Capitolo decimo
Facendoci strada fra l’erba verde e
lussureggiante
Quando avevo quindici
anni, mia sorella morí. Morí all’improvviso. Frequentava la prima
media. Aveva problemi congeniti al cuore, ma dato che per tutta la
durata delle elementari non si era mai ammalata veramente, noi
famigliari ci eravamo un po’ tranquillizzati. Cominciavamo a
nutrire la speranza che sarebbe vissuta senza altre complicazioni.
Quell’anno però, verso il mese di maggio, il cuore dette segni di
scompenso, divenne tachicardica. Le succedeva soprattutto quando
stava distesa, quindi la notte spesso non riusciva a dormire. Alla
clinica universitaria le fecero diversi esami, controlli
scrupolosissimi, ma non riuscirono a trovare nulla di variato nella
sua condizione clinica generale. Il problema di base in teoria era
già stato risolto dall’intervento chirurgico subito in precedenza,
dicevano i medici scuotendo la testa perplessi.
– Cerca di evitare il
movimento eccessivo e di condurre una vita regolare, – le
raccomandarono. – La cosa a poco a poco dovrebbe andare a posto –.
Probabile che non sapessero cos’altro dirle. E le prescrissero dei
farmaci.
Tuttavia il battito
continuava ad avere scompensi. Seduto di fronte a lei dall’altra
parte del tavolo, la guardavo immaginando il cuore che aveva lí,
nel petto, quel cuore che non svolgeva il suo compito alla
perfezione. Era l’epoca in cui cominciava a spuntarle il seno.
Aveva dodici anni e, malgrado la sua patologia, il suo corpo
continuava a svilupparsi regolarmente. Vedevo i due rigonfiamenti
che di giorno in giorno crescevano sul petto di mia sorella con un
senso di incredulità. Fino a poco tempo prima era ancora una
bambinetta, ed ecco che all’improvviso le erano venute le prime
mestruazioni e i suoi seni andavano prendendo forma. Eppure dentro
il suo piccolo torace aveva un cuore difettoso. Una malformazione
che nemmeno gli specialisti erano riusciti a individuare con
precisione. Questo pensiero mi riempiva d’ansia. Ho l’impressione
di aver passato l’adolescenza con il timore costante di perdere la
mia sorellina in qualsiasi momento.
Mi sentivo ripetere ogni
giorno che era fisicamente debole e aveva bisogno di molte
attenzioni. Finché frequentammo la stessa scuola, quindi, durante
gli anni delle elementari, dentro di me ero fermamente deciso a non
perderla di vista e, in caso di bisogno, a proteggere lei e il suo
piccolo cuore anche a rischio della vita. L’occasione di farlo però
non si presentò mai.
Fu al ritorno da scuola,
mentre saliva le scale della stazione di Seibu della linea
Shinjuku, che mia sorella svenne e fu portata in ambulanza al
pronto soccorso piú vicino. Quando arrivai a casa, al termine delle
lezioni, mi precipitai anch’io all’ospedale, ma il suo cuore aveva
già cessato di battere. Tutto era successo in un attimo. Quel
mattino avevamo fatto colazione insieme, poi fuori dalla porta di
casa ci eravamo salutati, io avevo preso la direzione del mio
liceo, lei della scuola media. Rividi il suo viso solo quando non
respirava piú. I suoi grandi occhi erano chiusi e tali sarebbero
rimasti per l’eternità. La sua bocca era leggermente aperta, come
se stesse per dire qualcosa. Anche i suoi seni appena abbozzati non
sarebbero cresciuti piú di cosí.
La volta seguente che la
vidi era già nella bara. Distesa supina nella piccola cassa,
vestita con l’abito di velluto nero che le piaceva tanto,
leggermente truccata, pettinata con cura e con le scarpe di vernice
nera ai piedi. L’abito aveva un colletto di pizzo bianco, un bianco
quasi innaturale.
