Capitolo ventitreesimo
Esistono tutti veramente, in questo mondo qui
Quando io avevo tredici anni e mia sorella dieci, durante le vacanze estive, avevamo viaggiato da soli da Tōkyō fino alla prefettura di Yamanashi. Eravamo andati a trovare nostro zio materno, che lavorava come ricercatore presso l’università di quella regione. Era la prima volta che facevamo un viaggio senza adulti. A quell’epoca mia sorella stava abbastanza bene, quindi i nostri genitori ci avevano dato il permesso.
Lo zio era giovane (aveva appena compiuto trent’anni, mi sembra) e single (lo è ancora). Studiava la trasmissione dei fattori genetici (la studia ancora), era piuttosto taciturno e per certi versi un po’ fuori dal mondo, ma era una persona sincera e schietta. Appassionato alle sue ricerche, conosceva davvero tante cose sull’universo intero. Adorava camminare in montagna. Era questo il principale motivo per cui aveva accettato il posto presso l’università di Yamanashi. A noi due quello zio piaceva molto.
Con gli zaini sulle spalle, dalla stazione di Shinjuku prendemmo il semirapido per Matsumoto e scendemmo a Kōfu. Lo zio ci attendeva alla stazione. Dato che era molto alto, lo distinguemmo subito tra la folla. Insieme a un amico aveva affittato una piccola casa nel centro della città, ma il suo coinquilino in quel periodo era al mare e aveva lasciato la sua camera a nostra disposizione. Restammo lí una settimana. Ogni giorno facevamo escursioni a piedi sui monti della zona insieme allo zio, che ci insegnava i nomi di fiori e insetti. Conservammo di quel soggiorno un ricordo bellissimo.
In una di queste gite ci spingemmo fino a esplorare una grotta. Una grotta abbastanza grande, una delle tante che si aprono sulle pendici del monte Fuji. Lo zio ci spiegò come si era formata. Ci disse che era composta di basalto, quindi all’interno non si udiva l’eco. Che in altri tempi la gente ci conservava i blocchi di ghiaccio tagliati durante l’inverno, perché anche in piena estate la temperatura non saliva piú di tanto. Che le grotte venivano chiamate «cavità» quando non erano abbastanza spaziose perché ci entrasse una persona. Insomma, sapeva tutto.
Quella grotta aveva un’apertura sufficientemente grande perché una persona ci entrasse. Lo zio non venne con noi. Ci era già stato diverse volte, inoltre, essendo molto alto, all’interno doveva stare curvo a causa del soffitto basso, e gli veniva subito mal di schiena. – Andate voi, io vi aspetto qui e leggo, – ci disse, – tanto non correte alcun pericolo. – All’ingresso un sorvegliante ci fece mettere un casco giallo di plastica e ci diede una torcia elettrica ciascuno. In realtà nella grotta erano appese delle lampade, ma facevano pochissima luce. Man mano che si avanzava, il soffitto si faceva sempre piú basso. Niente di strano che lo zio fosse rimasto fuori.
Mia sorella e io ci inoltrammo verso il fondo, illuminando il terreno ai nostri piedi. Nonostante fossimo nel bel mezzo della calura estiva, lí dentro si gelava. La temperatura non doveva superare i dieci gradi, mentre all’esterno ce n’erano trentadue. Seguendo il consiglio dello zio, infilammo le spesse giacche a vento che ci eravamo portati. Mia sorella non mollava la mia mano nemmeno per un secondo. Non capivo se cercasse protezione, o se al contrario volesse difendermi da qualcosa (forse cercava soltanto di evitare che ci separassimo), comunque per tutto il tempo tenni la sua piccola mano calda nella mia. Insieme a noi c’erano altri due visitatori, una coppia di mezz’età. Ma uscirono subito, cosí restammo soli.
Il nome di mia sorella era Komichi. In famiglia tutti la chiamavamo Komi. Gli amici, Michi o Micchan. Col suo nome intero, che io sappia, non la chiamava nessuno. Era una ragazzina snella, piccolina. I capelli neri e lisci, ben tagliati, le arrivavano appena al di sopra della nuca. Gli occhi erano grandi rispetto al viso (e anche le iridi), cosa che le dava l’aria di una fatina. Quel giorno portava una maglietta bianca, jeans azzurri sbiaditi e scarpe da ginnastica rosa.
A un certo punto, mentre procedevamo all’interno della grotta, mia sorella notò una buca laterale, un poco discosta dal percorso stabilito. Si apriva dietro una roccia, come se volesse celarsi. Questo bastò a suscitare il suo interesse.
– Ehi, non ti ricorda la buca di Alice? – mi chiese.
Lei adorava Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Non so quante volte mi aveva chiesto di leggerglielo. Forse un centinaio. Naturalmente andava a scuola e conosceva benissimo gli ideogrammi del testo, ma le piaceva sentirmi leggere quella storia ad alta voce. Ormai la conosceva a memoria, eppure ogni volta ne restava affascinata. Le piaceva soprattutto la parte che parlava della quadriglia delle aragoste. Ancora adesso la ricordo perfettamente, parola per parola.
– Non credo che dentro ci sia un coniglio, però, – le dissi.
– Voglio darci un’occhiata.
– Fai attenzione, mi raccomando.
