Capitolo decimo
Facendoci strada fra l’erba verde e lussureggiante
Quando avevo quindici anni, mia sorella morí. Morí all’improvviso. Frequentava la prima media. Aveva problemi congeniti al cuore, ma dato che per tutta la durata delle elementari non si era mai ammalata veramente, noi famigliari ci eravamo un po’ tranquillizzati. Cominciavamo a nutrire la speranza che sarebbe vissuta senza altre complicazioni. Quell’anno però, verso il mese di maggio, il cuore dette segni di scompenso, divenne tachicardica. Le succedeva soprattutto quando stava distesa, quindi la notte spesso non riusciva a dormire. Alla clinica universitaria le fecero diversi esami, controlli scrupolosissimi, ma non riuscirono a trovare nulla di variato nella sua condizione clinica generale. Il problema di base in teoria era già stato risolto dall’intervento chirurgico subito in precedenza, dicevano i medici scuotendo la testa perplessi.
– Cerca di evitare il movimento eccessivo e di condurre una vita regolare, – le raccomandarono. – La cosa a poco a poco dovrebbe andare a posto –. Probabile che non sapessero cos’altro dirle. E le prescrissero dei farmaci.
Tuttavia il battito continuava ad avere scompensi. Seduto di fronte a lei dall’altra parte del tavolo, la guardavo immaginando il cuore che aveva lí, nel petto, quel cuore che non svolgeva il suo compito alla perfezione. Era l’epoca in cui cominciava a spuntarle il seno. Aveva dodici anni e, malgrado la sua patologia, il suo corpo continuava a svilupparsi regolarmente. Vedevo i due rigonfiamenti che di giorno in giorno crescevano sul petto di mia sorella con un senso di incredulità. Fino a poco tempo prima era ancora una bambinetta, ed ecco che all’improvviso le erano venute le prime mestruazioni e i suoi seni andavano prendendo forma. Eppure dentro il suo piccolo torace aveva un cuore difettoso. Una malformazione che nemmeno gli specialisti erano riusciti a individuare con precisione. Questo pensiero mi riempiva d’ansia. Ho l’impressione di aver passato l’adolescenza con il timore costante di perdere la mia sorellina in qualsiasi momento.
Mi sentivo ripetere ogni giorno che era fisicamente debole e aveva bisogno di molte attenzioni. Finché frequentammo la stessa scuola, quindi, durante gli anni delle elementari, dentro di me ero fermamente deciso a non perderla di vista e, in caso di bisogno, a proteggere lei e il suo piccolo cuore anche a rischio della vita. L’occasione di farlo però non si presentò mai.
Fu al ritorno da scuola, mentre saliva le scale della stazione di Seibu della linea Shinjuku, che mia sorella svenne e fu portata in ambulanza al pronto soccorso piú vicino. Quando arrivai a casa, al termine delle lezioni, mi precipitai anch’io all’ospedale, ma il suo cuore aveva già cessato di battere. Tutto era successo in un attimo. Quel mattino avevamo fatto colazione insieme, poi fuori dalla porta di casa ci eravamo salutati, io avevo preso la direzione del mio liceo, lei della scuola media. Rividi il suo viso solo quando non respirava piú. I suoi grandi occhi erano chiusi e tali sarebbero rimasti per l’eternità. La sua bocca era leggermente aperta, come se stesse per dire qualcosa. Anche i suoi seni appena abbozzati non sarebbero cresciuti piú di cosí.
La volta seguente che la vidi era già nella bara. Distesa supina nella piccola cassa, vestita con l’abito di velluto nero che le piaceva tanto, leggermente truccata, pettinata con cura e con le scarpe di vernice nera ai piedi. L’abito aveva un colletto di pizzo bianco, un bianco quasi innaturale.
Adagiata nella bara, sembrava che dormisse. Che bastasse scuoterla un poco perché si svegliasse da un momento all’altro. Ma era un’illusione. Avrei potuto chiamarla, scuoterla quanto volevo, non avrebbe mai piú riaperto gli occhi.
Rifiutavo l’idea che il suo corpo sottile fosse chiuso in quella cassa soffocante. Avrebbero dovuto metterlo in uno spazio piú grande. Ad esempio in mezzo a un prato. E noi saremmo andati a trovarla facendoci strada fra l’erba verde e lussureggiante, senza bisogno di parlare. Il vento avrebbe smosso l’erba, gli uccelli e gli insetti avrebbero continuato a fare il loro verso, i fiori di campo a spargere nell’aria il loro aspro profumo e il loro polline. E dopo il tramonto sarebbero brillate miriadi di stelle d’argento, incastonate nel cielo sopra di noi. Il mattino il sole sarebbe sorto di nuovo per far splendere come gioielli le gocce di rugiada sulle foglie.