Adagiata nella bara,
sembrava che dormisse. Che bastasse scuoterla un poco perché si
svegliasse da un momento all’altro. Ma era un’illusione. Avrei
potuto chiamarla, scuoterla quanto volevo, non avrebbe mai piú
riaperto gli occhi.
Rifiutavo l’idea che il
suo corpo sottile fosse chiuso in quella cassa soffocante.
Avrebbero dovuto metterlo in uno spazio piú grande. Ad esempio in
mezzo a un prato. E noi saremmo andati a trovarla facendoci strada
fra l’erba verde e lussureggiante, senza bisogno di parlare. Il
vento avrebbe smosso l’erba, gli uccelli e gli insetti avrebbero
continuato a fare il loro verso, i fiori di campo a spargere
nell’aria il loro aspro profumo e il loro polline. E dopo il
tramonto sarebbero brillate miriadi di stelle d’argento,
incastonate nel cielo sopra di noi. Il mattino il sole sarebbe
sorto di nuovo per far splendere come gioielli le gocce di rugiada
sulle foglie.
Invece mia sorella era
stata messa in quella piccola stupida bara.
Intorno a lei c’erano
solo dei funesti fiori bianchi tagliati con le forbici e infilati
nei vasi. Dagli speaker incassati nel soffitto arrivava il suono di
una musica per organo registrata.
Non ebbi la forza di
assistere alla cremazione. Quando chiusero la bara, non resistetti
piú e uscii dalla sala. Non ce la feci neanche a raccogliere le sue
ossa1. Andai nel giardino
del tempio crematorio e piansi in silenzio. Addolorato di non
essere potuto venire in aiuto a mia sorella nemmeno una volta,
nella sua breve vita. Nemmeno una.
Dopo la sua morte, i
miei cambiarono. Mio padre divenne ancora piú taciturno di prima,
mia madre ancora piú nervosa. Io continuavo grosso modo a fare le
stesse cose, ero molto preso dalle attività del club di alpinismo,
di cui ero membro, e nel tempo libero studiavo la pittura a olio.
Già ai tempi della scuola media, il mio professore d’arte mi aveva
consigliato di prendere lezioni private. Cosí mi ero iscritto a una
scuola specializzata e man mano che seguivo i corsi avevo
sviluppato per la pittura un interesse sempre piú profondo.
Insomma, per non pensare a mia sorella morta, cercavo di tenermi
piú occupato possibile.
Per molti anni dopo
averla persa, non ricordo piú quanti, i miei genitori lasciarono la
sua stanza cosí com’era. Con i libri di testo, le penne e le matite
sulla scrivania, le lenzuola, le coperte, il suo pigiama lavato e
stirato sul letto, l’uniforme scolastica nell’armadio. Il
calendario appeso a una parete era rimasto aperto alla data della
sua morte, come se da allora il tempo non fosse trascorso, e la
pagina era piena di annotazioni scritte con la sua bella grafia
minuta. Avevo l’impressione che la porta dovesse aprirsi da un
momento all’altro, che mia sorella dovesse entrare, sedersi
tranquillamente sul letto rifatto con cura e guardarsi intorno.
Però non osavo toccare nulla di quanto c’era nella stanza. Non
volevo portare il minimo scompiglio tra quelle silenziose
testimonianze del fatto che lei era vissuta lí.
Spesso cercavo di
immaginare che vita avrebbe vissuto, se non fosse morta a dodici
anni. Ovviamente non lo potevo sapere. Non avevo la piú pallida
idea del futuro che attendeva me, come avrei potuto figurarmi il
suo? Di una cosa ero sicuro: senza quel difetto cardiaco congenito,
mia sorella crescendo sarebbe diventata una donna in gamba e
affascinante. Avrebbe fatto innamorare molti uomini, tra le cui
braccia farsi stringere teneramente. Però erano immagini che non
riuscivano a formarsi nella mia mente. Per me lei era rimasta la
mia sorellina non ancora tredicenne, la sorellina che dovevo
proteggere.
