Capitolo ventitreesimo
Esistono tutti veramente, in questo mondo
qui
Quando io avevo tredici
anni e mia sorella dieci, durante le vacanze estive, avevamo
viaggiato da soli da Tōkyō fino alla prefettura di Yamanashi.
Eravamo andati a trovare nostro zio materno, che lavorava come
ricercatore presso l’università di quella regione. Era la prima
volta che facevamo un viaggio senza adulti. A quell’epoca mia
sorella stava abbastanza bene, quindi i nostri genitori ci avevano
dato il permesso.
Lo zio era giovane
(aveva appena compiuto trent’anni, mi sembra) e single (lo è
ancora). Studiava la trasmissione dei fattori genetici (la studia
ancora), era piuttosto taciturno e per certi versi un po’ fuori dal
mondo, ma era una persona sincera e schietta. Appassionato alle sue
ricerche, conosceva davvero tante cose sull’universo intero.
Adorava camminare in montagna. Era questo il principale motivo per
cui aveva accettato il posto presso l’università di Yamanashi. A
noi due quello zio piaceva molto.
Con gli zaini sulle
spalle, dalla stazione di Shinjuku prendemmo il semirapido per
Matsumoto e scendemmo a Kōfu. Lo zio ci attendeva alla stazione.
Dato che era molto alto, lo distinguemmo subito tra la folla.
Insieme a un amico aveva affittato una piccola casa nel centro
della città, ma il suo coinquilino in quel periodo era al mare e
aveva lasciato la sua camera a nostra disposizione. Restammo lí una
settimana. Ogni giorno facevamo escursioni a piedi sui monti della
zona insieme allo zio, che ci insegnava i nomi di fiori e insetti.
Conservammo di quel soggiorno un ricordo bellissimo.
In una di queste gite ci
spingemmo fino a esplorare una grotta. Una grotta abbastanza
grande, una delle tante che si aprono sulle pendici del monte Fuji.
Lo zio ci spiegò come si era formata. Ci disse che era composta di
basalto, quindi all’interno non si udiva l’eco. Che in altri tempi
la gente ci conservava i blocchi di ghiaccio tagliati durante
l’inverno, perché anche in piena estate la temperatura non saliva
piú di tanto. Che le grotte venivano chiamate «cavità» quando non
erano abbastanza spaziose perché ci entrasse una persona. Insomma,
sapeva tutto.
Quella grotta aveva
un’apertura sufficientemente grande perché una persona ci entrasse.
Lo zio non venne con noi. Ci era già stato diverse volte, inoltre,
essendo molto alto, all’interno doveva stare curvo a causa del
soffitto basso, e gli veniva subito mal di schiena. – Andate voi,
io vi aspetto qui e leggo, – ci disse, – tanto non correte alcun
pericolo. – All’ingresso un sorvegliante ci fece mettere un casco
giallo di plastica e ci diede una torcia elettrica ciascuno. In
realtà nella grotta erano appese delle lampade, ma facevano
pochissima luce. Man mano che si avanzava, il soffitto si faceva
sempre piú basso. Niente di strano che lo zio fosse rimasto
fuori.
Mia sorella e io ci
inoltrammo verso il fondo, illuminando il terreno ai nostri piedi.
Nonostante fossimo nel bel mezzo della calura estiva, lí dentro si
gelava. La temperatura non doveva superare i dieci gradi, mentre
all’esterno ce n’erano trentadue. Seguendo il consiglio dello zio,
infilammo le spesse giacche a vento che ci eravamo portati. Mia
sorella non mollava la mia mano nemmeno per un secondo. Non capivo
se cercasse protezione, o se al contrario volesse difendermi da
qualcosa (forse cercava soltanto di evitare che ci separassimo),
comunque per tutto il tempo tenni la sua piccola mano calda nella
mia. Insieme a noi c’erano altri due visitatori, una coppia di
mezz’età. Ma uscirono subito, cosí restammo soli.
Il nome di mia sorella
era Komichi. In famiglia tutti la chiamavamo Komi. Gli amici, Michi
o Micchan. Col suo nome intero, che io sappia, non la chiamava
nessuno. Era una ragazzina snella, piccolina. I capelli neri e
lisci, ben tagliati, le arrivavano appena al di sopra della nuca.
Gli occhi erano grandi rispetto al viso (e anche le iridi), cosa
che le dava l’aria di una fatina. Quel giorno portava una maglietta
bianca, jeans azzurri sbiaditi e scarpe da ginnastica
rosa.
A un certo punto, mentre
procedevamo all’interno della grotta, mia sorella notò una buca
laterale, un poco discosta dal percorso stabilito. Si apriva dietro
una roccia, come se volesse celarsi. Questo bastò a suscitare il
suo interesse.
– Ehi, non ti ricorda la
buca di Alice? – mi chiese.
Lei adorava
Alice nel paese delle meraviglie
di Lewis Carroll. Non so quante volte mi
aveva chiesto di leggerglielo. Forse un centinaio. Naturalmente
andava a scuola e conosceva benissimo gli ideogrammi del testo, ma
le piaceva sentirmi leggere quella storia ad alta voce. Ormai la
conosceva a memoria, eppure ogni volta ne restava affascinata. Le
piaceva soprattutto la parte che parlava della quadriglia delle
aragoste. Ancora adesso la ricordo perfettamente, parola per
parola.
– Non credo che dentro
ci sia un coniglio, però, – le dissi.
– Voglio darci
un’occhiata.