Era veramente un anfratto (una cavità, avrebbe detto lo zio), ma mia sorella, snella com’era, ci si infilò senza difficoltà. Vi entrò con tutto il busto, lasciando fuori solo le gambe dal ginocchio in giú. Con la torcia elettrica cercò di illuminare il fondo del cunicolo. Poi scivolò lentamente all’indietro e uscí.
– È molto profondo, – mi annunciò. – Scende verso il basso. Come la tana del coniglio di Alice. Voglio vedere cosa c’è là in fondo.
– Non ci pensare neanche! È troppo pericoloso! – le dissi.
– Figurati, quale pericolo? Sono piccola, io, sguscio come niente.
Cosí dicendo mia sorella si tolse la giacca a vento e il casco, me li porse, e prima che io potessi dire o fare qualcosa per fermarla, si infilò agilmente nel cunicolo, la torcia elettrica in mano. In un attimo era sparita.
Il tempo passava, e mia sorella non usciva. Né si faceva sentire: nulla, nemmeno un suono.
– Komi? – la chiamai alla fine, rivolto verso l’apertura. – Tutto bene, Komi?
Nessuna risposta. La mia voce non produceva eco, veniva inghiottita dal buio. Cominciai ad essere in ansia, sempre di piú. Temevo che fosse rimasta bloccata là dentro, senza la possibilità di muoversi né in avanti né all’indietro. O che in fondo alla buca le fosse successo qualcosa, una crisi che le aveva fatto perdere i sensi. In tal caso, non avrei avuto modo di aiutarla a venire fuori. Nella mia mente si avvicendavano le possibilità piú tragiche. Le tenebre andavano stringendosi intorno a me.
Se mia sorella fosse scomparsa in quell’anfratto, se non fosse piú tornata su, come avrei potuto giustificarmi con i miei genitori? Dovevo andare a chiamare lo zio rimasto all’uscita? Oppure restare lí e attendere che Komi tornasse su? Mi piegai per guardare dentro il cunicolo. La luce della mia torcia non arrivava fino in fondo. L’apertura era strettissima, all’interno il buio opprimente.
– Komi! – chiamai di nuovo. Nessuna risposta. – Komi!! – ripetei, piú forte. Stesso risultato. Il mio corpo era percorso da brividi freddi, mi sentivo gelare fin nelle ossa. Forse avevo perso mia sorella per sempre. Era scomparsa, inghiottita dalla buca di Alice. Passata nel mondo della Finta Tartaruga, dello Stregatto e della Regina di Cuori. Dove non valeva la logica del mondo reale. Non saremmo mai dovuti entrare in quel posto.
Invece a un certo punto mia sorella tornò. Non scivolò all’indietro, nella stessa posizione in cui era entrata, ma sgusciò fuori a partire dalla testa, strisciando sul terreno. Nell’apertura apparvero i suoi capelli neri, poi le spalle, poi il petto; uscirono il bacino, le gambe, infine i piedi nelle loro scarpe da ginnastica rosa. Lei si tirò su davanti a me, senza dire nulla, si raddrizzò bene, respirò a fondo e si spazzolò con le mani la polvere rimasta attaccata ai jeans.
Avevo il cuore in gola. Protesi una mano e le sistemai i capelli spettinati. Alla debole luce che illuminava la grotta non vedevo bene, ma anche la sua T-shirt bianca sembrava sporca di terra, fango o non so cosa. L’aiutai a mettere la giacca a vento e il casco giallo che mi aveva affidato.
– Pensavo che non tornassi piú, – le dissi dandole qualche pacca.
– Eri preoccupato?
– Sí, da morire!
Komi strinse di nuovo la mia mano. Poi, con una strana voce eccitata, disse:
– C’è uno stretto cunicolo, che a un certo punto scende verso il basso. Si fatica un po’, ma, se si riesce a passare, si arriva in una specie di stanzetta, giú in fondo. Pensa che è perfettamente rotonda. Come una palla. Anche il tetto è rotondo, e le pareti, il suolo, tutto! Ed è un posto cosí tranquillo, silenzioso… non credo che esista un altro posto al mondo dove ci sia tanta pace. Sembra di stare in una cavità giú giú in fondo al mare. Quando ho spento la torcia era tutto buio, ma non avevo paura, sai? E non mi sentivo sola. E poi… be’, quella è una stanza speciale, dove solo io ho il permesso di entrare. Una stanza tutta per me, solo per me. Nessun altro ci può andare. Nemmeno tu.
– Ci credo, io sono troppo grande.
Mia sorella fece sí con la testa.
– Infatti. Sei troppo grande per passare in quel cunicolo. Ma la cosa piú straordinaria, lí dentro, è che fa talmente buio, che piú buio di cosí non si può. Quando spegni la luce, le tenebre sono cosí spesse, ma cosí spesse, che hai l’impressione di poterle toccare con la mano. E a stare da sola in quelle tenebre, senti che il tuo corpo poco per volta si scioglie e scompare. Ma nel buio non lo puoi vedere. Cosí non capisci piú se un corpo ce l’hai o non ce l’hai. Però, sai, anche se fossi sparita del tutto, io sarei sempre rimasta lí. Come il sorriso dello Stregatto, che resta anche quando lui non c’è piú. È pazzesco, vero? Lí dentro, però, non ti sembra una cosa strana. Avrei voluto restarci per sempre, ma temevo che tu stessi in ansia per me, allora sono uscita.
