Capitolo tredicesimo
Per il momento è solo una supposizione
Seduti sulle poltrone
del soggiorno, per ammazzare il tempo in attesa che arrivasse il
momento fatidico, chiacchieravamo bevendo caffè. All’inizio erano
discorsi banali, poi un lungo silenzio cadde fra noi, finché
Menshiki, con voce un po’ imbarazzata eppure stranamente decisa, mi
chiese:
– Lei ha
figli?
Ne fui sorpreso. Non
sembrava il tipo d’uomo da rivolgere una domanda del genere, tanto
meno a qualcuno con cui non aveva molta confidenza. Anzi, da lui ci
si sarebbe aspettato piuttosto un atteggiamento riservato, del tipo
«io non ficco il naso negli affari tuoi, quindi tu non ficcare il
naso nei miei». Per lo meno, era cosí che lo giudicavo. Ma quando
alzai la testa e vidi la sua espressione attenta, mi resi conto che
quella domanda non gli era venuta in mente in quel momento, per
curiosità. Era qualcosa che desiderava chiedermi da molto
tempo.
– No. Sono stato sposato
sei anni, ma non ho figli, – risposi.
– Non ne
volevate?
– Per me era
indifferente, ma mia moglie non desiderava averne, – dissi, senza
però spiegargli per quale ragione. Perché non ero affatto sicuro
che fosse una ragione valida.
Menshiki sembrò esitare
un poco…
– Scusi l’invadenza, so
che non dovrei tirare in ballo un argomento del genere, – si decise
poi a dire, – ma per caso ha mai pensato alla possibilità che
un’altra donna abbia avuto a sua insaputa un figlio da
lei?
Di nuovo osservai bene
la faccia di Menshiki. Che strana domanda! Giusto per scrupolo
provai a frugare nella mia memoria, ma non mi venne in mente alcuna
circostanza in cui avrebbe potuto verificarsi una cosa del genere.
E se mai fosse accaduto, per qualche via ne sarei venuto a
conoscenza, dal momento che non avevo avuto rapporti sessuali con
molte donne.
– A rigor di logica la
possibilità ci sarebbe, – risposi, – ma in pratica, e in base al
semplice buon senso, no, non credo proprio.
– Ah, ecco, – disse
Menshiki. Poi, mentre beveva un sorso di caffè, parve riflettere su
qualcosa.
– Scusi, ma perché mi fa
questa domanda? – mi decisi a chiedergli a quel punto.
Lui non rispose subito,
lo sguardo rivolto verso la finestra. Si era levata la luna. La
notte non era luminosa come due sere prima, ma faceva abbastanza
chiaro. Qualche nuvola attraversava lentamente il cielo spostandosi
dal mare verso le montagne.
– Come le ho già detto,
– attaccò alla fine Menshiki, – non mi sono mai sposato. Ho sempre
vissuto solo. Lavoravo dal mattino alla sera, è vero, ma non è la
sola ragione. C’è anche il fatto che non sono adatto alla
convivenza, né per carattere, né per stile di vita. Non vorrei
sembrarle arrogante, ma bene o male che sia, sono una di quelle
persone che sopportano soltanto la vita da single. Non ho alcun
interesse per i legami di sangue. Non ho mai desiderato avere un
figlio mio. Per ragioni personali. Ragioni che risalgono all’epoca
della mia infanzia, al mio ambiente famigliare.
A quel punto tacque e
fece un sospiro. Poi riprese:
– Alcuni anni fa, però,
ho cominciato a pensare una cosa: che forse ho una figlia. Cioè,
sarebbe piú esatto dire che mi sono trovato in una situazione in
cui dovevo per forza considerare questa possibilità.
Io ascoltavo senza
fiatare.
– Sa, sono il primo a
stupirmi di parlare con lei, che ho praticamente appena conosciuto,
di un argomento tanto personale, – proseguí Menshiki accennando un
sorriso.
– Se è quello che
desidera, signor Menshiki, da parte mia non ho nulla in
contrario.
Non so perché, ma pare
che io sia destinato, mi succede fin da quando ero piccolo, a
ricevere le confidenze di gente che conosco appena. Può darsi che
possieda la capacità innata di indurre le persone a rivelarmi i
loro segreti. Oppure la spiegazione è piú semplice: do
l’impressione di essere uno che sa ascoltare. Comunque sia, la cosa
non mi ha mai portato alcun vantaggio. Perché tutti, dopo avermi
confidato qualcosa, se ne pentono sistematicamente.