Invece mia sorella era stata messa in quella piccola stupida bara.
Intorno a lei c’erano solo dei funesti fiori bianchi tagliati con le forbici e infilati nei vasi. Dagli speaker incassati nel soffitto arrivava il suono di una musica per organo registrata.
Non ebbi la forza di assistere alla cremazione. Quando chiusero la bara, non resistetti piú e uscii dalla sala. Non ce la feci neanche a raccogliere le sue ossa1. Andai nel giardino del tempio crematorio e piansi in silenzio. Addolorato di non essere potuto venire in aiuto a mia sorella nemmeno una volta, nella sua breve vita. Nemmeno una.
Dopo la sua morte, i miei cambiarono. Mio padre divenne ancora piú taciturno di prima, mia madre ancora piú nervosa. Io continuavo grosso modo a fare le stesse cose, ero molto preso dalle attività del club di alpinismo, di cui ero membro, e nel tempo libero studiavo la pittura a olio. Già ai tempi della scuola media, il mio professore d’arte mi aveva consigliato di prendere lezioni private. Cosí mi ero iscritto a una scuola specializzata e man mano che seguivo i corsi avevo sviluppato per la pittura un interesse sempre piú profondo. Insomma, per non pensare a mia sorella morta, cercavo di tenermi piú occupato possibile.
Per molti anni dopo averla persa, non ricordo piú quanti, i miei genitori lasciarono la sua stanza cosí com’era. Con i libri di testo, le penne e le matite sulla scrivania, le lenzuola, le coperte, il suo pigiama lavato e stirato sul letto, l’uniforme scolastica nell’armadio. Il calendario appeso a una parete era rimasto aperto alla data della sua morte, come se da allora il tempo non fosse trascorso, e la pagina era piena di annotazioni scritte con la sua bella grafia minuta. Avevo l’impressione che la porta dovesse aprirsi da un momento all’altro, che mia sorella dovesse entrare, sedersi tranquillamente sul letto rifatto con cura e guardarsi intorno. Però non osavo toccare nulla di quanto c’era nella stanza. Non volevo portare il minimo scompiglio tra quelle silenziose testimonianze del fatto che lei era vissuta lí.
Spesso cercavo di immaginare che vita avrebbe vissuto, se non fosse morta a dodici anni. Ovviamente non lo potevo sapere. Non avevo la piú pallida idea del futuro che attendeva me, come avrei potuto figurarmi il suo? Di una cosa ero sicuro: senza quel difetto cardiaco congenito, mia sorella crescendo sarebbe diventata una donna in gamba e affascinante. Avrebbe fatto innamorare molti uomini, tra le cui braccia farsi stringere teneramente. Però erano immagini che non riuscivano a formarsi nella mia mente. Per me lei era rimasta la mia sorellina non ancora tredicenne, la sorellina che dovevo proteggere.
Dopo la sua morte, per alcuni mesi feci e rifeci il suo ritratto, come in uno stato di trance. Per non dimenticare il suo volto, cercavo di ricrearlo in molti modi sul mio album da disegno. Naturalmente non c’era pericolo che lo scordassi, me lo sarei ricordato finché vivevo. Ma a preoccuparmi non era questo: ciò che non volevo dimenticare era il suo volto come lo ricordavo in quel preciso momento. Era per questo che dovevo metterlo su carta. Avevo quindici anni e non sapevo molto né della memoria, né della pittura, né dello scorrere del tempo. Comprendevo però che per conservare un ricordo cosí com’era, nella sua freschezza, dovevo avere un metodo. Perché se l’avessi lasciato a se stesso, prima o poi l’avrei perso. Per quanto vivido, non avrebbe resistito alla forza del tempo. Era una cosa che sapevo per istinto.