– Andiamo fuori di qui, – dissi. Mia sorella era cosí eccitata che non accennava a smettere di parlare, e dovevo fermarla. – Non riesco a respirare bene, in questa grotta.
– Tutto a posto? – mi chiese preoccupata.
– Sí, tutto bene. Ma non voglio piú stare qui dentro.
Tenendoci per mano, ci avviammo verso l’uscita.
– La sai una cosa? – mi disse Komi mentre camminavamo. A bassa voce, come se non volesse farsi sentire da nessun altro, anche se in pratica eravamo soli. – Alice esiste davvero. Sul serio, non me lo sto inventando. Alice, il Bianconiglio, lo Stregatto, il Tricheco, l’esercito di carte da gioco… ci sono davvero. Esistono tutti veramente, in questo mondo qui.
– Sí, può darsi… – risposi.
Uscimmo dalla grotta, tornammo nel mondo luminoso e reale. Nonostante quel pomeriggio il cielo fosse velato, restammo abbagliati dalla luce del sole. Il verso delle cicale riempiva l’aria col fragore di una burrasca. Lo zio, seduto su una panchina vicino all’ingresso della grotta, era assorto nella lettura del suo libro. Quando ci vide sorrise e si alzò.
Mia sorella morí due anni dopo. Venne messa in una piccola bara e cremata. All’epoca io avevo quindici anni, lei dodici. Durante la cremazione mi allontanai dagli altri e andai a sedermi nel giardino del tempio. Pensavo a quella volta nella grotta. Ai lunghi e opprimenti minuti durante i quali avevo atteso, davanti a quella piccola buca laterale, che Komi tornasse fuori. Alla densità del buio che mi aveva avvolto nella grotta, al freddo che mi aveva gelato le ossa. Al momento in cui avevo visto riapparire i capelli neri di mia sorella, poi lentamente le spalle. Alla maglietta che indossava e a tante altre cose senza senso.
In quel giardino, nel tempio, mi ero detto che Komi aveva lasciato la sua vita in fondo a quella buca, due anni prima che il medico di un ospedale constatasse ufficialmente la sua morte. Ne ero sicuro. Da quel giorno non era piú appartenuta a questo mondo. Né io né nessun altro ce ne eravamo accorti. Tenendola stretta per mano, avevo preso il treno insieme a lei ed ero tornato a Tōkyō. Avevamo passato insieme i due anni seguenti, da bravi fratelli. Ma era stata soltanto un’effimera proroga del tempo concessoci. Finché la morte era strisciata fuori da quella buca per venire a riprendersi mia sorella. Come un legittimo proprietario che viene a riprendersi una cosa imprestata, quando scade il tempo pattuito.
In ogni caso, quello che Komi mi aveva detto a bassa voce nella grotta, come se mi facesse una rivelazione, era vero. Lo pensavo ancora, a trentasei anni suonati. Al mondo esistevano Alice, e il Bianconiglio, e il Tricheco e lo Stregatto. E il Commendatore, naturalmente.
Contrariamente alle previsioni meteo, non ci fu nessuna pioggia torrenziale. Dopo le cinque iniziò a cadere una pioggerellina quasi impercettibile che continuò senza variazioni d’intensità fino al mattino. Alle sei in punto una grossa berlina nera arrivò, lenta e silenziosa, su dalla strada. A me parve un carro funebre, ma non lo era, ovviamente, era la macchina che Menshiki aveva mandato a prendermi. Una Nissan Infinity. Ne scese un autista in uniforme scura e berretto che venne a suonare alla porta d’ingresso, l’ombrello in mano. Quando gli aprii, si tolse il berretto e mi chiese se fossi il signor Tal dei Tali. Uscii e salii in macchina, declinando l’offerta dell’ombrello. Non pioveva tanto forte da renderlo necessario. L’autista tenne aperta per me la portiera posteriore, poi la richiuse. Nel chiudersi, la portiera fece un rumore sordo (un po’ diverso da quello della Jaguar di Menshiki). Avevo messo una leggera maglia nera girocollo, una giacca grigia di tweed a spina di pesce, dei pantaloni di lana grigio scuro e delle scarpe scamosciate nere. Erano gli abiti piú formali che possedessi. Per lo meno non erano sporchi di pittura.
La macchina era arrivata, ma il Commendatore non si faceva vedere. Né sentire. Ricordava che quella sera era invitato a cena da Menshiki? Non avevo modo di verificarlo. Però mi era parso tanto felice, di quell’invito, tanto eccitato, che era difficile immaginare che se lo fosse scordato.
Mi ero preoccupato per lui inutilmente. Appena la macchina si mosse, mi accorsi che era seduto di fianco a me, l’aria disinvolta. Con la stessa veste bianca addosso (immacolata, neanche l’avesse appena ritirata dalla tintoria), la stessa spada con l’elsa decorata al fianco. La sua altezza non era variata, era sempre una sessantina di centimetri. Sul sedile di pelle nera dell’Infinity, la sua veste candida e pulita spiccava. Teneva le braccia conserte e guardava davanti a sé.
