quanto autore ho dato francamente la precedenza al mio
ego rispetto al suo, malgrado lei fosse il mio modello e
committente.
– Ma questo per me non è
affatto un problema, – disse Menshiki, sempre col sorriso sulle
labbra. – Anzi, ne sono felice. Fin dall’inizio le ho detto
chiaramente che poteva dipingere come voleva, che non avrei
sollevato obiezioni.
– Ha ragione. È quello
che mi ha detto. Lo ricordo bene. Quello che mi preoccupa infatti
non è il risultato del mio lavoro. Piuttosto: cos’ho dipinto, io,
in quel quadro? Vorrei tanto saperlo. Assecondando unicamente la
mia volontà, forse ho finito per raffigurare qualcosa che non
dovevo. È questo il mio timore.
Menshiki mi
osservò.
– Dunque lei teme di
aver tirato fuori, dipingendo, qualcosa che è presente dentro di
me, ma che andava lasciato dov’era. Dico bene?
– Sí, esatto, –
confermai. – Ho pensato solo a me stesso, e può darsi che cosí
facendo abbia smosso qualcosa che non dovevo dentro di lei, signor
Menshiki. – Stavo per aggiungere che avevo messo in evidenza una
sua tara, ma ci ripensai. Quella parola me la tenni per
me.
Menshiki rifletté a
lungo su quanto gli avevo detto.
– Interessante, –
osservò con aria divertita. – Questa sua opinione è molto
interessante.
Non
ribattei.
– Sa, io penso di essere
una persona con un saldo equilibrio interiore, – proseguí lui. – O
diciamo piuttosto che ho un forte controllo su me
stesso.
– Lo so, –
dissi.
Menshiki si premette
leggermente le tempie con le dita, sorrise.
– Dunque il quadro è
terminato? Il mio «ritratto», diciamo cosí.
Annuii.
– Sí, è terminato.
Insomma, questa è la mia sensazione.
– Magnifico! Tanto per
cominciare, perché non me lo fa vedere? Dopo potremo decidere
insieme cosa farne. Le dispiace?
– Come vuole, –
risposi.
Condussi Menshiki
nell’atelier. Si piazzò a un paio di metri dal cavalletto, a
braccia conserte, e osservò il quadro. Il ritratto cui aveva fatto
da modello. Anzi, la figura che un pugno di colori stava
proiettando sulla tela − non riuscivo a definire diversamente quel
quadro. La folta capigliatura bianca era diventata uno sprazzo
candido, un vorticare di neve. Al di sotto, a prima vista, non si
distingueva nessun volto. La traccia di ciò che ci si aspetta di
trovare in un volto si nascondeva al di là dei colori. Eppure,
innegabilmente, su quella tela Menshiki c’era. Ne ero
convinto.
Lui rimase immobile a
contemplare il quadro a lungo. Non muoveva un muscolo,
letteralmente. Veniva da chiedersi se respirava ancora. Al suo
fianco, poco distante, c’ero io che lo osservavo. Quanto tempo
passò cosí? Un’eternità, mi parve. Mentre studiava il quadro, dal
suo viso era scomparsa ogni espressione. I suoi occhi, come se
fossero velati dalla nebbia, avevano perso profondità. Mi
ricordavano il riflesso di un cielo nuvoloso nell’acqua ferma di
una pozzanghera. Uno sguardo che impediva ogni intrusione. Che
sentimenti si agitavano in fondo al suo cuore? Non riuscivo nemmeno
a immaginarlo.
Alla fine Menshiki, come
una persona risvegliata dall’ipnosi dal battito delle mani di un
mago, raddrizzò la schiena e fu percorso da un fremito quasi
impercettibile. Un’espressione cosciente tornò sul suo viso e la
luce di sempre illuminò di nuovo i suoi occhi. Mi si avvicinò,
posando la mano sulla mia spalla.
– È stupendo, –
dichiarò. – Prodigioso, davvero. Che dire? È esattamente il quadro
che volevo.
Lo guardai in viso.
Capii dalla luce nei suoi occhi che era sincero. Il mio quadro gli
piaceva, lo emozionava.
– Quest’opera mi
raffigura cosí come sono, – proseguí. – È il mio ritratto, in un
senso profondo e autentico. Lei ha ragione, ha fatto la cosa
giusta.
La sua mano era ancora
sulla mia spalla. Era semplicemente posata lí, eppure mi
trasmetteva una forza particolare.
– Ma come è riuscito a
scoprire quest’opera? – mi chiese Menshiki.
– Scoprire?
– Naturalmente a
dipingerla è stato lei. È qualcosa che ha creato con il suo
talento, lo so. Eppure, nello stesso tempo, è come se questo quadro
lei l’avesse «scoperto». Ha scovato un’immagine che teneva nascosta
dentro di lei e l’ha portata alla luce. In un certo senso, l’ha
«riesumata». Non è d’accordo?