Dopo la sua morte, per
alcuni mesi feci e rifeci il suo ritratto, come in uno stato di
trance. Per non dimenticare il suo volto, cercavo di ricrearlo in
molti modi sul mio album da disegno. Naturalmente non c’era
pericolo che lo scordassi, me lo sarei ricordato finché vivevo. Ma
a preoccuparmi non era questo: ciò che non volevo dimenticare era
il suo volto come lo ricordavo in quel preciso momento. Era per
questo che dovevo metterlo su carta. Avevo quindici anni e non
sapevo molto né della memoria, né della pittura, né dello scorrere
del tempo. Comprendevo però che per conservare un ricordo cosí
com’era, nella sua freschezza, dovevo avere un metodo. Perché se
l’avessi lasciato a se stesso, prima o poi l’avrei perso. Per
quanto vivido, non avrebbe resistito alla forza del tempo. Era una
cosa che sapevo per istinto.
Andavo a sedermi sul suo
letto nella stanza vuota e facevo schizzi del suo viso, uno dopo
l’altro, sul mio album da disegno. Li correggevo piú e piú volte.
Cercavo di resuscitare sulla carta la figura di mia sorella come la
vedevo con gli occhi della memoria. All’epoca ero ancora inesperto
e non possedevo nemmeno la tecnica necessaria. Di conseguenza
incontravo mille difficoltà. Spesso disegnavo e strappavo,
disegnavo e strappavo. Se però guardo adesso quei ritratti
(conservo ancora gelosamente quegli album da disegno) mi sembrano
colmi di una genuina, enorme tristezza. Comprendo che in quei
lavori, carenti dal punto di vista tecnico, la mia anima cercava di
evocare l’anima di mia sorella. Ogni volta che li osservo mi
vengono le lacrime agli occhi, non posso farci nulla. Di lí in
avanti, nella vita ho dipinto una gran quantità di quadri. Non è
mai successo però, mai, nemmeno una volta, che uno di questi mi
abbia fatto piangere.
La morte di mia sorella
ha avuto un’altra conseguenza per me. Una claustrofobia patologica.
Dopo averla vista distesa in quella piccola bara, dopo aver
assistito con i miei occhi alla chiusura ermetica del coperchio e
all’avvio della bara verso il forno crematorio, non ho piú
sopportato di trovarmi confinato in uno spazio esiguo. Non ho piú
potuto prendere l’ascensore. Davanti a un ascensore, subito
immagino che si fermi automaticamente a causa di un terremoto o
chissà quale altro motivo e mi vedo imprigionato in quella piccola
cabina senza via di fuga. A quel pensiero vengo preso dal panico,
mi manca il respiro.
La claustrofobia non si
è manifestata subito dopo la morte di mia sorella. Ci sono voluti
quasi tre anni. La prima volta accadde nel periodo in cui studiavo
all’Accademia e lavoravo part-time per un’agenzia di traslochi.
Aiutavo gli autisti a caricare e scaricare i pacchi dal furgone, e
un giorno, per una svista, ci rimasi rinchiuso. Alla fine di una
giornata di lavoro, in teoria si deve sempre controllare se non si
è dimenticato qualcosa nel vano-merci, e assicurarsi che dentro non
ci sia rimasto nessuno; ma l’autista non lo fece, chiuse a chiave
dall’esterno e se ne andò.
Passarono circa due ore
e mezza prima che la porta venisse riaperta e io potessi uscire.
Per tutto quel tempo rimasi solo in quel furgone buio e chiuso a
chiave. Per fortuna non era una cella frigorifera, e c’erano delle
fessure da cui passava un po’ d’aria. A mente fredda, il rischio
che restassi soffocato era inesistente.
Eppure caddi in preda al
panico. Nel furgone c’era ossigeno a sufficienza, ma per quanto
cercassi di respirare a fondo, l’aria non arrivava ai miei polmoni.