– Non mi dovete assolutamente parlare, – mi ammoní. – Perché siete il solo a vedermi. Siete anche il solo a udirmi. E se vi mettete a parlare a una persona che nessun altro vede o sente, vi prenderanno per pazzo. Sono stato chiaro? Se avete capito, fate un piccolissimo cenno col capo.
Annuii impercettibilmente, il Commendatore fece altrettanto in risposta. Poi non disse piú una parola, restò immobile a braccia conserte.
Ormai era buio. I corvi dovevano essersi già ritirati nei nidi sui monti. L’Infinity percorse lentamente la discesa, prese la strada che seguiva il fondovalle, quindi imboccò una ripida salita. La distanza non era molta (in fin dei conti si trattava solo di andare dall’altra parte della valle), ma la strada era relativamente stretta e aveva molte curve. Non il genere di strada che uno è felice di percorrere guidando una grossa berlina nera − un furgone con quattro ruote motrici sarebbe stato ben piú adatto − ma l’autista procedeva tranquillo, impassibile, le mani saldamente sul volante, e mi condusse sano e salvo fino alla casa di Menshiki, davanti alla quale si fermò.
La villa era circondata da un alto muro bianco, provvisto di un robusto portone a due battenti. Un portone di legno marrone scuro che mi ricordava quello dei castelli medioevali nei film di Kurosawa. Immaginai delle frecce infilzate nel legno, non sarebbero state fuori luogo. Dall’esterno non si vedeva nulla. Accanto al portone era indicato il numero civico, ma niente targa col nome. Probabilmente non ce n’era bisogno. Chiunque venisse apposta fin lassú, di sicuro sapeva già che quella era la casa di Menshiki. Lampade al mercurio illuminavano la zona davanti all’ingresso. L’autista scese dalla macchina, suonò il campanello, scambiò qualche parola al citofono con la persona all’interno. Poi tornò a sedersi al volante e attese che il portone si aprisse, azionato da un comando a distanza.
Quando i battenti ruotarono lentamente verso l’interno, la macchina entrò e seguí un viottolo tortuoso, leggermente in discesa, che attraversava il giardino. Udii i battenti richiudersi alle nostre spalle. Un rumore sinistro, carico di implicazioni, che sembrava dirmi: «Ormai non puoi piú tornare nel tuo mondo». A destra e a sinistra vidi parecchi pini matsu, molto curati. I rami, potati con l’attenzione che di solito si riserva ai bonsai, erano bellissimi. Ai due lati del viottolo si susseguivano ordinate siepi di azalee, dietro le quali si intravedevano rose kerria gialle. C’erano anche aiuole di camelie. La casa era nuova, ma il giardino era sicuramente il risultato del lavoro di lunghi anni. Delle belle lanterne lo illuminavano con discrezione.
Il viottolo terminava in uno slargo rotondo, asfaltato. L’autista fermò la macchina lí, scese svelto e venne ad aprirmi la portiera. Accanto a me, sul sedile, il Commendatore non c’era piú. La cosa non mi stupí, né mi inquietò. Lui aveva modi tutti suoi di comportarsi.
Le luci posteriori dell’Infinity si allontanarono lentamente nell’oscurità, e io rimasi solo. Vista da vicino, la casa sembrava molto piú accogliente di quanto avessi immaginato. Quando la guardavo dall’altra parte della valle, la trovavo soprattutto appariscente, ma ora, osservandola da un’altra prospettiva, l’effetto era diverso. Il portone nel muro di cinta era il punto piú alto, da lí il terreno scendeva in un dolce pendio, sul quale la casa era stata costruita sfruttando con maestria il dislivello.
A destra e a sinistra della porta c’erano due statue antiche, con tanto di piedistallo, simili ai cani di pietra ai lati dell’ingresso dei templi shintoisti. Probabilmente erano autentiche, portate lí da chissà dove. Anche davanti all’ingresso c’erano siepi di azalee. In maggio, nel periodo della fioritura, quel giardino doveva essere una meraviglia di colori.
Mentre camminavo lentamente verso la porta, questa si aprí dall’interno e sulla soglia comparve Menshiki. In camicia bianca, cardigan verde scuro e pantaloni di cotone color panna. I suoi magnifici capelli erano perfettamente tagliati e pettinati, come sempre, con un effetto naturale. Vedere Menshiki venirmi incontro, a casa sua, mi faceva uno strano effetto. Fino ad allora ero sempre stato io ad accogliere lui, quando arrivava sulla sua reboante Jaguar.
Mi invitò a entrare e richiuse la porta. L’ingresso quadrato era vasto, il soffitto alto. Avrebbe potuto ospitare un campo da squash. Nel mezzo c’era un grande tavolo ottagonale di legno, sul quale era collocato un enorme vaso, probabilmente della dinastia Ming, pieno di fiori freschi e turgidi (non intendendomi di botanica, ne ignoravo i nomi); grandi corolle di tre tinte accostate in una bella composizione. Forse l’aveva fatta fare appositamente per quella serata, spendendo dal fioraio una somma che a uno studente senza molte pretese sarebbe bastata per tirare avanti un mese. Ai miei tempi, per lo meno, a noi studenti sarebbe stata piú che sufficiente per mettere insieme il pranzo con la cena. Nell’ingresso non c’erano finestre. Solo dei lucernari sul soffitto. Le applique alle pareti rischiaravano la stanza di luce indiretta, il pavimento era di marmo, tirato a lucido.