– Fai attenzione, mi
raccomando.
Era veramente un
anfratto (una cavità, avrebbe detto lo zio), ma mia sorella, snella
com’era, ci si infilò senza difficoltà. Vi entrò con tutto il
busto, lasciando fuori solo le gambe dal ginocchio in giú. Con la
torcia elettrica cercò di illuminare il fondo del cunicolo. Poi
scivolò lentamente all’indietro e uscí.
– È molto profondo, – mi
annunciò. – Scende verso il basso. Come la tana del coniglio di
Alice. Voglio vedere cosa c’è là in fondo.
– Non ci pensare
neanche! È troppo pericoloso! – le dissi.
– Figurati, quale
pericolo? Sono piccola, io, sguscio come niente.
Cosí dicendo mia sorella
si tolse la giacca a vento e il casco, me li porse, e prima che io
potessi dire o fare qualcosa per fermarla, si infilò agilmente nel
cunicolo, la torcia elettrica in mano. In un attimo era
sparita.
Il tempo passava, e mia
sorella non usciva. Né si faceva sentire: nulla, nemmeno un
suono.
– Komi? – la chiamai
alla fine, rivolto verso l’apertura. – Tutto bene,
Komi?
Nessuna risposta. La mia
voce non produceva eco, veniva inghiottita dal buio. Cominciai ad
essere in ansia, sempre di piú. Temevo che fosse rimasta bloccata
là dentro, senza la possibilità di muoversi né in avanti né
all’indietro. O che in fondo alla buca le fosse successo qualcosa,
una crisi che le aveva fatto perdere i sensi. In tal caso, non
avrei avuto modo di aiutarla a venire fuori. Nella mia mente si
avvicendavano le possibilità piú tragiche. Le tenebre andavano
stringendosi intorno a me.
Se mia sorella fosse
scomparsa in quell’anfratto, se non fosse piú tornata su, come
avrei potuto giustificarmi con i miei genitori? Dovevo andare a
chiamare lo zio rimasto all’uscita? Oppure restare lí e attendere
che Komi tornasse su? Mi piegai per guardare dentro il cunicolo. La
luce della mia torcia non arrivava fino in fondo. L’apertura era
strettissima, all’interno il buio opprimente.
– Komi! – chiamai di
nuovo. Nessuna risposta. – Komi!! – ripetei, piú forte. Stesso
risultato. Il mio corpo era percorso da brividi freddi, mi sentivo
gelare fin nelle ossa. Forse avevo perso mia sorella per sempre.
Era scomparsa, inghiottita dalla buca di Alice. Passata nel mondo
della Finta Tartaruga, dello Stregatto e della Regina di Cuori.
Dove non valeva la logica del mondo reale. Non saremmo mai dovuti
entrare in quel posto.
Invece a un certo punto
mia sorella tornò. Non scivolò all’indietro, nella stessa posizione
in cui era entrata, ma sgusciò fuori a partire dalla testa,
strisciando sul terreno. Nell’apertura apparvero i suoi capelli
neri, poi le spalle, poi il petto; uscirono il bacino, le gambe,
infine i piedi nelle loro scarpe da ginnastica rosa. Lei si tirò su
davanti a me, senza dire nulla, si raddrizzò bene, respirò a fondo
e si spazzolò con le mani la polvere rimasta attaccata ai
jeans.
Avevo il cuore in gola.
Protesi una mano e le sistemai i capelli spettinati. Alla debole
luce che illuminava la grotta non vedevo bene, ma anche la sua
T-shirt bianca sembrava sporca di terra, fango o non so cosa.
L’aiutai a mettere la giacca a vento e il casco giallo che mi aveva
affidato.
– Pensavo che non
tornassi piú, – le dissi dandole qualche pacca.
– Eri
preoccupato?
– Sí, da
morire!
Komi strinse di nuovo la
mia mano. Poi, con una strana voce eccitata, disse:
– C’è uno stretto
cunicolo, che a un certo punto scende verso il basso. Si fatica un
po’, ma, se si riesce a passare, si arriva in una specie di
stanzetta, giú in fondo. Pensa che è perfettamente rotonda. Come
una palla. Anche il tetto è rotondo, e le pareti, il suolo, tutto!
Ed è un posto cosí tranquillo, silenzioso… non credo che esista un
altro posto al mondo dove ci sia tanta pace. Sembra di stare in una
cavità giú giú in fondo al mare. Quando ho spento la torcia era
tutto buio, ma non avevo paura, sai? E non mi sentivo sola. E poi…
be’, quella è una stanza speciale, dove solo io ho il permesso di
entrare. Una stanza tutta per me, solo per me. Nessun altro ci può
andare. Nemmeno tu.
– Ci credo, io sono
troppo grande.
Mia sorella fece sí con
la testa.
– Infatti. Sei troppo
grande per passare in quel cunicolo. Ma la cosa piú straordinaria,
lí dentro, è che fa talmente buio, che piú buio di cosí non si può.
Quando spegni la luce, le tenebre sono cosí spesse, ma cosí spesse,
che hai l’impressione di poterle toccare con la mano. E a stare da
sola in quelle tenebre, senti che il tuo corpo poco per volta si
scioglie e scompare. Ma nel buio non lo puoi vedere. Cosí non
capisci piú se un corpo ce l’hai o non ce l’hai. Però, sai, anche
se fossi sparita del tutto, io sarei sempre rimasta lí. Come il
sorriso dello Stregatto, che resta anche quando lui non c’è piú. È
pazzesco, vero? Lí dentro, però, non ti sembra una cosa strana.