O almeno cosí mi sembrava. Mi prese l’affanno, sempre piú forte, e
credo di essere entrato in uno stato di iperventilazione. Avevo le
vertigini, mi mancava il respiro, e provavo un inspiegabile
terrore. Mi ripetevo: «Tranquillo, va tutto bene. Stai calmo,
presto uscirai di qui. Non corri il rischio di morire soffocato».
Ma essere ragionevole era al di là delle mie possibilità. Solo
un’immagine continuava a riempirmi la testa: quella di mia sorella
chiusa in una piccola bara che veniva portata verso il forno
crematorio.
Il furgone era fermo nel
parcheggio dell’agenzia e tutti i dipendenti, finita la giornata di
lavoro, erano andati a casa. Nessuno si era accorto che mancavo.
Avevo un bel picchiare con tutte le mie forze contro le pareti del
vano-merci, non c’era nessuno nei paraggi che potesse sentirmi.
Rischiavo di restare imprigionato lí fino al mattino dopo. Solo a
pensarci mi sentivo squagliare i muscoli in tutto il
corpo.
Ad accorgersi del rumore
che facevo, e ad aprire la porta del furgone, fu il guardiano
notturno venuto a fare un giro d’ispezione al parcheggio. Vedendo
lo stato in cui ero ridotto − esausto e sconvolto − mi fece
stendere sulla branda della sua guardiola. Mi diede del tè caldo.
Non so quanto tempo rimasi lí. Quando mi calmai e tornai a
respirare normalmente, era già l’alba, quindi ringraziai il
guardiano, presi il treno e tornai a casa. Poi mi buttai sul letto,
dove restai a tremare per molte ore.
Da allora non sono piú
riuscito a prendere un ascensore. Quell’episodio aveva risvegliato
una paura che covava dentro di me. E non ho dubbi sul fatto che a
causarla sia stato il ricordo di mia sorella morta. La mia fobia
non si limita agli ascensori, non posso metter piede in qualunque
luogo piccolo e chiuso. Non riesco nemmeno a guardare i film
ambientati in sottomarini o carri armati. Mi basta immaginare di
essere in un posto del genere, perché mi manchi il respiro. Mi è
successo spesso di alzarmi nel bel mezzo di un film e uscire dalla
sala. Il solo vedere un’altra persona chiusa in uno spazio
ristretto mi mette ansia, è una scena che non riesco a sopportare.
Anche per questo è raro che io vada al cinema in compagnia di
un’altra persona.
Durante quel viaggio
nell’Hokkaidō, una volta non avevo potuto fare a meno di fermarmi a
dormire in uno di quelli che chiamano capsule hotel. Mi era venuto
l’affanno, al punto che non ero riuscito a dormire. Avevo finito
col lasciare l’albergo e passare la notte in macchina. Ero a
Sapporo, a inizio primavera: ricordo quell’esperienza come se
l’avessi sognata.
Mia moglie mi prendeva
spesso in giro, per questa mia claustrofobia. Se dovevamo andare
agli ultimi piani di un grattacielo, lei saliva prima in ascensore
e aspettava tranquilla che io facessi a piedi, il fiato corto,
magari sedici piani di scale. Non le avevo mai spiegato però da
dove nascesse la mia paura. Mi ero limitato a dirle che l’avevo
sempre provata, fin da bambino.
– Be’, può darsi che per
la tua salute sia un’ottima cosa, – era stata la sua serafica
risposta.
Inoltre mi sento
intimidito dalle donne che hanno un grosso seno. Non sono sicuro
che questo abbia un rapporto con il fatto che mia sorella, quando è
morta, cominciasse ad averne un pochino. So solo che sono attratto
dalle donne col seno piccolo: ogni volta che vi poso sopra gli
occhi, che lo tocco, mi torna in mente il lieve rigonfiamento sul
petto di mia sorella. Non vorrei essere frainteso, non provavo nei
suoi confronti alcuna attrazione sessuale. Probabilmente cerco solo
di ricreare uno scenario. Uno di quegli scenari che, una volta
persi, non ritornano piú.