Andavo a sedermi sul suo letto nella stanza vuota e facevo schizzi del suo viso, uno dopo l’altro, sul mio album da disegno. Li correggevo piú e piú volte. Cercavo di resuscitare sulla carta la figura di mia sorella come la vedevo con gli occhi della memoria. All’epoca ero ancora inesperto e non possedevo nemmeno la tecnica necessaria. Di conseguenza incontravo mille difficoltà. Spesso disegnavo e strappavo, disegnavo e strappavo. Se però guardo adesso quei ritratti (conservo ancora gelosamente quegli album da disegno) mi sembrano colmi di una genuina, enorme tristezza. Comprendo che in quei lavori, carenti dal punto di vista tecnico, la mia anima cercava di evocare l’anima di mia sorella. Ogni volta che li osservo mi vengono le lacrime agli occhi, non posso farci nulla. Di lí in avanti, nella vita ho dipinto una gran quantità di quadri. Non è mai successo però, mai, nemmeno una volta, che uno di questi mi abbia fatto piangere.
La morte di mia sorella ha avuto un’altra conseguenza per me. Una claustrofobia patologica. Dopo averla vista distesa in quella piccola bara, dopo aver assistito con i miei occhi alla chiusura ermetica del coperchio e all’avvio della bara verso il forno crematorio, non ho piú sopportato di trovarmi confinato in uno spazio esiguo. Non ho piú potuto prendere l’ascensore. Davanti a un ascensore, subito immagino che si fermi automaticamente a causa di un terremoto o chissà quale altro motivo e mi vedo imprigionato in quella piccola cabina senza via di fuga. A quel pensiero vengo preso dal panico, mi manca il respiro.
La claustrofobia non si è manifestata subito dopo la morte di mia sorella. Ci sono voluti quasi tre anni. La prima volta accadde nel periodo in cui studiavo all’Accademia e lavoravo part-time per un’agenzia di traslochi. Aiutavo gli autisti a caricare e scaricare i pacchi dal furgone, e un giorno, per una svista, ci rimasi rinchiuso. Alla fine di una giornata di lavoro, in teoria si deve sempre controllare se non si è dimenticato qualcosa nel vano-merci, e assicurarsi che dentro non ci sia rimasto nessuno; ma l’autista non lo fece, chiuse a chiave dall’esterno e se ne andò.
Passarono circa due ore e mezza prima che la porta venisse riaperta e io potessi uscire. Per tutto quel tempo rimasi solo in quel furgone buio e chiuso a chiave. Per fortuna non era una cella frigorifera, e c’erano delle fessure da cui passava un po’ d’aria. A mente fredda, il rischio che restassi soffocato era inesistente.
Eppure caddi in preda al panico. Nel furgone c’era ossigeno a sufficienza, ma per quanto cercassi di respirare a fondo, l’aria non arrivava ai miei polmoni. O almeno cosí mi sembrava. Mi prese l’affanno, sempre piú forte, e credo di essere entrato in uno stato di iperventilazione. Avevo le vertigini, mi mancava il respiro, e provavo un inspiegabile terrore. Mi ripetevo: «Tranquillo, va tutto bene. Stai calmo, presto uscirai di qui. Non corri il rischio di morire soffocato». Ma essere ragionevole era al di là delle mie possibilità. Solo un’immagine continuava a riempirmi la testa: quella di mia sorella chiusa in una piccola bara che veniva portata verso il forno crematorio.
Il furgone era fermo nel parcheggio dell’agenzia e tutti i dipendenti, finita la giornata di lavoro, erano andati a casa. Nessuno si era accorto che mancavo. Avevo un bel picchiare con tutte le mie forze contro le pareti del vano-merci, non c’era nessuno nei paraggi che potesse sentirmi. Rischiavo di restare imprigionato lí fino al mattino dopo. Solo a pensarci mi sentivo squagliare i muscoli in tutto il corpo.
Ad accorgersi del rumore che facevo, e ad aprire la porta del furgone, fu il guardiano notturno venuto a fare un giro d’ispezione al parcheggio. Vedendo lo stato in cui ero ridotto − esausto e sconvolto − mi fece stendere sulla branda della sua guardiola. Mi diede del tè caldo. Non so quanto tempo rimasi lí. Quando mi calmai e tornai a respirare normalmente, era già l’alba, quindi ringraziai il guardiano, presi il treno e tornai a casa. Poi mi buttai sul letto, dove restai a tremare per molte ore.