Ora che me lo faceva
notare… be’, forse aveva ragione, pensai. Ovviamente il quadro
l’avevo dipinto io con le mie mani, fedele unicamente
all’ispirazione del momento. Ero stato io a scegliere i colori e
stenderli sulla tela servendomi di pennelli e spatole. Da un altro
punto di vista, però, cercando di cogliere l’essenza del soggetto −
di Menshiki − avevo scoperto qualcosa che era sepolto dentro di me
e l’avevo… sí, l’avevo riesumato. Cosí come io e lui avevamo
trovato quella strana cripta dietro il tempietto, dopo aver
sollevato strati di pietre e una pesante grata. E non potevo non
vedere un nesso tra quei due eventi, due eventi accaduti nello
stesso luogo a poca distanza di tempo l’uno dall’altro. Tutto era
iniziato quando avevo incontrato quell’uomo, Menshiki, e sentito in
piena notte il suono della campanella: tutto ciò che era seguito
nasceva da quelle due cose.
– Possiamo addirittura
paragonare quanto lei ha fatto a un terremoto in fondo al mare, –
continuò Menshiki. – Un terremoto che nessuno ha visto, avvenuto in
un luogo inaccessibile, dove non arriva la luce del sole. Ma che
pure ha generato un cataclisma nel suo inconscio. Una metamorfosi
che si è trasmessa in superficie e ha provocato una reazione a
catena. Assumendo, alla fine, la forma che abbiamo davanti agli
occhi adesso. Non sono un artista, lo sa, ma lo stesso sono in
grado di capire l’origine di un processo creativo, quando me lo
trovo davanti. Anche negli affari, le grandi idee nascono cosí.
Nella maggior parte dei casi non si generano dal nulla, ma
emergono… emergono da un’oscurità piú profonda.
Menshiki tornò a
guardare il quadro, questa volta da vicino, in piedi davanti alla
tela. Lo esaminò attentamente, come se stesse studiando una
complicata carta topografica. Poi si allontanò di qualche passo e
di nuovo lo osservò nell’insieme, socchiudendo un po’ gli occhi.
Sul suo viso apparve un’espressione estatica. Mi ricordava un
rapace esperto sul punto di catturare la sua preda. Già, ma in cosa
consisteva la preda? Il quadro che avevo dipinto? Io stesso?
Qualcos’altro ancora? Non avrei saputo dirlo. Comunque quell’aria
stranamente estatica poco per volta − come la nebbia che il mattino
fluttua sulla superficie di un fiume − scomparve dal suo viso, che
riprese la solita espressione allo stesso tempo affabile e
controllata.
– Non ho l’abitudine di
vantarmi, – disse, – tuttavia constatare di aver visto giusto, nel
valutare una persona, mi dà una certa soddisfazione. Personalmente
non ho alcun talento artistico, la creatività non fa parte del mio
mondo, ma sono in grado di riconoscere un’opera d’arte. Sono molto
orgoglioso di questa capacità.
Lo sguardo rapace, che
gli avevo colto negli occhi mentre osservava il quadro, mi aveva
turbato. Quello che diceva non mi suonava sincero, per cui non mi
lusingò piú di tanto.
– Dunque le piace?
Veramente? – gli chiesi per avere una conferma.
– Non c’è bisogno di
dirlo. Questo è un dipinto di valore. Raffigurando me, o
ispirandosi a me, lei ha creato una splendida, potente opera
d’arte, regalandomi cosí una gioia che va oltre le mie aspettative.
E visto che il quadro l’ho commissionato io, col suo permesso me lo
porto via. Nulla in contrario, vero?
– Se le cose stanno
cosí, no, non ho nulla in contrario. Semplicemente, da parte
mia…
Fulmineo, Menshiki alzò
una mano a bloccare le mie parole.
– Inoltre, per
ringraziarla di aver creato quest’opera splendida, se non le
dispiace vorrei invitarla a casa mia nei prossimi giorni. Cosa ne
dice? A bere qualcosa insieme, insomma. Se per lei non è una
seccatura, s’intende.
– No, si immagini!
Nessuna seccatura. Ma non è necessario che si prenda tanto
disturbo, lei ha già…
– No, no, ci tengo.
Voglio che festeggiamo insieme. Venga a cena da me una di queste
sere. Non le prometto nulla di speciale, sarà una cosa modesta.
Solo noi due, nessun altro. A parte il cuoco e il barman,
s’intende.
– Il cuoco e il
barman?
– Vicino al porto di
Hayakawa, c’è un ristorante francese che conosco bene, ci vado da
molto tempo. Farò venire il cuoco e il barman nel giorno di riposo
del locale. Il cuoco è molto bravo. Serve solo pesce freschissimo e
penserà a cucinarlo al meglio. A dire la verità, volevo già
invitarla a casa mia, a prescindere dal quadro. Avevo anche già
fatto qualche preparativo e… Be’, questa è l’occasione
perfetta!