– È la prima volta che
parlo a qualcuno di questo mio problema, – disse
Menshiki.
Annuii per fargli capire
che attendevo il seguito. Piú o meno il copione è sempre lo
stesso.
– È una storia che
risale a una quindicina di anni fa, – proseguí lui. – Fra i
trentacinque e i quarant’anni, ho avuto una relazione con una
donna. Lei era piú giovane di me di dieci anni ed era bellissima,
aveva un fascino incredibile. Inoltre era una persona di grande
intelligenza. Da parte mia tenevo molto a lei, ma fin dall’inizio
le avevo detto che non l’avrei sposata, era escluso in partenza.
Perché il matrimonio non era nei miei progetti, né con lei né con
nessun’altra, e non volevo illuderla. Di conseguenza, se a un certo
punto avesse incontrato un altro e avesse deciso di sposarlo, mi
sarei fatto da parte senza protestare. Lei ha capito benissimo. E
per tutto il tempo che è durata la nostra relazione − circa due
anni e mezzo − siamo andati d’amore e d’accordo. Non abbiamo mai
litigato. Insieme abbiamo fatto diversi viaggi, e spesso lei si
fermava a dormire da me. Tanto che a casa mia teneva molti
vestiti.
Menshiki fece una lunga
pausa, poi riprese:
– Se fossi stato un uomo
mediamente ragionevole, o anche solo un poco piú assennato, l’avrei
sposata senza esitare. E non posso dire che la tentazione non mi
sia venuta. Tuttavia… – a quel punto Menshiki fece un sospiro –
tuttavia ho scelto la tranquilla vita solitaria che conduco ancora
adesso, e lei ha optato per un progetto esistenziale piú solido.
Insomma, ha poi sposato un uomo con un po’ piú di sale in zucca di
me.
Fino alla fine, la donna
non aveva parlato a Menshiki della sua intenzione di sposarsi con
un altro. Lo incontrò per l’ultima volta una settimana dopo aver
compiuto ventinove anni (la sera del compleanno avevano cenato
insieme in un ristorante di Ginza, e Menshiki si era reso conto
soltanto in seguito che lei, contrariamente alla sua abitudine, era
stata quasi sempre zitta). Lo chiamò nel suo ufficio di Asakasa e
gli chiese di vederlo: doveva parlargli, l’avrebbe raggiunto subito
lí. Lui le disse che non c’erano problemi. Né la cosa gli parve
strana, anche se non era mai successo che lei andasse a trovarlo
sul lavoro. In ufficio erano solo in due, lui e la segretaria, una
donna di mezza età, e non c’era pericolo di dar fastidio a nessuno.
In altri tempi era stato a capo di un’azienda relativamente grande
che impiegava molte persone, ma quello era il periodo in cui
programmava la sua nuova attività in rete. Lavorare in silenzio, da
solo, in fase di progettazione, per poi coinvolgere altre persone
soltanto in fase di sviluppo: era questo il suo metodo. Un metodo
che richiedeva una certa grinta.
Lei arrivò alle cinque
meno qualche minuto. Si sedettero a chiacchierare sul divano
dell’ufficio. Nella stanza accanto la segretaria non c’era, poco
prima lui le aveva detto che poteva tornare a casa. Rimasto solo,
Menshiki aveva continuato a lavorare, com’era sua abitudine.
Assorto in quello che stava facendo, spesso gli succedeva di andare
avanti fino all’alba. Quel giorno invece propose alla sua amante di
cenare insieme in un ristorante vicino. La donna però rifiutò. Non
aveva molto tempo, doveva incontrare una persona a
Ginza.
– Sí, ma al telefono mi
hai detto che dovevi parlarmi di qualcosa.
– No, non ho nulla di
particolare da dirti, – rispose lei. – Volevo solo vederti un
momento.
– Bene, sono contento
che ci siamo visti, – fece Menshiki sorridendo. Era molto raro che
lei si esprimesse con tanta franchezza. Di solito preferiva dire le
cose in modo indiretto, girandoci attorno. Chissà a cos’era dovuto
quel comportamento inusuale…
A quel punto, senza dire
una parola, lei si spostò e si sedette sulle ginocchia di Menshiki.
Lo abbracciò e lo baciò sulla bocca. Un bacio vero, profondo, la
lingua che avviluppava e rivoltava la sua. Dopo quel lungo bacio,
tese una mano a slacciargli la cintura dei pantaloni e cercò il suo
pene, già duro. Lo tirò fuori e lo strinse forte, poi si accovacciò
e lo prese in bocca. Lo leccò a lungo con la punta della lingua.