Avrei voluto restarci per sempre, ma temevo che tu stessi in ansia
per me, allora sono uscita.
– Andiamo fuori di qui,
– dissi. Mia sorella era cosí eccitata che non accennava a smettere
di parlare, e dovevo fermarla. – Non riesco a respirare bene, in
questa grotta.
– Tutto a posto? – mi
chiese preoccupata.
– Sí, tutto bene. Ma non
voglio piú stare qui dentro.
Tenendoci per mano, ci
avviammo verso l’uscita.
– La sai una cosa? – mi
disse Komi mentre camminavamo. A bassa voce, come se non volesse
farsi sentire da nessun altro, anche se in pratica eravamo soli. –
Alice esiste davvero. Sul serio, non me lo sto inventando. Alice,
il Bianconiglio, lo Stregatto, il Tricheco, l’esercito di carte da
gioco… ci sono davvero. Esistono tutti veramente, in questo mondo
qui.
– Sí, può darsi… –
risposi.
Uscimmo dalla grotta,
tornammo nel mondo luminoso e reale. Nonostante quel pomeriggio il
cielo fosse velato, restammo abbagliati dalla luce del sole. Il
verso delle cicale riempiva l’aria col fragore di una burrasca. Lo
zio, seduto su una panchina vicino all’ingresso della grotta, era
assorto nella lettura del suo libro. Quando ci vide sorrise e si
alzò.
Mia sorella morí due
anni dopo. Venne messa in una piccola bara e cremata. All’epoca io
avevo quindici anni, lei dodici. Durante la cremazione mi
allontanai dagli altri e andai a sedermi nel giardino del tempio.
Pensavo a quella volta nella grotta. Ai lunghi e opprimenti minuti
durante i quali avevo atteso, davanti a quella piccola buca
laterale, che Komi tornasse fuori. Alla densità del buio che mi
aveva avvolto nella grotta, al freddo che mi aveva gelato le ossa.
Al momento in cui avevo visto riapparire i capelli neri di mia
sorella, poi lentamente le spalle. Alla maglietta che indossava e a
tante altre cose senza senso.
In quel giardino, nel
tempio, mi ero detto che Komi aveva lasciato la sua vita in fondo a
quella buca, due anni prima che il medico di un ospedale
constatasse ufficialmente la sua morte. Ne ero sicuro. Da quel
giorno non era piú appartenuta a questo mondo. Né io né nessun
altro ce ne eravamo accorti. Tenendola stretta per mano, avevo
preso il treno insieme a lei ed ero tornato a Tōkyō. Avevamo
passato insieme i due anni seguenti, da bravi fratelli. Ma era
stata soltanto un’effimera proroga del tempo concessoci. Finché la
morte era strisciata fuori da quella buca per venire a riprendersi
mia sorella. Come un legittimo proprietario che viene a riprendersi
una cosa imprestata, quando scade il tempo pattuito.
In ogni caso, quello che
Komi mi aveva detto a bassa voce nella grotta, come se mi facesse
una rivelazione, era vero. Lo pensavo ancora, a trentasei anni
suonati. Al mondo esistevano Alice, e il Bianconiglio, e il
Tricheco e lo Stregatto. E il Commendatore,
naturalmente.
Contrariamente alle
previsioni meteo, non ci fu nessuna pioggia torrenziale. Dopo le
cinque iniziò a cadere una pioggerellina quasi impercettibile che
continuò senza variazioni d’intensità fino al mattino. Alle sei in
punto una grossa berlina nera arrivò, lenta e silenziosa, su dalla
strada. A me parve un carro funebre, ma non lo era, ovviamente, era
la macchina che Menshiki aveva mandato a prendermi. Una Nissan
Infinity. Ne scese un autista in uniforme scura e berretto che
venne a suonare alla porta d’ingresso, l’ombrello in mano. Quando
gli aprii, si tolse il berretto e mi chiese se fossi il signor Tal
dei Tali. Uscii e salii in macchina, declinando l’offerta
dell’ombrello. Non pioveva tanto forte da renderlo necessario.
L’autista tenne aperta per me la portiera posteriore, poi la
richiuse. Nel chiudersi, la portiera fece un rumore sordo (un po’
diverso da quello della Jaguar di Menshiki). Avevo messo una
leggera maglia nera girocollo, una giacca grigia di tweed a spina
di pesce, dei pantaloni di lana grigio scuro e delle scarpe
scamosciate nere. Erano gli abiti piú formali che possedessi. Per
lo meno non erano sporchi di pittura.
La macchina era
arrivata, ma il Commendatore non si faceva vedere. Né sentire.
Ricordava che quella sera era invitato a cena da Menshiki? Non
avevo modo di verificarlo. Però mi era parso tanto felice, di
quell’invito, tanto eccitato, che era difficile immaginare che se
lo fosse scordato.
Mi ero preoccupato per
lui inutilmente. Appena la macchina si mosse, mi accorsi che era
seduto di fianco a me, l’aria disinvolta. Con la stessa veste
bianca addosso (immacolata, neanche l’avesse appena ritirata dalla
tintoria), la stessa spada con l’elsa decorata al fianco. La sua
altezza non era variata, era sempre una sessantina di centimetri.
Sul sedile di pelle nera dell’Infinity, la sua veste candida e
pulita spiccava. Teneva le braccia conserte e guardava davanti a
sé.