Dovetti fare uno sforzo
per non lasciar trasparire il mio stupore. Non riuscivo nemmeno a
immaginare quanti soldi ci volessero per organizzare una cena del
genere, ma forse per Menshiki era una spesa che rientrava
nell’ordine abituale delle cose. O per lo meno non superava i
limiti del ragionevole.
– Se facessimo fra
quattro giorni? – propose. – Martedí sera. Che ne
dice?
– Sí, martedí sera non
ho impegni, – dissi.
– Perfetto, allora è
deciso. Ora però, se non ha nulla in contrario, prendo il quadro e
me lo porto a casa. Se riesco, prima di mostrarglielo di nuovo,
vorrei farlo incorniciare e appenderlo a una parete.
– Sí, signor Menshiki,
ma… ma lei veramente in questo dipinto riesce a vedere la sua
faccia? – chiesi di nuovo.
– Certamente, – rispose
Menshiki guardandomi con aria stupita. – Ovvio che ci vedo la mia
faccia. E in modo molto chiaro. Cos’altro ci dovrei vedere,
scusi?
– Benissimo, – dissi. –
È un quadro che ho dipinto su sua richiesta. Se le piace, è già
suo. Può farne quello che vuole. Faccia attenzione quando lo
trasporta, però. I colori non sono ancora secchi. Anche per farlo
incorniciare, è meglio che attenda ancora un po’. Ci vorranno
alcune settimane, perché asciughi completamente.
– D’accordo. Farò molta
attenzione. Per la cornice aspetterò qualche giorno.
Prima di andarsene
Menshiki mi tese la mano, e io gliela strinsi. Un gesto che non
facevamo da molto tempo. Sulla sua faccia c’era un sorriso
soddisfatto.
– Allora ci vediamo
martedí sera. Manderò una macchina a prenderla verso le
sei.
– A proposito, la mummia
non la invita a cena? – chiesi. Non so nemmeno io perché glielo
chiesi. Di colpo mi era venuta in mente la storia della mummia, e
non avevo potuto fare a meno di tirarla in ballo.
Menshiki mi guardò come
se cercasse sul mio viso qualcosa.
– La mummia? Quale
mummia?
– Quella che avremmo
dovuto trovare nella cripta. Quella che ogni notte presumibilmente
suonava la campanella, per poi lasciarla lí e scomparire. O forse
dovrei dire il sokushinbutsu. Magari anche
lui vorrebbe essere invitato. Come la statua del Commendatore
nel Don Giovanni.
Menshiki rifletté
qualche secondo, poi un sorriso allegro apparve sulla sua faccia:
finalmente aveva capito.
– Ah, ecco! Vorrebbe che
invitassi a cena la mummia, come Don Giovanni invita la statua del
Commendatore.
– Esatto. E tra le due
cose c’è forse un nesso.
– Benissimo. Non ho
obiezioni. È una cena per festeggiare un evento. Se la mummia vuole
essere dei nostri, la invito con piacere. Sarà una serata molto
interessante. Cosa potrei servirle per dessert, però? – disse
Menshiki ridendo divertito. – L’unico problema è che non la si vede
da nessuna parte. E se non la vedo, come faccio a
invitarla?
– Giusto, – dissi. – Ma
non possiamo affermare che soltanto le cose visibili siano reali.
Non crede?
Menshiki sollevò con
cautela il quadro con entrambe le mani e lo portò fino alla
macchina. Poi prese dal portabagagli una vecchia coperta e la stese
sul sedile accanto al posto di guida. Vi posò sopra la tela facendo
attenzione che i colori non toccassero la stoffa. Dopodiché,
servendosi di una corda sottile e due scatole di cartone, la legò
bene, con prudenza, in modo che non si muovesse. Gesti essenziali.
Nel portabagagli sembrava tenere pronto ogni tipo di
attrezzo.
– Ma è vero, sa? Forse
ha proprio ragione lei, – disse a bassa voce, di punto in bianco,
prima di andarsene. Guardandomi dritto in faccia, le mani sul
volante di pelle.
– Ho ragione
io?
– Sí, riguardo alla
vita. Spesso non capiamo bene dove passa il confine tra ciò che è
reale e ciò che non lo è. Pensiamo che la linea demarcazione tra
ciò che esiste e ciò che non esiste sia mobile, come una frontiera
che si sposta di sua volontà. A questi spostamenti dobbiamo
prestare la massima attenzione. Altrimenti non capiamo piú da quale
parte ci troviamo. Quando le ho detto che era pericoloso restare
piú a lungo nella cripta, prima, intendevo proprio
questo.
Non riuscii a trovare
una parola che fosse una per rispondergli. Né lui aggiunse altro.
Mi salutò con la mano dal finestrino aperto, mise in moto − subito
si udí il gradevole rombo sommesso − e scomparve dal mio campo
visivo insieme al quadro non ancora asciutto.
1. Primo ministro dal
giugno del 1937 al gennaio del 1939. Firmò il Patto tripartito con
Hitler e Mussolini.