Una lingua morbida e calda.
Quei gesti lo
sorpresero. Perché lei, nell’atto sessuale, era sempre stata
piuttosto passiva, e soprattutto riguardo al sesso orale − sia che
fosse lei a farlo a lui, sia a parti invertite − aveva sempre
mostrato una certa riluttanza. Allora per quale motivo quel giorno
aveva preso l’iniziativa? Cos’era successo?
Poi lei si alzò, scalciò
via le belle scarpe nere scollate e infilò una mano sotto il
vestito per togliersi con un rapido gesto i collant e gli slip.
Dopodiché si mise a cavalcioni sulle sue gambe, gli prese il membro
e lo guidò nella sua parte piú intima, umida e palpitante di vita.
Tutto si svolse in modo cosí rapido (anche questo era strano per
lei, che preferiva i gesti languidi e lenti), che prima di
rendersene conto Menshiki era già dentro il corpo della donna, il
pene serrato in una morsa dolce, eppure ben salda.
Quel rapporto sessuale
era qualcosa di molto diverso da quelli avuti con lei fino a quel
momento. Menshiki vi percepiva calore e distacco, tenerezza e
ruvidità, accettazione e rifiuto. Queste erano le sensazioni
stranamente contraddittorie che provava. Però non capiva che
significato avessero. A cavalcioni su di lui, la sua amante che
andava impetuosamente su e giú gli dava l’impressione di trovarsi
su una piccola barca mossa dalle ondate di una tempesta. I capelli
neri che le arrivavano alle spalle ondeggiavano come i rami di un
salice piangente mossi da folate di vento. Perduta ogni inibizione,
ansimava e gemeva sempre piú forte. Menshiki non era sicuro di aver
chiuso a chiave la porta dell’ufficio. Gli pareva di sí, ma forse
se n’era dimenticato. Comunque non era certo il momento di
verificare.
– Non dobbiamo prendere
delle precauzioni? – le chiese, sapendola piuttosto ansiosa
riguardo alle misure contraccettive.
– No, oggi non c’è
problema, – mormorò lei, la bocca vicino al suo orecchio. – Tu non
devi preoccuparti di nulla.
Decisamente, tutto il
suo comportamento era diverso dal solito. Come se una seconda
personalità assopita dentro di lei, svegliatasi all’improvviso, si
fosse impossessata del suo spirito e del suo corpo. Menshiki
immaginò che per qualche ragione quello fosse per lei un giorno
speciale. Ci sono tante cose, in una donna, che un uomo non può
capire, si disse.
I movimenti della sua
amante col passare dei minuti diventavano piú ampi e frenetici. Lui
non poteva fare altro che sforzarsi di non privarla di quello che
cercava. Finché giunse al culmine del piacere: non riuscí piú a
trattenersi dall’eiaculare, mentre lei, levando gridolini da
colibrí, riceveva e risucchiava avidamente lo sperma dentro di sé,
come se il suo utero non aspettasse altro che quel momento. A lui
sembrò di venire divorato nell’oscurità da un animale sconosciuto:
questa fu l’immagine torbida che si formò nella sua
mente.
Poco dopo, lei si alzò,
quasi respingendo fisicamente Menshiki, senza dire una parola si
rivestí, raccolse i collant e gli slip che erano rimasti a terra e
tenendoli in mano si affrettò verso il bagno. Vi rimase a lungo.
Quando Menshiki cominciava a preoccuparsi che non si sentisse bene,
finalmente uscí. Abito e capelli perfettamente in ordine, trucco
rifatto. Il consueto, dolce sorriso sulla bocca.
Posò un bacio leggero
sulle labbra di lui, gli disse che ormai doveva andare, si era
fatto tardi. E uscí dalla stanza a passo veloce. Senza voltarsi
indietro. Il rumore dei suoi tacchi sul pavimento, a Menshiki
sembrava di sentirlo ancora adesso.