– Non mi dovete
assolutamente parlare, – mi ammoní. – Perché siete il solo a
vedermi. Siete anche il solo a udirmi. E se vi mettete a parlare a
una persona che nessun altro vede o sente, vi prenderanno per
pazzo. Sono stato chiaro? Se avete capito, fate un piccolissimo
cenno col capo.
Annuii
impercettibilmente, il Commendatore fece altrettanto in risposta.
Poi non disse piú una parola, restò immobile a braccia
conserte.
Ormai era buio. I corvi
dovevano essersi già ritirati nei nidi sui monti. L’Infinity
percorse lentamente la discesa, prese la strada che seguiva il
fondovalle, quindi imboccò una ripida salita. La distanza non era
molta (in fin dei conti si trattava solo di andare dall’altra parte
della valle), ma la strada era relativamente stretta e aveva molte
curve. Non il genere di strada che uno è felice di percorrere
guidando una grossa berlina nera − un furgone con quattro ruote
motrici sarebbe stato ben piú adatto − ma l’autista procedeva
tranquillo, impassibile, le mani saldamente sul volante, e mi
condusse sano e salvo fino alla casa di Menshiki, davanti alla
quale si fermò.
La villa era circondata
da un alto muro bianco, provvisto di un robusto portone a due
battenti. Un portone di legno marrone scuro che mi ricordava quello
dei castelli medioevali nei film di Kurosawa. Immaginai delle
frecce infilzate nel legno, non sarebbero state fuori luogo.
Dall’esterno non si vedeva nulla. Accanto al portone era indicato
il numero civico, ma niente targa col nome. Probabilmente non ce
n’era bisogno. Chiunque venisse apposta fin lassú, di sicuro sapeva
già che quella era la casa di Menshiki. Lampade al mercurio
illuminavano la zona davanti all’ingresso. L’autista scese dalla
macchina, suonò il campanello, scambiò qualche parola al citofono
con la persona all’interno. Poi tornò a sedersi al volante e attese
che il portone si aprisse, azionato da un comando a
distanza.
Quando i battenti
ruotarono lentamente verso l’interno, la macchina entrò e seguí un
viottolo tortuoso, leggermente in discesa, che attraversava il
giardino. Udii i battenti richiudersi alle nostre spalle. Un rumore
sinistro, carico di implicazioni, che sembrava dirmi: «Ormai non
puoi piú tornare nel tuo mondo». A destra e a sinistra vidi
parecchi pini matsu, molto curati. I rami, potati con l’attenzione che di
solito si riserva ai bonsai, erano bellissimi. Ai due lati del
viottolo si susseguivano ordinate siepi di azalee, dietro le quali
si intravedevano rose kerria
gialle. C’erano anche aiuole di camelie. La
casa era nuova, ma il giardino era sicuramente il risultato del
lavoro di lunghi anni. Delle belle lanterne lo illuminavano con
discrezione.
Il viottolo terminava in
uno slargo rotondo, asfaltato. L’autista fermò la macchina lí,
scese svelto e venne ad aprirmi la portiera. Accanto a me, sul
sedile, il Commendatore non c’era piú. La cosa non mi stupí, né mi
inquietò. Lui aveva modi tutti suoi di comportarsi.
Le luci posteriori
dell’Infinity si allontanarono lentamente nell’oscurità, e io
rimasi solo. Vista da vicino, la casa sembrava molto piú
accogliente di quanto avessi immaginato. Quando la guardavo
dall’altra parte della valle, la trovavo soprattutto appariscente,
ma ora, osservandola da un’altra prospettiva, l’effetto era
diverso. Il portone nel muro di cinta era il punto piú alto, da lí
il terreno scendeva in un dolce pendio, sul quale la casa era stata
costruita sfruttando con maestria il dislivello.
A destra e a sinistra
della porta c’erano due statue antiche, con tanto di piedistallo,
simili ai cani di pietra ai lati dell’ingresso dei templi
shintoisti. Probabilmente erano autentiche, portate lí da chissà
dove. Anche davanti all’ingresso c’erano siepi di azalee. In
maggio, nel periodo della fioritura, quel giardino doveva essere
una meraviglia di colori.
Mentre camminavo
lentamente verso la porta, questa si aprí dall’interno e sulla
soglia comparve Menshiki. In camicia bianca, cardigan verde scuro e
pantaloni di cotone color panna. I suoi magnifici capelli erano
perfettamente tagliati e pettinati, come sempre, con un effetto
naturale. Vedere Menshiki venirmi incontro, a casa sua, mi faceva
uno strano effetto. Fino ad allora ero sempre stato io ad
accogliere lui, quando arrivava sulla sua reboante
Jaguar.
Mi invitò a entrare e
richiuse la porta. L’ingresso quadrato era vasto, il soffitto alto.
Avrebbe potuto ospitare un campo da squash. Nel mezzo c’era un
grande tavolo ottagonale di legno, sul quale era collocato un
enorme vaso, probabilmente della dinastia Ming, pieno di fiori
freschi e turgidi (non intendendomi di botanica, ne ignoravo i
nomi); grandi corolle di tre tinte accostate in una bella
composizione. Forse l’aveva fatta fare appositamente per quella
serata, spendendo dal fioraio una somma che a uno studente senza
molte pretese sarebbe bastata per tirare avanti un mese. Ai miei
tempi, per lo meno, a noi studenti sarebbe stata piú che
sufficiente per mettere insieme il pranzo con la cena.