Dall’ingresso si entrava in salotto scendendo tre larghi gradini. Una stanza immensa. Non dico che ci sarebbe stato un campo da calcio, ma da tennis forse sí. La parete a sud-est era tutta una vetrata azzurrina, al di là della quale si estendeva una grande terrazza. A quell’ora della sera non capivo se si vedesse anche il mare, ma avrei scommesso di sí. Sulla parete opposta si apriva un grande camino. Non faceva ancora abbastanza freddo per doverlo usare, ma a fianco era già pronta una bella catasta di legna, in modo da poter accendere il fuoco in qualsiasi momento. Non so chi fosse l’artefice di quella catasta, ma aveva fatto davvero un bel lavoro, direi quasi artistico. Sulla mensola del camino c’era una fila ordinata di antiche statuine in porcellana di Meissen.
Anche il pavimento del salotto era in marmo, ma quasi interamente coperto di tappeti. Tappeti persiani, vere opere d’arte, piú che oggetti di arredamento, per la finezza dei motivi e l’accostamento dei colori. Esitavo quasi a calpestarli. Qua e là c’erano tavolini bassi con vasi pieni di fiori. Fiori freschissimi, naturalmente. Quanto ai vasi, dovevano essere tutti antichi e preziosi. Un gusto squisito. E una montagna di soldi spesi. C’era davvero da augurarsi che non arrivasse mai un terremoto!
Il soffitto era molto alto, l’illuminazione discreta. Belle applique alle pareti, diverse lampade a piede, una lampada da scrittoio su un tavolo, nient’altro. In fondo alla stanza, nell’ombra, c’era un piano a coda. Era la prima volta in vita mia che vedevo una sala tanto grande, al punto che uno Steinway da concerto quasi vi sfigurava. Sul pianoforte c’era un metronomo, e una pila di spartiti. Forse a suonarlo era Menshiki. Oppure ogni tanto invitava a cena Maurizio Pollini.
Nel complesso, tuttavia, l’arredamento non era vistoso e mi rassicurò. Lo spazio non era ingombro di oggetti superflui, e nemmeno dava un’impressione di vuoto. Per essere cosí vasto, quel salotto aveva un’atmosfera di intimità sorprendente. Un suo calore. Alle pareti erano appesi una mezza dozzina di piccoli quadri di buon gusto, collocati con eleganza. Uno di questi sembrava un autentico Léger. Ma potevo anche sbagliarmi.
Menshiki mi invitò a sedermi su un grande divano di pelle marrone. Lui prese posto sulla poltrona di fronte. Il divano era comodissimo, né troppo soffice, né troppo rigido. Creato in modo da accogliere con naturalezza la forma del corpo della persona che vi stava seduta, qualunque persona, indifferentemente. Ma di cosa mi stupivo? A pensarci bene (e non c’era nemmeno bisogno di pensarci tanto), Menshiki non avrebbe mai messo in casa sua un divano che non fosse la quintessenza della comodità.
Appena ci sedemmo, come se non avesse atteso che quel segnale, un uomo fece la sua comparsa. Un giovane sorprendentemente bello. Non era molto alto, però era elegante e snello. Aveva una carnagione piuttosto scura, e folti capelli legati dietro la nuca. Se avesse indossato dei pantaloncini da surf, me lo sarei visto benissimo su una spiaggia con la sua brava tavola sotto il braccio, ma quella sera portava una camicia bianca e un cravattino nero a farfalla. E sulla bocca aveva un sorriso affabile.
– Il signore desidera un cocktail? – mi domandò.
– Prego, prenda qualunque cosa desideri, – rincarò Menshiki.
– Un balalaika, – dissi dopo qualche esitazione. Non che avessi particolarmente voglia di bere un balalaika, ma volevo capire se quel tipo era davvero in grado di preparare qualsiasi tipo di cocktail.
– La stessa cosa per me, – disse Menshiki.
Sempre con l’amabile sorriso sulle labbra, il giovane si ritirò in silenzio.
Gettai un’occhiata accanto a me: sul divano il Commendatore non c’era. Ma era in quella casa, da qualche parte, ne ero sicuro. Non era forse venuto fin lí con me, nella stessa macchina?
– C’è qualcosa che…? – chiese Menshiki. Doveva aver notato il movimento dei miei occhi.
– No, no, assolutamente nulla, – gli risposi. – Davvero una casa magnifica. Sono incantato.
– Non la trova un po’ troppo vistosa? – fece lui, con l’accenno di un sorriso.
– Per niente. Molto piú sobria di quanto avessi immaginato, – gli confessai. – Da lontano, se posso permettermi di parlare sinceramente, è vero che sembra un pochino sfarzosa. Ricorda quei transatlantici di lusso che solcano gli oceani. Entrando, invece, sono rimasto sorpreso da tanto garbo, è rassicurante. Molto diverso da quanto mi aspettavo.
Menshiki fece un cenno di approvazione.