Da allora non sono piú riuscito a prendere un ascensore. Quell’episodio aveva risvegliato una paura che covava dentro di me. E non ho dubbi sul fatto che a causarla sia stato il ricordo di mia sorella morta. La mia fobia non si limita agli ascensori, non posso metter piede in qualunque luogo piccolo e chiuso. Non riesco nemmeno a guardare i film ambientati in sottomarini o carri armati. Mi basta immaginare di essere in un posto del genere, perché mi manchi il respiro. Mi è successo spesso di alzarmi nel bel mezzo di un film e uscire dalla sala. Il solo vedere un’altra persona chiusa in uno spazio ristretto mi mette ansia, è una scena che non riesco a sopportare. Anche per questo è raro che io vada al cinema in compagnia di un’altra persona.
Durante quel viaggio nell’Hokkaidō, una volta non avevo potuto fare a meno di fermarmi a dormire in uno di quelli che chiamano capsule hotel. Mi era venuto l’affanno, al punto che non ero riuscito a dormire. Avevo finito col lasciare l’albergo e passare la notte in macchina. Ero a Sapporo, a inizio primavera: ricordo quell’esperienza come se l’avessi sognata.
Mia moglie mi prendeva spesso in giro, per questa mia claustrofobia. Se dovevamo andare agli ultimi piani di un grattacielo, lei saliva prima in ascensore e aspettava tranquilla che io facessi a piedi, il fiato corto, magari sedici piani di scale. Non le avevo mai spiegato però da dove nascesse la mia paura. Mi ero limitato a dirle che l’avevo sempre provata, fin da bambino.
– Be’, può darsi che per la tua salute sia un’ottima cosa, – era stata la sua serafica risposta.
Inoltre mi sento intimidito dalle donne che hanno un grosso seno. Non sono sicuro che questo abbia un rapporto con il fatto che mia sorella, quando è morta, cominciasse ad averne un pochino. So solo che sono attratto dalle donne col seno piccolo: ogni volta che vi poso sopra gli occhi, che lo tocco, mi torna in mente il lieve rigonfiamento sul petto di mia sorella. Non vorrei essere frainteso, non provavo nei suoi confronti alcuna attrazione sessuale. Probabilmente cerco solo di ricreare uno scenario. Uno di quegli scenari che, una volta persi, non ritornano piú.
Quel sabato pomeriggio, tenevo le mani posate sul seno della donna sposata che era la mia amante. I suoi seni non erano né grandi, né particolarmente piccoli. Avevano le dimensioni adatte per stare nelle coppe formate dalle mie mani. Sotto il mio palmo, i capezzoli erano ancora duri.
Di regola, non ci vedevamo mai il sabato. Il fine settimana lei lo trascorreva insieme alla famiglia. Quella volta però il marito era andato per lavoro a Mumbai, e le figlie avrebbero dormito fuori, a casa di una cugina che abitava a Nasu. Di conseguenza ne aveva approfittato per venire da me. E come tutte le altre volte, avevamo fatto sesso senza fretta, mettendoci tutto il tempo che volevamo. Poi eravamo scivolati in un sonno torpido, come sempre.
– Vuoi sapere quel che dice il tam-tam? – mi chiese lei.
– Quel che dice il tam-tam? – A cosa si riferiva? Lí per lí non capii di cosa parlasse.
– Te lo sei dimenticato? Volevi sapere qualcosa su quell’uomo misterioso che vive dall’altra parte della valle, in quella grande casa bianca, no? Sul signor Menshiki. L’altra volta mi hai chiesto di informarmi su di lui, ricordi?
– Ah, sí, giusto!
– Qualcosa l’ho saputo, anche se non è molto. Una mia amica, la mamma di una compagna di mia figlia, abita in quella zona, cosí ho potuto mettere insieme qualche dato. Vuoi sentire?
– Naturalmente.
– Il signor Menshiki ha comprato quella magnifica villa circa tre anni fa. Prima ci abitava un’altra famiglia. Sono stati loro a far costruire la casa, ma ci hanno vissuto solo due anni. Un bel giorno all’improvviso hanno fatto i bagagli e in quattro e quattr’otto se ne sono andati. Al loro posto è arrivato il signor Menshiki. La proprietà era praticamente nuova di zecca, e lui l’ha comprata cosí com’era. Cos’abbia portato a questa compravendita cosí improvvisa, non lo sa nessuno.
– Insomma, la casa non l’ha fatta costruire lui, – dissi.
– No. Si è infilato in una conchiglia che esisteva già. Un vero paguro.
Le sue parole mi sorpresero. Avevo sempre pensato che quella villa bianca in cima al versante della valle − forse perché si accordava tanto bene con i suoi capelli prodigiosamente bianchi − l’avesse fatta edificare Menshiki. Per me era tutt’uno con l’immagine di quel personaggio!