Era stata l’ultima volta
che l’aveva vista. Da quel giorno lei aveva interrotto ogni
comunicazione. Non aveva mai risposto né alle sue telefonate né
alle sue lettere. Due mesi dopo si era sposata. Menshiki l’aveva
saputo, a nozze avvenute, da un conoscente comune. Il quale,
convinto com’era che Menshiki e lei fossero buoni amici (erano
stati molto attenti a tenere segreta la loro relazione), rimase
molto sorpreso sentendo che lui non era stato invitato alla
cerimonia, e soprattutto che non era nemmeno al corrente del
matrimonio. Il marito era un uomo che Menshiki non conosceva. Anche
il nome, non l’aveva mai sentito. Quella notizia lo coglieva del
tutto alla sprovvista, visto che lei non gli aveva mai detto di
avere l’intenzione di sposarsi.
Comprese che quel
furioso amplesso sul divano dell’ufficio era stato, per scelta di
lei, il loro ultimo gesto d’amore. In seguito ci aveva pensato e
ripensato. Il ricordo di quei momenti, anche dopo tanti anni, si
era conservato nella sua memoria stranamente preciso e vivido.
Riusciva a rievocare fedelmente tutto: il cigolio del divano,
l’ondeggiare dei capelli, il fiato ardente di lei contro il suo
orecchio.
Rimpiangeva di averla
persa? Certamente no. Menshiki non era uomo da avere rimpianti.
Sapeva bene di non essere adatto alla vita di famiglia. Per quanto
amasse una donna, non sarebbe mai riuscito a condividere la
quotidianità con lei. Giorno dopo giorno, aveva bisogno di
concentrarsi in piena libertà, e non avrebbe mai sopportato che la
presenza di qualcuno interferisse con questa sua esigenza. Se fosse
vissuto con un’altra persona − genitore, moglie o figlio che fosse
−, prima o poi avrebbe forse finito per odiarla. Ed era la cosa che
piú temeva. O piuttosto, temeva il fatto stesso di odiare
qualcuno.
Eppure continuava ad
amare profondamente quella donna. Non aveva mai amato nessun’altra
tanto come aveva amato lei, non era successo prima e probabilmente
non sarebbe successo mai piú.
– Ancora adesso, lei ha
un posto speciale nel mio cuore. Un posto concreto. Credo che lo si
possa chiamare un santuario, – disse Menshiki.
Un santuario? Mi parve
strano che scegliesse proprio quella parola. Ma forse per lui era
il termine piú giusto per descrivere quell’emozione,
null’altro.
A quel punto tacque. Mi
aveva fatto un racconto estremamente dettagliato e preciso di
quella storia, ma senza enfatizzare troppo l’elemento erotico: era,
anzi, un po’ come se mi stesse leggendo una pubblicazione medica. E
chissà che in effetti non fosse proprio cosí.
– Sette mesi dopo la
cerimonia di nozze, lei ha dato senza problemi alla luce una
bambina in una clinica di Tōkyō, – proseguí Menshiki. – Ormai sono
passati tredici anni. Di quella nascita, a dire la verità, sono
venuto a conoscenza solo molto tempo dopo, quando qualcuno me l’ha
detto.
Fissò l’interno della
sua tazza vuota. Come se lí dentro ci fosse stato un tempo qualcosa
di caldo che adesso gli mancava.
– Quella bambina, può
darsi che sia mia figlia, – disse poi a denti stretti. E mi guardò
negli occhi, come per chiedermi cosa ne pensassi.
Impiegai qualche secondo
a capire cosa gli premesse sapere.
– Coi tempi ci starebbe,
vero? – domandai.
– Sí. I tempi collimano.
La bambina è nata nove mesi dopo quella volta nel mio ufficio.
Probabilmente lei è venuta da me in un giorno in cui presumeva di
restare incinta e ha… come dire? Ha intenzionalmente inglobato il
mio sperma. È quello che suppongo, per lo meno. Sapeva che non
l’avrei mai sposata, ma voleva un figlio da me. Non potrebbe essere
andata cosí?
– Sí, ma non ne ha la
conferma.
– È ovvio che la
conferma non ce l’ho. Per il momento è solo una supposizione,
appunto. Però un fondamento ce l’ha.
– La madre avrebbe corso
un bel rischio, tuttavia. A un certo punto poteva venir fuori che
il gruppo sanguigno della bambina non è compatibile con quello del
padre… Crede che avrebbe avuto il coraggio necessario?
– Il mio gruppo
sanguigno è A. Come quello della maggior parte dei giapponesi.
Anche quello di lei. A meno che per qualche ragione non si rendesse
necessaria un’analisi del dna, il segreto sarebbe rimasto tale. Era
un rischio calcolato, un calcolo che lei era in grado di fare
benissimo.
– D’accordo, ma di
nuovo, anche per capire se lei, signor Menshiki, è il padre
biologico della bambina, occorrerebbe confrontare il dna. Giusto?