Nell’ingresso non c’erano finestre. Solo dei lucernari sul
soffitto. Le applique alle pareti rischiaravano la stanza di luce
indiretta, il pavimento era di marmo, tirato a lucido.
Dall’ingresso si entrava
in salotto scendendo tre larghi gradini. Una stanza immensa. Non
dico che ci sarebbe stato un campo da calcio, ma da tennis forse
sí. La parete a sud-est era tutta una vetrata azzurrina, al di là
della quale si estendeva una grande terrazza. A quell’ora della
sera non capivo se si vedesse anche il mare, ma avrei scommesso di
sí. Sulla parete opposta si apriva un grande camino. Non faceva
ancora abbastanza freddo per doverlo usare, ma a fianco era già
pronta una bella catasta di legna, in modo da poter accendere il
fuoco in qualsiasi momento. Non so chi fosse l’artefice di quella
catasta, ma aveva fatto davvero un bel lavoro, direi quasi
artistico. Sulla mensola del camino c’era una fila ordinata di
antiche statuine in porcellana di Meissen.
Anche il pavimento del
salotto era in marmo, ma quasi interamente coperto di tappeti.
Tappeti persiani, vere opere d’arte, piú che oggetti di
arredamento, per la finezza dei motivi e l’accostamento dei colori.
Esitavo quasi a calpestarli. Qua e là c’erano tavolini bassi con
vasi pieni di fiori. Fiori freschissimi, naturalmente. Quanto ai
vasi, dovevano essere tutti antichi e preziosi. Un gusto squisito.
E una montagna di soldi spesi. C’era davvero da augurarsi che non
arrivasse mai un terremoto!
Il soffitto era molto
alto, l’illuminazione discreta. Belle applique alle pareti, diverse
lampade a piede, una lampada da scrittoio su un tavolo,
nient’altro. In fondo alla stanza, nell’ombra, c’era un piano a
coda. Era la prima volta in vita mia che vedevo una sala tanto
grande, al punto che uno Steinway da concerto quasi vi sfigurava.
Sul pianoforte c’era un metronomo, e una pila di spartiti. Forse a
suonarlo era Menshiki. Oppure ogni tanto invitava a cena Maurizio
Pollini.
Nel complesso, tuttavia,
l’arredamento non era vistoso e mi rassicurò. Lo spazio non era
ingombro di oggetti superflui, e nemmeno dava un’impressione di
vuoto. Per essere cosí vasto, quel salotto aveva un’atmosfera di
intimità sorprendente. Un suo calore. Alle pareti erano appesi una
mezza dozzina di piccoli quadri di buon gusto, collocati con
eleganza. Uno di questi sembrava un autentico Léger. Ma potevo
anche sbagliarmi.
Menshiki mi invitò a
sedermi su un grande divano di pelle marrone. Lui prese posto sulla
poltrona di fronte. Il divano era comodissimo, né troppo soffice,
né troppo rigido. Creato in modo da accogliere con naturalezza la
forma del corpo della persona che vi stava seduta, qualunque
persona, indifferentemente. Ma di cosa mi stupivo? A pensarci bene
(e non c’era nemmeno bisogno di pensarci tanto), Menshiki non
avrebbe mai messo in casa sua un divano che non fosse la
quintessenza della comodità.
Appena ci sedemmo, come
se non avesse atteso che quel segnale, un uomo fece la sua
comparsa. Un giovane sorprendentemente bello. Non era molto alto,
però era elegante e snello. Aveva una carnagione piuttosto scura, e
folti capelli legati dietro la nuca. Se avesse indossato dei
pantaloncini da surf, me lo sarei visto benissimo su una spiaggia
con la sua brava tavola sotto il braccio, ma quella sera portava
una camicia bianca e un cravattino nero a farfalla. E sulla bocca
aveva un sorriso affabile.
– Il signore desidera un
cocktail? – mi domandò.
– Prego, prenda
qualunque cosa desideri, – rincarò Menshiki.
– Un balalaika, – dissi
dopo qualche esitazione. Non che avessi particolarmente voglia di
bere un balalaika, ma volevo capire se quel tipo era davvero in
grado di preparare qualsiasi tipo di cocktail.
– La stessa cosa per me,
– disse Menshiki.
Sempre con l’amabile
sorriso sulle labbra, il giovane si ritirò in
silenzio.
Gettai un’occhiata
accanto a me: sul divano il Commendatore non c’era. Ma era in
quella casa, da qualche parte, ne ero sicuro. Non era forse venuto
fin lí con me, nella stessa macchina?
– C’è qualcosa che…? –
chiese Menshiki. Doveva aver notato il movimento dei miei
occhi.
– No, no, assolutamente
nulla, – gli risposi. – Davvero una casa magnifica. Sono
incantato.
– Non la trova un po’
troppo vistosa? – fece lui, con l’accenno di un
sorriso.
– Per niente. Molto piú
sobria di quanto avessi immaginato, – gli confessai. – Da lontano,
se posso permettermi di parlare sinceramente, è vero che sembra un
pochino sfarzosa. Ricorda quei transatlantici di lusso che solcano
gli oceani. Entrando, invece, sono rimasto sorpreso da tanto garbo,
è rassicurante. Molto diverso da quanto mi aspettavo.
Menshiki fece un cenno
di approvazione.