– Nulla potrebbe farmi piú piacere di questo suo giudizio, perché arrivare a questo risultato non è stato facile, tutt’altro. Le circostanze hanno voluto che abbia comprato questa casa quando era già terminata, e in effetti era piuttosto vistosa. Diciamo pure pacchiana. L’aveva fatta costruire il proprietario di certi grandi magazzini e l’aveva concepita col gusto dell’arricchito. Insomma, terribile. E comunque non il mio, di gusto, anzi. Quindi ho dovuto far fare un bel po’ di lavori. Ci sono voluti tempo, impegno, denaro…
Ricordando quel periodo, Menshiki socchiuse gli occhi e sospirò. Sembrava ancora sconcertato.
– Non sarebbe stato molto piú semplice far costruire una casa come la voleva lei? Fin dall’inizio? – gli chiesi.
Sorrise. Tra le sue labbra si intravide il bianco dei denti.
– Ha ragione. Sarebbe stato piú sensato. Anch’io però avevo i miei motivi. La casa doveva essere questa.
Attesi che continuasse. Lui però lasciò cadere il discorso.
– Il Commendatore non è venuto con lei? – mi domandò.
– Credo che si farà vedere piú tardi. È arrivato con me fin qui, davanti all’ingresso, poi all’improvviso è scomparso. Forse sta facendo un giro per la casa, ammirando tutti gli splendidi oggetti che contiene. Spero che non le dispiaccia.
– Ma no, si figuri! – fece Menshiki. – Non mi dà alcun fastidio. Il Commendatore può guardare tutto quello che vuole!
Entrò il giovane di prima a portarci i nostri cocktail. Su un vassoio d’argento erano posati due bicchieri di cristallo cesellato, forse di Baccarat. Colpiti dalla luce della lampada a piede, sfolgoravano. Accanto ai bicchieri, in piatti di porcellana Ko-imari, c’erano pezzi di formaggio di vari tipi e anacardi. Poi forchette e coltelli d’argento, tovagliolini di lino con le iniziali ricamate. Un’accuratezza straordinaria.
I bicchieri in mano, Menshiki e io brindammo. Lui si congratulò con me per aver terminato il ritratto, io lo ringraziai. Portai il bicchiere alle labbra. Il balalaika è un cocktail composto di vodka, Cointreau e succo di limone. È semplice da preparare, ma deve essere servito freddissimo, per essere buono. Se il barman non è bravo, lo fa diventare acquoso. Questo invece era squisito, un gelo pungente, quasi la perfezione.
– Ottimo cocktail, – dissi convinto.
– Sí, il ragazzo se la cava piuttosto bene, – riconobbe con noncuranza Menshiki.
Ovvio, pensai. C’era forse da dubitarne? Lui non si sarebbe mai servito di un barman mediocre, di qualcuno che non desse per scontato tenere pronti Cointreau, antichi bicchieri da cocktail di cristallo e piatti di porcellana Ko-imari.
Bevendo e mangiucchiando anacardi, discorremmo di varie cose. Fui soprattutto io a parlare, di pittura. Menshiki mi chiese del quadro che stavo dipingendo in quel momento. Gli dissi che stavo facendo il ritratto di un uomo che avevo incontrato tempo prima in una città lontana da lí, un tipo di cui non sapevo né il nome né nulla.
– ll ritratto? – chiese Menshiki. Sembrava stupito.
– Be’, si fa per dire. Non è un’opera commerciale. È una raffigurazione astratta che realizzo seguendo la mia ispirazione. Comunque, sí, fondamentalmente potremmo dire che si tratta di un ritratto.
– Sul genere di quello che ha fatto a me?
– Proprio cosí. La differenza è che questa volta nessuno me l’ha commissionato. Lo faccio di mia iniziativa.
Menshiki rifletté un momento su quello che gli avevo appena detto.
– Aver raffigurato me, insomma, in qualche modo è servito per ritrovare l’ispirazione. Dico bene?
– Sí, può darsi che sia vero. Anche se per il momento sono solo all’inizio.
Menshiki bevve un sorso dal suo bicchiere. In fondo ai suoi occhi brillava una luce compiaciuta.
– Questa per me è una grande gioia. Il fatto di esserle stato di qualche utilità, voglio dire. Quando lo avrà terminato, quel quadro, mi piacerebbe vederlo. Sarà possibile?
– Se il risultato mi convincerà, con piacere, è ovvio.
Voltai la testa a guardare il piano a coda in fondo alla stanza.
– È lei che lo suona, signor Menshiki? – gli chiesi. – È un pianoforte magnifico.
Lui fece un piccolo cenno affermativo col capo.
– Sí, strimpello un po’, ma non sono bravo, – rispose. – Ho imparato da bambino con un insegnante privato. Per cinque o sei anni, quando frequentavo le elementari. Dalle medie in poi avevo troppo da studiare per la scuola, e ho smesso. Avrei voluto continuare, ma non ce la facevo a esercitarmi anche al piano, era diventato troppo faticoso. Quindi le mie dita non si muovono come vorrei. Gli spartiti però li leggo piuttosto bene. Ogni tanto, per rilassarmi e rinfrancare lo spirito, suono qualche pezzo semplice, cosí, per mio piacere. Ma non mi sognerei mai di farlo davanti a degli ospiti. Se in casa c’è qualcuno non tocco la tastiera.