Quel sabato pomeriggio,
tenevo le mani posate sul seno della donna sposata che era la mia
amante. I suoi seni non erano né grandi, né particolarmente
piccoli. Avevano le dimensioni adatte per stare nelle coppe formate
dalle mie mani. Sotto il mio palmo, i capezzoli erano ancora
duri.
Di regola, non ci
vedevamo mai il sabato. Il fine settimana lei lo trascorreva
insieme alla famiglia. Quella volta però il marito era andato per
lavoro a Mumbai, e le figlie avrebbero dormito fuori, a casa di una
cugina che abitava a Nasu. Di conseguenza ne aveva approfittato per
venire da me. E come tutte le altre volte, avevamo fatto sesso
senza fretta, mettendoci tutto il tempo che volevamo. Poi eravamo
scivolati in un sonno torpido, come sempre.
– Vuoi sapere quel che
dice il tam-tam? – mi chiese lei.
– Quel che dice il
tam-tam? – A cosa si riferiva? Lí per lí non capii di cosa
parlasse.
– Te lo sei dimenticato?
Volevi sapere qualcosa su quell’uomo misterioso che vive dall’altra
parte della valle, in quella grande casa bianca, no? Sul signor
Menshiki. L’altra volta mi hai chiesto di informarmi su di lui,
ricordi?
– Ah, sí,
giusto!
– Qualcosa l’ho saputo,
anche se non è molto. Una mia amica, la mamma di una compagna di
mia figlia, abita in quella zona, cosí ho potuto mettere insieme
qualche dato. Vuoi sentire?
–
Naturalmente.
– Il signor Menshiki ha
comprato quella magnifica villa circa tre anni fa. Prima ci abitava
un’altra famiglia. Sono stati loro a far costruire la casa, ma ci
hanno vissuto solo due anni. Un bel giorno all’improvviso hanno
fatto i bagagli e in quattro e quattr’otto se ne sono andati. Al
loro posto è arrivato il signor Menshiki. La proprietà era
praticamente nuova di zecca, e lui l’ha comprata cosí com’era.
Cos’abbia portato a questa compravendita cosí improvvisa, non lo sa
nessuno.
– Insomma, la casa non
l’ha fatta costruire lui, – dissi.
– No. Si è infilato in
una conchiglia che esisteva già. Un vero paguro.
Le sue parole mi
sorpresero. Avevo sempre pensato che quella villa bianca in cima al
versante della valle − forse perché si accordava tanto bene con i
suoi capelli prodigiosamente bianchi − l’avesse fatta edificare
Menshiki. Per me era tutt’uno con l’immagine di quel
personaggio!
– Nessuno sa che lavoro
faccia, – proseguí la mia amante. – L’unica cosa chiara è che non
fa la vita del pendolare. Sta tutto il giorno chiuso in casa, forse
a scambiare informazioni al computer. Pare che nel suo studio ci
sia tutta una serie di apparecchi elettronici. Ormai, se si hanno
le conoscenze tecnologiche necessarie, col computer si possono fare
un sacco di cose. Fra i miei amici c’è un chirurgo che lavora
sempre da casa. È un appassionato di surf e non si vuole
allontanare dalla costa.
– Come fa a fare il
chirurgo senza uscire di casa?
– Si fa mandare tutte le
fotografie e le informazioni che riguardano il paziente, le
analizza, crea il protocollo dell’intervento, lo spedisce a chi di
dovere, monitorizza l’operazione su uno schermo e dà i consigli
necessari. Ma può anche operare a distanza, da un computer, in
interventi di chirurgia teleguidata. Funziona cosí.
– Viviamo in un’epoca
davvero straordinaria, – dissi. – Personalmente però preferirei non
essere operato col sistema del tuo conoscente.