Quindi dovrebbe chiederlo direttamente alla madre.
Menshiki scosse la
testa.
– Alla madre non lo
posso piú chiedere. È morta sette anni fa.
– Oh, mi dispiace. Era
ancora giovane…
– Durante una
passeggiata in montagna è stata punta da quattro vespe. Era
allergica, e ha avuto uno shock anafilattico. Quando è arrivata
all’ospedale non respirava piú. Nessuno era al corrente di
quell’allergia, forse nemmeno lei. Sono rimasti il marito e
quell’unica figlia. La figlia adesso ha tredici anni.
Piú o meno la stessa età
che aveva mia sorella quando è morta, pensai.
– E secondo lei, la
supposizione che la ragazza sia figlia sua ha un fondamento. Dico
bene?
– Poco dopo la sua
morte, ho ricevuto una lettera della madre, – rispose Menshiki a
bassa voce.
Un giorno era stata
recapitata al suo ufficio, da parte di uno studio legale che non
conosceva, una raccomandata con ricevuta di ritorno. Nella grande
busta c’erano un foglio scritto a macchina, intestato all’ufficio
legale e firmato da un avvocato, e un’altra busta rosa pallido. «Le
invio qui acclusa una lettera affidatami dalla Sig.ra *** (seguiva
il nome da nubile della sua ex amante). La Sig.ra *** ci ha dato
incarico, in un documento scritto, di spedirla a Lei in caso di
decesso della Signora stessa. Nel documento si raccomanda di non
permettere che la lettera qui acclusa finisca nelle mani di altra
persona che Lei».
Questo era il tenore del
testo. Seguiva un breve resoconto in tono burocratico delle
circostanze della morte della cliente. Sulle prime Menshiki era
rimasto senza fiato, poi si era ripreso e con un tagliacarte aveva
aperto la busta rosa. La lettera, di quattro fogli, era scritta con
l’inchiostro blu, in ideogrammi bellissimi.
Caro
Menshiki,
non so che mese di che
anno sia adesso, ma quando leggerai questa lettera, ormai non
apparterrò piú a questo mondo. Non so perché, ma ho sempre avuto la
sensazione che me ne sarei andata a un’età relativamente giovane. È
il motivo per cui sto dando preventivamente tutte le disposizioni
da prendere dopo la mia morte. Se poi tutto questo dovesse
rivelarsi una fatica inutile, non chiederei di meglio… ma no, se
stai leggendo questa lettera, vuol dire che io sono morta. A questo
pensiero mi sento prendere da una gran tristezza.
Innanzi tutto, vorrei
spiegarti una cosa (anche se forse non è necessario): so che la mia
vita non è mai stata molto importante, fin dall’inizio. Ne sono
consapevole. Di conseguenza lasciare questo mondo zitta zitta,
senza fare grandi dichiarazioni, è forse la fine piú adatta a una
persona come me. C’è però una cosa che devo assolutamente dirti.
Altrimenti mi sembra che perderei per sempre l’occasione di essere
leale verso di te. Per tale ragione ho affidato questa lettera a un
avvocato di mia fiducia, al quale ho dato incarico di fartela
recapitare.
Riguardo al fatto di
essermi staccata da te in modo tanto brusco per sposare un altro
uomo, e di non avertene parlato e nemmeno accennato prima, ti
chiedo sinceramente scusa. È probabile che per te sia stato uno
shock. O forse ti è soltanto dispiaciuto. Ma può anche darsi che
tu, da quella persona poco sentimentale che sei, non abbia provato
né stupore né alcun tipo di emozione. Comunque sia, per me non
c’era altra strada da seguire. Vorrei che comprendessi almeno
questo, anche se adesso non posso darti una spiegazione
dettagliata. A quell’epoca, non avevo quasi nessuna possibilità di
scelta.
Me ne restava una,
tuttavia. Che si riassumeva in un singolo atto, in un singolo
passo. Ricordi l’ultima volta che ci siamo visti? Il pomeriggio in
cui all’improvviso sono venuta a trovarti nel tuo ufficio,
quell’autunno? Forse non lo mostravo, ma quella volta ero veramente
in un vicolo cieco. Mi sentivo persa. Ma pur disorientata com’ero,
quella volta ho agito seguendo un piano, dall’inizio alla fine. E
ancora oggi non lo rimpiango, nemmeno un po’. Ciò che ho fatto quel
giorno, nella mia vita ha avuto un grande significato.