A quel punto gli chiesi una cosa che mi incuriosiva già da tempo.
– Scusi, ma non si sente mai un po’ sperso, a vivere solo in questa casa? Non le sembra troppo grande?
– No, affatto, – rispose senza esitare Menshiki. – Non la trovo affatto troppo grande. E a me stare solo piace. D’altronde, provi a pensare alla corteccia cerebrale. Noi esseri umani siamo dotati di una corteccia cerebrale meravigliosa per efficacia e finezza. Nella vita quotidiana, però, in pratica ne usiamo al massimo il dieci per cento. Il cielo ci ha fatto questo regalo meraviglioso, ci ha dotati di questo strumento straordinario, ma purtroppo sappiamo servircene in modo molto limitato. È come se una famiglia di quattro persone vivesse in una villa principesca, ma stesse sempre ammucchiata in una modesta cameretta di pochi metri quadri. Senza mai metter piede nelle altre stanze. Se ci pensa, non dovrebbe sembrarle tanto strano che io abiti solo in questa casa.
– Sí, ora che me lo fa notare, forse ha ragione lei, – ammisi. Era un paragone interessante.
Menshiki fece rotolare un anacardio sul palmo della mano.
– Tuttavia, se non fosse per quella efficientissima corteccia cerebrale in apparenza inutile, – proseguí, – noi non potremmo fare operazioni mentali astratte, né entrare nel territorio della metafisica. Invece siamo in grado di farlo anche usandone solo una parte. Pensi di cosa saremmo capaci, se la usassimo interamente? Una prospettiva affascinante, non trova?
– Sí, ma in cambio del possesso di una corteccia cerebrale tanto efficace, della splendida dimora per usare la sua similitudine, il genere umano deve rinunciare a diverse capacità fondamentali. Giusto?
– Ha ragione. Per vincere la lotta per la sopravvivenza, l’uomo non avrebbe bisogno di fare operazioni mentali astratte o conoscere la metafisica, nemmeno nella quotidianità. Basterebbe che sapesse stare ben saldo sulle gambe e usare un bastone. Invece, in cambio di quel potenziale inusato del nostro cervello, abbiamo inevitabilmente perso molte facoltà piú pratiche. Ad esempio, un cane è dotato di un udito e di un olfatto migliaia di volte piú acuti di quelli di un uomo. Noi però possiamo immaginare cose, fare ipotesi, comparare macro e microcosmo, apprezzare Van Gogh e Mozart. Leggere Proust (se siamo in grado di farlo, s’intende), collezionare porcellane Ko-imari e tappeti persiani. Un cane non può.
– Proust non aveva certo l’olfatto di un cane, ma servendosi abilmente del proprio fiuto ha scritto un’opera gigantesca.
Menshiki rise.
– È vero. Le mie sono soltanto considerazioni di ordine generale.
– In ultima analisi, la vera domanda è se si possa considerare un’idea qualcosa di autonomo o meno.
– Proprio cosí.
«Proprio cosí», mi sussurrò all’orecchio il Commendatore. Memore del suo avvertimento, non mi guardai attorno.
Menshiki mi condusse nel suo studio. Dal salotto bastava scendere alcuni larghi gradini − costruiti in modo da fare ancora parte della stanza − per arrivare in un corridoio, lungo il quale si susseguivano alcune camere da letto (non le contai, ma una di queste doveva essere la famosa «stanza segreta di Barbablú», chiusa a chiave, di cui mi aveva parlato la mia amante). Il corridoio terminava davanti alla porta dello studio. Una stanza non molto grande, ma nemmeno piccola, naturalmente, concepita in modo che lo spazio fosse esattamente quello giusto. Le finestre erano costituite da una fila di aperture lunghe e strette su una parete, in alto, vicino al soffitto. Da lí si vedevano solo i rami dei pini, e il cielo tra gli aghi (a quanto pareva, nello studio luce e vista non erano considerati necessari). Questa soluzione lasciava libere le pareti. Una era occupata per tutta l’altezza da una biblioteca fabbricata su misura, una parte della quale era suddivisa in scaffali che ospitavano una collezione di cd. Il resto era costituito da ripiani carichi di libri, disposti in file compatte. Per accedere ai ripiani piú alti c’era una scaletta in legno. I libri non erano lí solo per fare scena, sembrava che fossero stati letti. Chiunque avrebbe immediatamente capito che quella era la collezione di un fervido lettore.
Su una grande scrivania da ufficio, nel centro di una parete, c’erano due computer, uno normale e uno portatile. Diversi vasetti contenenti penne e matite, alcuni documenti disposti in pile ordinate. A un altro muro era addossato un magnifico impianto stereo. Le casse, lunghe e strette, si trovavano dalla parte opposta, di fronte alla scrivania. Elegantemente rivestite di mogano, erano alte quanto me (sono un metro e settantatre). Una poltrona dal design moderno era collocata nel centro della stanza, per leggere o ascoltare la musica. Accanto, una lampada a piede in acciaio inossidabile. Immaginai che Menshiki trascorresse gran parte della giornata in quello studio.