– Nessuno sa che lavoro faccia, – proseguí la mia amante. – L’unica cosa chiara è che non fa la vita del pendolare. Sta tutto il giorno chiuso in casa, forse a scambiare informazioni al computer. Pare che nel suo studio ci sia tutta una serie di apparecchi elettronici. Ormai, se si hanno le conoscenze tecnologiche necessarie, col computer si possono fare un sacco di cose. Fra i miei amici c’è un chirurgo che lavora sempre da casa. È un appassionato di surf e non si vuole allontanare dalla costa.
– Come fa a fare il chirurgo senza uscire di casa?
– Si fa mandare tutte le fotografie e le informazioni che riguardano il paziente, le analizza, crea il protocollo dell’intervento, lo spedisce a chi di dovere, monitorizza l’operazione su uno schermo e dà i consigli necessari. Ma può anche operare a distanza, da un computer, in interventi di chirurgia teleguidata. Funziona cosí.
– Viviamo in un’epoca davvero straordinaria, – dissi. – Personalmente però preferirei non essere operato col sistema del tuo conoscente.
– Molto probabile che il tuo Menshiki si dedichi a qualche attività su Internet, – aggiunse lei. – E di qualunque cosa si tratti, guadagna piú che a sufficienza. Vive solo in quella grande a casa e ogni tanto fa lunghi viaggi. Forse va all’estero. In casa ha una palestra equipaggiata con ogni sorta di apparecchi ginnici, quando ha tempo li usa per tenersi allenato. Non ha un filo di grasso addosso. Ascolta soprattutto musica classica, ha anche un magnifico auditorium. Uno stile di vita molto raffinato, non pensi?
– Ma tu come hai fatto a sapere tutte queste cose? – chiesi.
Lei rise.
– Ehi, sembra che tu sottovaluti la capacità di raccogliere informazioni che hanno le donne!
– Forse hai ragione, – ammisi.
– Ha quattro automobili. Due Jaguar, una Range Rover e una Mini Cooper. Pare che abbia un debole per la macchine inglesi, chissà perché.
– La Mini ormai l’ha comprata la Bmw, quanto alla Jaguar, credo che ora sia di proprietà di un’impresa indiana. Mi sembra che nessuna di queste due aziende automobilistiche si possa piú definire inglese.
– Lui usa una Mini vecchio modello. E la Jaguar, qualunque impresa la compri, è e sarà sempre inglese.
– Hai saputo qualcos’altro?
– Non va a trovarlo quasi nessuno. Dev’essere un uomo che non ama la compagnia. Gli piace stare solo, ascoltare musica classica, leggere. Benché sia celibe e ricco, non sembra che porti mai delle donne a casa. A giudicare dalle apparenze, conduce una vita molto semplice e sana. Può darsi che sia gay. Ma ci sono alcune ragioni per pensare che non sia cosí.
– Da qualche parte, allora, una ricca fonte di informazioni l’hai trovata!
– Fino a poco tempo fa una donna andava piú volte alla settimana a pulire la casa. Ora ha smesso, ma prima era lei a fare la spesa per il signor Menshiki in un supermercato della zona e a portare la spazzatura al centro di raccolta. È probabile che abbia scambiato qualche parola con le signore che abitano da quelle parti, fare due chiacchiere viene naturale.
– Già, – dissi. – È cosí che si mette in moto il tam-tam, nella giungla.
– A questo proposito, a sentire la donna che andava a fare le pulizie, nella villa del signor Menshiki c’è una stanza «che non si può aprire». Lui stesso le aveva vietato di entrarci. Rigorosamente vietato.
– Mi ricorda il castello di Barbablú.
– Esatto. D’altronde, si dice che ogni casa abbia il suo scheletro nell’armadio, no?
A quelle parole, mi venne in mente il quadro intitolato L’assassinio del Commendatore, rimasto a lungo nascosto nel sottotetto. Anche quello era una sorta di scheletro nell’armadio.
– Insomma, la domestica non è mai riuscita a capire cosa ci fosse in quella stanza, – proseguí la mia amante. – Perché la trovava sempre chiusa a chiave. Comunque sia, lei ormai a fare le pulizie lí non ci va piú. Forse è stata licenziata perché parlava troppo. Adesso fa tutto lui da solo, almeno cosí pare.
– Sí, mi ha detto che una volta alla settimana fa venire un’impresa di pulizie, ma, per il resto, dei lavori di casa se ne occupa lui stesso.