– Molto probabile che il
tuo Menshiki si dedichi a qualche attività su Internet, – aggiunse
lei. – E di qualunque cosa si tratti, guadagna piú che a
sufficienza. Vive solo in quella grande a casa e ogni tanto fa
lunghi viaggi. Forse va all’estero. In casa ha una palestra
equipaggiata con ogni sorta di apparecchi ginnici, quando ha tempo
li usa per tenersi allenato. Non ha un filo di grasso addosso.
Ascolta soprattutto musica classica, ha anche un magnifico
auditorium. Uno stile di vita molto raffinato, non
pensi?
– Ma tu come hai fatto a
sapere tutte queste cose? – chiesi.
Lei rise.
– Ehi, sembra che tu
sottovaluti la capacità di raccogliere informazioni che hanno le
donne!
– Forse hai ragione, –
ammisi.
– Ha quattro automobili.
Due Jaguar, una Range Rover e una Mini Cooper. Pare che abbia un
debole per la macchine inglesi, chissà perché.
– La Mini ormai l’ha
comprata la Bmw, quanto alla Jaguar, credo che ora sia di proprietà
di un’impresa indiana. Mi sembra che nessuna di queste due aziende
automobilistiche si possa piú definire inglese.
– Lui usa una Mini
vecchio modello. E la Jaguar, qualunque impresa la compri, è e sarà
sempre inglese.
– Hai saputo
qualcos’altro?
– Non va a trovarlo
quasi nessuno. Dev’essere un uomo che non ama la compagnia. Gli
piace stare solo, ascoltare musica classica, leggere. Benché sia
celibe e ricco, non sembra che porti mai delle donne a casa. A
giudicare dalle apparenze, conduce una vita molto semplice e sana.
Può darsi che sia gay. Ma ci sono alcune ragioni per pensare che
non sia cosí.
– Da qualche parte,
allora, una ricca fonte di informazioni l’hai trovata!
– Fino a poco tempo fa
una donna andava piú volte alla settimana a pulire la casa. Ora ha
smesso, ma prima era lei a fare la spesa per il signor Menshiki in
un supermercato della zona e a portare la spazzatura al centro di
raccolta. È probabile che abbia scambiato qualche parola con le
signore che abitano da quelle parti, fare due chiacchiere viene
naturale.
– Già, – dissi. – È cosí
che si mette in moto il tam-tam, nella giungla.
– A questo proposito, a
sentire la donna che andava a fare le pulizie, nella villa del
signor Menshiki c’è una stanza «che non si può aprire». Lui stesso
le aveva vietato di entrarci. Rigorosamente vietato.
– Mi ricorda il castello
di Barbablú.
– Esatto. D’altronde, si
dice che ogni casa abbia il suo scheletro nell’armadio,
no?
A quelle parole, mi
venne in mente il quadro intitolato L’assassinio del Commendatore, rimasto a lungo nascosto nel sottotetto. Anche quello
era una sorta di scheletro nell’armadio.
– Insomma, la domestica
non è mai riuscita a capire cosa ci fosse in quella stanza, –
proseguí la mia amante. – Perché la trovava sempre chiusa a chiave.
Comunque sia, lei ormai a fare le pulizie lí non ci va piú. Forse è
stata licenziata perché parlava troppo. Adesso fa tutto lui da
solo, almeno cosí pare.
– Sí, mi ha detto che
una volta alla settimana fa venire un’impresa di pulizie, ma, per
il resto, dei lavori di casa se ne occupa lui stesso.
– Sembra un tipo
piuttosto suscettibile, riguardo alla sua privacy.
– Già, ma a parte
questo, non vorrei che i nostri incontri qui da me finissero sulla
bocca di tutti, grazie al tuo tam-tam.
– No, non credo, – disse
lei. – Prima di tutto, perché faccio molta attenzione per evitare
che questo succeda. In secondo luogo, tu non sei proprio come il
signor Menshiki…
– Cioè, mi stai dicendo
che su di lui vale la pena di spettegolare, su di me no? – chiesi
traducendo in parole povere.
– Be’, è una cosa di cui
dobbiamo essere grati, – rispose lei ridendo.