Il ritratto che gli avevo fatto io era appeso a una parete, fra le due casse dello stereo. Esattamente nel mezzo, piú o meno all’altezza degli occhi. Il quadro non era ancora incorniciato, ma si inseriva nell’atmosfera della stanza con naturalezza, come se fosse lí da sempre. L’avevo dipinto con vigore, di getto, e con la sua stravaganza dava a quello studio un sorprendente tocco di raffinatezza. Inoltre celava in sé, senza possibilità di dubbio, il viso di Menshiki. Era come se Menshiki ci fosse entrato dentro, ai miei occhi, almeno.
Quel quadro l’avevo dipinto io, d’accordo. Eppure si era staccato da me, era diventato una proprietà di Menshiki, e adesso che era appeso a una parete del suo studio, non potevo piú toccarlo. Ormai era suo, non mio. Se per qualche motivo avessi voluto prenderlo, sarebbe scivolato via dalle mie mani guizzando come un pesce. Mi faceva l’effetto di una donna che un tempo era stata mia, ma ormai era di un altro…
– Cosa ne pensa? Sta d’incanto qui, non trova? – Menshiki parlava del ritratto, ovviamente. Io mi limitai ad annuire in silenzio.
– Ho provato a metterlo in altre stanze, su altre pareti, – proseguí lui. – Alla fine però ho capito che il suo posto era questo. Lo spazio a disposizione, la luce… tutto è perfetto. Adoro guardarlo da quella poltrona.
– Posso provare anch’io? – chiesi.
– Naturalmente. Si accomodi pure.
Mi sedetti sulla poltrona di pelle, mi appoggiai allo schienale che disegnava una leggera curva, posai i gomiti sui braccioli. Incrociai le mani sul petto. E ancora una volta osservai attentamente il quadro. Menshiki aveva ragione, mi trovavo nel punto ideale per apprezzarlo. Vista da quella poltrona (comodissima, perfetta), la mia opera, appesa alla parete di fronte a me, rivelava una quieta forza di persuasione che mi coglieva di sorpresa. Non era piú quella che avevo dipinto io nel mio atelier. Sembrava quasi che… ecco, sembrava che arrivando in quel posto avesse trovato una nuova, autentica vita. E non avrebbe permesso a me, che ero il suo creatore, di avvicinarmi oltre.
Servendosi di un telecomando, Menshiki fece partire la musica a basso volume. Il Quartetto Rosamunde di Schubert, che avevo già ascoltato a casa mia. Il suono che usciva da quelle casse era pulito, nitido, depurato. Rispetto a quello semplice e rozzo delle casse di Amada Tomohiko, faceva un effetto del tutto diverso.
Tutt’a un tratto, mi accorsi che nella stanza c’era il Commendatore! Si era seduto sulla scaletta davanti alla libreria e osservava il quadro a braccia conserte. Quando gli lanciai un’occhiata, mosse appena appena la testa, per dirmi di non guardare verso di lui. Spostai di nuovo gli occhi sul dipinto.
– La ringrazio, – feci alzandomi. – È appeso nel posto giusto, ha ragione.
Menshiki, raggiante, scosse il capo.
– No, sono io che la devo ringraziare, – disse. – Da quando l’ho sistemato qui, questo quadro mi piace ogni giorno di piú. Ogni volta che lo guardo, provo… come dire? Provo la sensazione di trovarmi davanti a uno specchio dalle proprietà straordinarie. Vedo me stesso, lí dentro. Però non sono veramente io. Sono qualcuno un po’ diverso da me. Se lo osservo per troppo tempo, poco per volta finisco per sentirmi a disagio.
Ascoltando la musica di Schubert, Menshiki rimase ancora un momento in contemplazione davanti al quadro. La stessa cosa fece il Commendatore, le palpebre socchiuse, sempre seduto sulla scaletta. Ebbi addirittura l’impressione che l’imitasse per prenderlo in giro (ma forse mi sbagliavo).
A quel punto Menshiki alzò gli occhi verso l’orologio a parete.
– Ma spostiamoci in sala da pranzo, – disse. – La cena dovrebbe essere pronta. Sarebbe bello che il Commendatore si facesse vedere, però…
Sbirciai verso la scaletta davanti alla libreria. Il Commendatore non era piú lí.
– Credo che sia già arrivato, – dissi.
– Oh, bene! – fece Menshiki, col tono di chi riceve una buona notizia. Poi col telecomando spense lo stereo. – Naturalmente la tavola è stata apparecchiata anche per lui. Che peccato, però, che non possa mangiare, una vera sfortuna!
Menshiki mi spiegò che al piano di sotto c’erano la dispensa, la lavanderia e la palestra. La palestra era equipaggiata con ogni sorta di attrezzo ginnico. Mentre faceva fitness, poteva anche ascoltare la musica. Una volta alla settimana un personal trainer veniva ad assisterlo nell’allenamento. Oltre a quelle stanze, c’era anche un alloggetto per una domestica − una camera con un cucinino e un bagno −, ma al momento non lo usava nessuno. Quanto alla piccola piscina interna, mantenerla in funzione era troppo impegnativo, quindi la teneva coperta e aveva fatto trasformare il locale in sauna. Poteva darsi però che ben presto facesse costruire una piscina da allenamento da venticinque metri, a due corsie.
– In tal caso, deve assolutamente venire a fare qualche nuotata, – mi disse.
– Sarebbe fantastico, – risposi.
Passammo in sala da pranzo.