– Nulla potrebbe farmi
piú piacere di questo suo giudizio, perché arrivare a questo
risultato non è stato facile, tutt’altro. Le circostanze hanno
voluto che abbia comprato questa casa quando era già terminata, e
in effetti era piuttosto vistosa. Diciamo pure pacchiana. L’aveva
fatta costruire il proprietario di certi grandi magazzini e l’aveva
concepita col gusto dell’arricchito. Insomma, terribile. E comunque
non il mio, di gusto, anzi. Quindi ho dovuto far fare un bel po’ di
lavori. Ci sono voluti tempo, impegno, denaro…
Ricordando quel periodo,
Menshiki socchiuse gli occhi e sospirò. Sembrava ancora
sconcertato.
– Non sarebbe stato
molto piú semplice far costruire una casa come la voleva lei? Fin
dall’inizio? – gli chiesi.
Sorrise. Tra le sue
labbra si intravide il bianco dei denti.
– Ha ragione. Sarebbe
stato piú sensato. Anch’io però avevo i miei motivi. La casa doveva
essere questa.
Attesi che continuasse.
Lui però lasciò cadere il discorso.
– Il Commendatore non è
venuto con lei? – mi domandò.
– Credo che si farà
vedere piú tardi. È arrivato con me fin qui, davanti all’ingresso,
poi all’improvviso è scomparso. Forse sta facendo un giro per la
casa, ammirando tutti gli splendidi oggetti che contiene. Spero che
non le dispiaccia.
– Ma no, si figuri! –
fece Menshiki. – Non mi dà alcun fastidio. Il Commendatore può
guardare tutto quello che vuole!
Entrò il giovane di
prima a portarci i nostri cocktail. Su un vassoio d’argento erano
posati due bicchieri di cristallo cesellato, forse di Baccarat.
Colpiti dalla luce della lampada a piede, sfolgoravano. Accanto ai
bicchieri, in piatti di porcellana Ko-imari, c’erano pezzi di
formaggio di vari tipi e anacardi. Poi forchette e coltelli
d’argento, tovagliolini di lino con le iniziali ricamate.
Un’accuratezza straordinaria.
I bicchieri in mano,
Menshiki e io brindammo. Lui si congratulò con me per aver
terminato il ritratto, io lo ringraziai. Portai il bicchiere alle
labbra. Il balalaika è un cocktail composto di vodka, Cointreau e
succo di limone. È semplice da preparare, ma deve essere servito
freddissimo, per essere buono. Se il barman non è bravo, lo fa
diventare acquoso. Questo invece era squisito, un gelo pungente,
quasi la perfezione.
– Ottimo cocktail, –
dissi convinto.
– Sí, il ragazzo se la
cava piuttosto bene, – riconobbe con noncuranza
Menshiki.
Ovvio, pensai. C’era
forse da dubitarne? Lui non si sarebbe mai servito di un barman
mediocre, di qualcuno che non desse per scontato tenere pronti
Cointreau, antichi bicchieri da cocktail di cristallo e piatti di
porcellana Ko-imari.
Bevendo e mangiucchiando
anacardi, discorremmo di varie cose. Fui soprattutto io a parlare,
di pittura. Menshiki mi chiese del quadro che stavo dipingendo in
quel momento. Gli dissi che stavo facendo il ritratto di un uomo
che avevo incontrato tempo prima in una città lontana da lí, un
tipo di cui non sapevo né il nome né nulla.
– ll ritratto? – chiese
Menshiki. Sembrava stupito.
– Be’, si fa per dire.
Non è un’opera commerciale. È una raffigurazione astratta che
realizzo seguendo la mia ispirazione. Comunque, sí,
fondamentalmente potremmo dire che si tratta di un
ritratto.
– Sul genere di quello
che ha fatto a me?
– Proprio cosí. La
differenza è che questa volta nessuno me l’ha commissionato. Lo
faccio di mia iniziativa.
Menshiki rifletté un
momento su quello che gli avevo appena detto.
– Aver raffigurato me,
insomma, in qualche modo è servito per ritrovare l’ispirazione.
Dico bene?
– Sí, può darsi che sia
vero. Anche se per il momento sono solo all’inizio.
Menshiki bevve un sorso
dal suo bicchiere. In fondo ai suoi occhi brillava una luce
compiaciuta.
– Questa per me è una
grande gioia. Il fatto di esserle stato di qualche utilità, voglio
dire. Quando lo avrà terminato, quel quadro, mi piacerebbe vederlo.
Sarà possibile?
– Se il risultato mi
convincerà, con piacere, è ovvio.
Voltai la testa a
guardare il piano a coda in fondo alla stanza.
– È lei che lo suona,
signor Menshiki? – gli chiesi. – È un pianoforte
magnifico.
Lui fece un piccolo
cenno affermativo col capo.
– Sí, strimpello un po’,
ma non sono bravo, – rispose. – Ho imparato da bambino con un
insegnante privato. Per cinque o sei anni, quando frequentavo le
elementari. Dalle medie in poi avevo troppo da studiare per la
scuola, e ho smesso. Avrei voluto continuare, ma non ce la facevo a
esercitarmi anche al piano, era diventato troppo faticoso. Quindi
le mie dita non si muovono come vorrei. Gli spartiti però li leggo
piuttosto bene. Ogni tanto, per rilassarmi e rinfrancare lo
spirito, suono qualche pezzo semplice, cosí, per mio piacere. Ma
non mi sognerei mai di farlo davanti a degli ospiti. Se in casa c’è
qualcuno non tocco la tastiera.