Dopo la morte di mia
sorella, molte cose iniziarono ad andare storto. L’azienda di
lavorazione del metallo gestita da mio padre entrò in crisi, col
risultato che lui, incalzato dalla necessità di far fronte alla
situazione, non si faceva quasi vedere a casa. In famiglia
l’atmosfera si fece pesante. Tutto era cosí diverso, quando era
viva mia sorella! Al fine di mettere la maggior distanza possibile
tra me e i miei genitori ridotti in quello stato, mi rifugiai nella
pittura, dedicandomici anima e corpo. Alla fine del liceo decisi di
entrare in un’Accademia di Belle arti. Mio padre non era d’accordo
(i miei non avevano certo i mezzi per mantenere un artista) e
litigammo aspramente; poi intervenne mia madre e alla fine bene o
male potei iscrivermi. Il rapporto con mio padre però non lo
ricucii mai.
Come sarebbero andate le
cose, se mia sorella non fosse morta? A volte ci rifletto. Se lei
fosse vissuta in buona salute, sono sicuro che la mia famiglia
avrebbe continuato a condurre un’esistenza serena. La sua
improvvisa scomparsa ebbe l’effetto di alterare rapidamente un
equilibrio fino ad allora stabile. I miei genitori, praticamente
senza rendersene conto, iniziarono a ferirsi reciprocamente. Ogni
volta che ci ripenso, mi dico, con un profondo senso di impotenza,
che non sono riuscito a colmare il vuoto lasciato da mia
sorella.
Intanto, a poco a poco,
smisi di disegnare il suo volto. Dopo essere entrato all’Accademia,
di fronte a una tela bianca provavo un unico desiderio: dipingere
un soggetto privo di un significato concreto. In una parola, un
soggetto astratto. Un quadro astratto poteva simboleggiare
qualsiasi cosa si volesse, e dall’intreccio tra un simbolo e
l’altro nasceva un senso nuovo. Ero felice di entrare in un mondo
che perseguiva questo genere di completezza. Perché in quel mondo
per la prima volta potevo respirare liberamente, senza
intralci.
Tuttavia, è ovvio, non
era il genere di pittura che potesse procurarmi molto lavoro. Pur
con il mio diploma dell’Accademia, limitandomi a creare opere
astratte, prospettive di guadagno non ne avevo. Esattamente come
aveva previsto mio padre. Di conseguenza per sbarcare il lunario
(ormai avevo lasciato la casa dei miei genitori e dovevo pagarmi da
solo vitto e alloggio), dovetti rinunciare alla pittura che mi era
piú congeniale. Mi misi a dipingere quadri figurativi che
riproducevano fedelmente le forme, e bene o male riuscii a
mantenermi col solo lavoro di pittore.
Ora mi accingevo a fare
il ritratto di un uomo che si chiamava Menshiki Wataru. Quello che
viveva nella villa bianca lassú, dall’altra parte della valle. Un
uomo enigmatico dai capelli candidi, sul quale nella zona si
raccontavano tante cose. Una persona che si poteva a buona ragione
definire molto interessante. Mi aveva incaricato, me fra tanti, di
fargli il ritratto in cambio di una considerevole somma di denaro.
Peccato che io avessi appena scoperto di non essere piú in grado di
fare ritratti. Non sapevo piú dipingere un quadro che avesse
un’utilità pratica. Mi ero completamente svuotato.
«Dovevamo andare a
trovarla facendoci strada in silenzio fra l’erba verde e
lussureggiante». Senza nessun motivo, all’improvviso mi tornarono
in mente queste parole. Ecco, sí: se veramente ci fossi riuscito,
sarebbe stato bellissimo.
1. È tradizione che i
parenti del defunto, dopo la cremazione, ne raccolgano con apposite
bacchette alcune ossa che vengono depositate in un’urna, mentre il
resto delle ossa viene seppellito in una fossa comune nel giardino
del tempio crematorio.