– Sembra un tipo piuttosto suscettibile, riguardo alla sua privacy.
– Già, ma a parte questo, non vorrei che i nostri incontri qui da me finissero sulla bocca di tutti, grazie al tuo tam-tam.
– No, non credo, – disse lei. – Prima di tutto, perché faccio molta attenzione per evitare che questo succeda. In secondo luogo, tu non sei proprio come il signor Menshiki…
– Cioè, mi stai dicendo che su di lui vale la pena di spettegolare, su di me no? – chiesi traducendo in parole povere.
– Be’, è una cosa di cui dobbiamo essere grati, – rispose lei ridendo.
Dopo la morte di mia sorella, molte cose iniziarono ad andare storto. L’azienda di lavorazione del metallo gestita da mio padre entrò in crisi, col risultato che lui, incalzato dalla necessità di far fronte alla situazione, non si faceva quasi vedere a casa. In famiglia l’atmosfera si fece pesante. Tutto era cosí diverso, quando era viva mia sorella! Al fine di mettere la maggior distanza possibile tra me e i miei genitori ridotti in quello stato, mi rifugiai nella pittura, dedicandomici anima e corpo. Alla fine del liceo decisi di entrare in un’Accademia di Belle arti. Mio padre non era d’accordo (i miei non avevano certo i mezzi per mantenere un artista) e litigammo aspramente; poi intervenne mia madre e alla fine bene o male potei iscrivermi. Il rapporto con mio padre però non lo ricucii mai.
Come sarebbero andate le cose, se mia sorella non fosse morta? A volte ci rifletto. Se lei fosse vissuta in buona salute, sono sicuro che la mia famiglia avrebbe continuato a condurre un’esistenza serena. La sua improvvisa scomparsa ebbe l’effetto di alterare rapidamente un equilibrio fino ad allora stabile. I miei genitori, praticamente senza rendersene conto, iniziarono a ferirsi reciprocamente. Ogni volta che ci ripenso, mi dico, con un profondo senso di impotenza, che non sono riuscito a colmare il vuoto lasciato da mia sorella.
Intanto, a poco a poco, smisi di disegnare il suo volto. Dopo essere entrato all’Accademia, di fronte a una tela bianca provavo un unico desiderio: dipingere un soggetto privo di un significato concreto. In una parola, un soggetto astratto. Un quadro astratto poteva simboleggiare qualsiasi cosa si volesse, e dall’intreccio tra un simbolo e l’altro nasceva un senso nuovo. Ero felice di entrare in un mondo che perseguiva questo genere di completezza. Perché in quel mondo per la prima volta potevo respirare liberamente, senza intralci.
Tuttavia, è ovvio, non era il genere di pittura che potesse procurarmi molto lavoro. Pur con il mio diploma dell’Accademia, limitandomi a creare opere astratte, prospettive di guadagno non ne avevo. Esattamente come aveva previsto mio padre. Di conseguenza per sbarcare il lunario (ormai avevo lasciato la casa dei miei genitori e dovevo pagarmi da solo vitto e alloggio), dovetti rinunciare alla pittura che mi era piú congeniale. Mi misi a dipingere quadri figurativi che riproducevano fedelmente le forme, e bene o male riuscii a mantenermi col solo lavoro di pittore.
Ora mi accingevo a fare il ritratto di un uomo che si chiamava Menshiki Wataru. Quello che viveva nella villa bianca lassú, dall’altra parte della valle. Un uomo enigmatico dai capelli candidi, sul quale nella zona si raccontavano tante cose. Una persona che si poteva a buona ragione definire molto interessante. Mi aveva incaricato, me fra tanti, di fargli il ritratto in cambio di una considerevole somma di denaro. Peccato che io avessi appena scoperto di non essere piú in grado di fare ritratti. Non sapevo piú dipingere un quadro che avesse un’utilità pratica. Mi ero completamente svuotato.
«Dovevamo andare a trovarla facendoci strada in silenzio fra l’erba verde e lussureggiante». Senza nessun motivo, all’improvviso mi tornarono in mente queste parole. Ecco, sí: se veramente ci fossi riuscito, sarebbe stato bellissimo.
1. È tradizione che i parenti del defunto, dopo la cremazione, ne raccolgano con apposite bacchette alcune ossa che vengono depositate in un’urna, mentre il resto delle ossa viene seppellito in una fossa comune nel giardino del tempio crematorio.