A quel punto gli chiesi
una cosa che mi incuriosiva già da tempo.
– Scusi, ma non si sente
mai un po’ sperso, a vivere solo in questa casa? Non le sembra
troppo grande?
– No, affatto, – rispose
senza esitare Menshiki. – Non la trovo affatto troppo grande. E a
me stare solo piace. D’altronde, provi a pensare alla corteccia
cerebrale. Noi esseri umani siamo dotati di una corteccia cerebrale
meravigliosa per efficacia e finezza. Nella vita quotidiana, però,
in pratica ne usiamo al massimo il dieci per cento. Il cielo ci ha
fatto questo regalo meraviglioso, ci ha dotati di questo strumento
straordinario, ma purtroppo sappiamo servircene in modo molto
limitato. È come se una famiglia di quattro persone vivesse in una
villa principesca, ma stesse sempre ammucchiata in una modesta
cameretta di pochi metri quadri. Senza mai metter piede nelle altre
stanze. Se ci pensa, non dovrebbe sembrarle tanto strano che io
abiti solo in questa casa.
– Sí, ora che me lo fa
notare, forse ha ragione lei, – ammisi. Era un paragone
interessante.
Menshiki fece rotolare
un anacardio sul palmo della mano.
– Tuttavia, se non fosse
per quella efficientissima corteccia cerebrale in apparenza
inutile, – proseguí, – noi non potremmo fare operazioni mentali
astratte, né entrare nel territorio della metafisica. Invece siamo
in grado di farlo anche usandone solo una parte. Pensi di cosa
saremmo capaci, se la usassimo interamente? Una prospettiva
affascinante, non trova?
– Sí, ma in cambio del
possesso di una corteccia cerebrale tanto efficace, della splendida
dimora per usare la sua similitudine, il genere umano deve
rinunciare a diverse capacità fondamentali. Giusto?
– Ha ragione. Per
vincere la lotta per la sopravvivenza, l’uomo non avrebbe bisogno
di fare operazioni mentali astratte o conoscere la metafisica,
nemmeno nella quotidianità. Basterebbe che sapesse stare ben saldo
sulle gambe e usare un bastone. Invece, in cambio di quel
potenziale inusato del nostro cervello, abbiamo inevitabilmente
perso molte facoltà piú pratiche. Ad esempio, un cane è dotato di
un udito e di un olfatto migliaia di volte piú acuti di quelli di
un uomo. Noi però possiamo immaginare cose, fare ipotesi, comparare
macro e microcosmo, apprezzare Van Gogh e Mozart. Leggere Proust
(se siamo in grado di farlo, s’intende), collezionare porcellane
Ko-imari e tappeti persiani. Un cane non può.
– Proust non aveva certo
l’olfatto di un cane, ma servendosi abilmente del proprio fiuto ha
scritto un’opera gigantesca.
Menshiki
rise.
– È vero. Le mie sono
soltanto considerazioni di ordine generale.
– In ultima analisi, la
vera domanda è se si possa considerare un’idea qualcosa di autonomo
o meno.
– Proprio
cosí.
«Proprio cosí», mi
sussurrò all’orecchio il Commendatore. Memore del suo avvertimento,
non mi guardai attorno.
Menshiki mi condusse nel
suo studio. Dal salotto bastava scendere alcuni larghi gradini −
costruiti in modo da fare ancora parte della stanza − per arrivare
in un corridoio, lungo il quale si susseguivano alcune camere da
letto (non le contai, ma una di queste doveva essere la famosa
«stanza segreta di Barbablú», chiusa a chiave, di cui mi aveva
parlato la mia amante). Il corridoio terminava davanti alla porta
dello studio. Una stanza non molto grande, ma nemmeno piccola,
naturalmente, concepita in modo che lo spazio fosse esattamente
quello giusto. Le finestre erano costituite da una fila di aperture
lunghe e strette su una parete, in alto, vicino al soffitto. Da lí
si vedevano solo i rami dei pini, e il cielo tra gli aghi (a quanto
pareva, nello studio luce e vista non erano considerati necessari).
Questa soluzione lasciava libere le pareti. Una era occupata per
tutta l’altezza da una biblioteca fabbricata su misura, una parte
della quale era suddivisa in scaffali che ospitavano una collezione
di cd. Il resto era costituito da ripiani carichi di libri,
disposti in file compatte. Per accedere ai ripiani piú alti c’era
una scaletta in legno. I libri non erano lí solo per fare scena,
sembrava che fossero stati letti. Chiunque avrebbe immediatamente
capito che quella era la collezione di un fervido
lettore.
Su una grande scrivania
da ufficio, nel centro di una parete, c’erano due computer, uno
normale e uno portatile. Diversi vasetti contenenti penne e matite,
alcuni documenti disposti in pile ordinate. A un altro muro era
addossato un magnifico impianto stereo. Le casse, lunghe e strette,
si trovavano dalla parte opposta, di fronte alla scrivania.
Elegantemente rivestite di mogano, erano alte quanto me (sono un
metro e settantatre). Una poltrona dal design moderno era collocata
nel centro della stanza, per leggere o ascoltare la musica.
Accanto, una lampada a piede in acciaio inossidabile. Immaginai che
Menshiki trascorresse gran parte della giornata in quello
studio.
Il ritratto che gli
avevo fatto io era appeso a una parete, fra le due casse dello
stereo. Esattamente nel mezzo, piú o meno all’altezza degli occhi.