Probabilmente un significato che va molto oltre la mia
persona.
Spero che tu abbia
compreso il mio piano e alla fine l’abbia accettato. E che non ti
sia d’intralcio in alcun modo. Perché so che ti mette in una
condizione che tu detesti sopra ogni cosa.
Ti auguro di avere una
vita lunga e felice. E che la tua splendida persona si prolunghi in
qualche modo, in un’esistenza piú lunga e piú bella.
Per ricordarla a
memoria, chissà quante volte Menshiki doveva aver letto e riletto
quella lettera (me la recitò senza confondersi o esitare
dall’inizio alla fine). Emozioni e allusioni vi creavano luci e
ombre, prendevano significati negativi e positivi, era come un
quadro che ne nasconde un altro. Per anni, lui si era scervellato
sulle possibilità contenute in quelle frasi, come un linguista che
studi un antico idioma reso indecifrabile dal tempo. Aveva
scomposto ogni passaggio, analizzato ogni parola, cercato allusioni
e sottintesi. La conclusione a cui era arrivato era questa: la
bambina nata sette mesi dopo le nozze era stata sicuramente
concepita quella volta, sulla sua poltrona.
– Ho chiesto a uno
studio legale con cui sono in confidenza di fare qualche ricerca, –
disse Menshiki. – Lei aveva sposato un uomo piú vecchio di quindici
anni, un agente immobiliare. Cioè, non proprio. È uno che viene da
una famiglia di proprietari terrieri di provincia, il suo lavoro
consiste principalmente nell’amministrare i beni immobiliari che ha
ereditato. Terreni, case… Naturalmente non si occupa solo di
quelli, ma non si può dire che abbia un giro d’affari molto vasto e
attivo. Tanto ha un patrimonio che gli permetterebbe di condurre
una vita agiata anche senza lavorare. Da quando ha perso la moglie,
sette anni fa, non si è risposato. Ha una sorella piú giovane,
nubile, che vive con lui e la figlia, e si occupa di gestire la
casa. La bambina si chiama Marie. Va alla scuola pubblica locale,
frequenta la seconda media.
– L’ha mai
incontrata?
Menshiki non rispose
subito.
– L’ho guardata da
lontano diverse volte. Ma non le ho mai parlato.
– E che impressione ha
avuto?
– Vuole sapere se mi
assomiglia? Non è una cosa che possa giudicare io. Se mi dico che
mi assomiglia, la trovo uguale a me in ogni tratto, ma mi basta
pensare che non mi somiglia per convincermi del
contrario.
– Ha per caso una
foto?
Menshiki scosse
quietamente la testa.
– No, non ce l’ho. Una
foto me la potrei procurare facilmente, ma non lo desidero. A cosa
mi servirebbe andare in giro con una foto di Marie nel portafoglio?
Quello che vorrei…
A quel punto si
interruppe. Solo il frinire degli insetti riempí il silenzio che
seguí.
– Però mi scusi, signor
Menshiki, ma lei stesso poco fa ha detto che non ha alcun interesse
per i legami di sangue.
– Ed è cosí. Non vi ho
mai dato importanza. Anzi, semmai ho sempre cercato di tenermi alla
larga dai parenti. E non ho cambiato idea. Ciononostante, non
riesco a staccare gli occhi da questa ragazzina, da Marie. Non
riesco a smettere di pensare a lei. Un comportamento assurdo, il
mio…
Non sapevo proprio cosa
rispondergli.
– È la prima volta che
mi succede qualcosa del genere, – proseguí lui. – Di solito riesco
sempre a controllare le mie emozioni, e ne vado anche piuttosto
fiero. Eppure adesso… ecco, a volte mi pesa stare
solo.
A quel punto mi decisi a
dirgli quello che pensavo.
– Senta, signor
Menshiki, è solo un’intuizione, ma lei per caso vorrebbe che io
facessi qualcosa, riguardo a Marie? È l’impressione che ho. O forse
ho troppa immaginazione?
Menshiki lasciò passare
qualche secondo, poi annuí.
– In realtà, non so
nemmeno io come spiegarmi…
In quel momento mi resi
conto, di colpo, che il coro assordante degli insetti non si
sentiva piú. Alzai gli occhi a guardare l’orologio sulla parete:
l’una e quaranta appena passata. Mi misi un dito sulle labbra.
Menshiki tacque immediatamente. Tutti e due tendemmo l’udito nella
quiete notturna.