Il quadro non era ancora incorniciato, ma si inseriva
nell’atmosfera della stanza con naturalezza, come se fosse lí da
sempre. L’avevo dipinto con vigore, di getto, e con la sua
stravaganza dava a quello studio un sorprendente tocco di
raffinatezza. Inoltre celava in sé, senza possibilità di dubbio, il
viso di Menshiki. Era come se Menshiki ci fosse entrato dentro, ai
miei occhi, almeno.
Quel quadro l’avevo
dipinto io, d’accordo. Eppure si era staccato da me, era diventato
una proprietà di Menshiki, e adesso che era appeso a una parete del
suo studio, non potevo piú toccarlo. Ormai era suo, non mio. Se per
qualche motivo avessi voluto prenderlo, sarebbe scivolato via dalle
mie mani guizzando come un pesce. Mi faceva l’effetto di una donna
che un tempo era stata mia, ma ormai era di un altro…
– Cosa ne pensa? Sta
d’incanto qui, non trova? – Menshiki parlava del ritratto,
ovviamente. Io mi limitai ad annuire in silenzio.
– Ho provato a metterlo
in altre stanze, su altre pareti, – proseguí lui. – Alla fine però
ho capito che il suo posto era questo. Lo spazio a disposizione, la
luce… tutto è perfetto. Adoro guardarlo da quella
poltrona.
– Posso provare anch’io?
– chiesi.
– Naturalmente. Si
accomodi pure.
Mi sedetti sulla
poltrona di pelle, mi appoggiai allo schienale che disegnava una
leggera curva, posai i gomiti sui braccioli. Incrociai le mani sul
petto. E ancora una volta osservai attentamente il quadro. Menshiki
aveva ragione, mi trovavo nel punto ideale per apprezzarlo. Vista
da quella poltrona (comodissima, perfetta), la mia opera, appesa
alla parete di fronte a me, rivelava una quieta forza di
persuasione che mi coglieva di sorpresa. Non era piú quella che
avevo dipinto io nel mio atelier. Sembrava quasi che… ecco,
sembrava che arrivando in quel posto avesse trovato una nuova,
autentica vita. E non avrebbe permesso a me, che ero il suo
creatore, di avvicinarmi oltre.
Servendosi di un
telecomando, Menshiki fece partire la musica a basso volume. Il
Quartetto Rosamunde
di Schubert, che avevo già ascoltato a casa
mia. Il suono che usciva da quelle casse era pulito, nitido,
depurato. Rispetto a quello semplice e rozzo delle casse di Amada
Tomohiko, faceva un effetto del tutto diverso.
Tutt’a un tratto, mi
accorsi che nella stanza c’era il Commendatore! Si era seduto sulla
scaletta davanti alla libreria e osservava il quadro a braccia
conserte. Quando gli lanciai un’occhiata, mosse appena appena la
testa, per dirmi di non guardare verso di lui. Spostai di nuovo gli
occhi sul dipinto.
– La ringrazio, – feci
alzandomi. – È appeso nel posto giusto, ha ragione.
Menshiki, raggiante,
scosse il capo.
– No, sono io che la
devo ringraziare, – disse. – Da quando l’ho sistemato qui, questo
quadro mi piace ogni giorno di piú. Ogni volta che lo guardo,
provo… come dire? Provo la sensazione di trovarmi davanti a uno
specchio dalle proprietà straordinarie. Vedo me stesso, lí dentro.
Però non sono veramente io. Sono qualcuno un po’ diverso da me. Se
lo osservo per troppo tempo, poco per volta finisco per sentirmi a
disagio.
Ascoltando la musica di
Schubert, Menshiki rimase ancora un momento in contemplazione
davanti al quadro. La stessa cosa fece il Commendatore, le palpebre
socchiuse, sempre seduto sulla scaletta. Ebbi addirittura
l’impressione che l’imitasse per prenderlo in giro (ma forse mi
sbagliavo).
A quel punto Menshiki
alzò gli occhi verso l’orologio a parete.
– Ma spostiamoci in sala
da pranzo, – disse. – La cena dovrebbe essere pronta. Sarebbe bello
che il Commendatore si facesse vedere, però…
Sbirciai verso la
scaletta davanti alla libreria. Il Commendatore non era piú
lí.
– Credo che sia già
arrivato, – dissi.
– Oh, bene! – fece
Menshiki, col tono di chi riceve una buona notizia. Poi col
telecomando spense lo stereo. – Naturalmente la tavola è stata
apparecchiata anche per lui. Che peccato, però, che non possa
mangiare, una vera sfortuna!
Menshiki mi spiegò che
al piano di sotto c’erano la dispensa, la lavanderia e la palestra.
La palestra era equipaggiata con ogni sorta di attrezzo ginnico.
Mentre faceva fitness, poteva anche ascoltare la musica. Una volta
alla settimana un personal trainer veniva ad assisterlo
nell’allenamento. Oltre a quelle stanze, c’era anche un alloggetto
per una domestica − una camera con un cucinino e un bagno −, ma al
momento non lo usava nessuno. Quanto alla piccola piscina interna,
mantenerla in funzione era troppo impegnativo, quindi la teneva
coperta e aveva fatto trasformare il locale in sauna. Poteva darsi
però che ben presto facesse costruire una piscina da allenamento da
venticinque metri, a due corsie.
– In tal caso, deve
assolutamente venire a fare qualche nuotata, – mi
disse.
– Sarebbe fantastico, –
risposi.
Passammo in sala da
pranzo.