Capitolo quarto
La maggior parte delle cose, viste da lontano, ci sembrano belle
Un mattino di sole, verso la fine di maggio, sistemai nella stanza che Amada Tomohiko aveva usato come atelier la mia attrezzatura da pittore, e per la prima volta dopo tanto tempo mi misi di fronte a una tela (utensili del Maestro lí non ne restavano, era probabile che Masahiko avesse portato via tutto). L’atelier era una stanza quadrata di cinque metri di lato, con il pavimento in listelli di legno e i muri intonacati di bianco. Il parquet era nudo, senza tappeti. A nord si apriva una grande finestra provvista di semplici tende bianche, mentre la finestra a est invece era piccola, priva di tende. Come in tutta la casa, alle pareti non era appeso nemmeno un quadro. In un angolo c’era un lavandino in ceramica che serviva a lavare i pennelli. Doveva essere stato usato per molti anni, perché era coperto di macchie di ogni colore esistente. A lato del lavandino era collocata una vecchia stufa a cherosene, e sul soffitto un grande ventilatore a pale. C’erano inoltre un tavolo da lavoro e uno sgabello rotondo di legno. Sugli scaffali costruiti su misura era posato uno stereo compatto, in modo che il Maestro dipingendo potesse ascoltare qualche disco di opera lirica. Dalla finestra entrava l’odore fresco degli alberi. Era lí che Amada si concentrava nella pittura, senza distrazioni. Il necessario era a portata di mano, cose inutili non ce n’erano.
In quell’atmosfera nuova, sentii crescere dentro di me il desiderio di dipingere qualcosa. Come una fitta sottile. Il tempo a mia disposizione era davvero illimitato, non dovevo piú affaticarmi per guadagnarmi da vivere col mio lavoro, né preparare la cena per mia moglie che tornava dall’ufficio (non mi era mai pesato, ma era comunque un mio compito). E non solo non dovevo preparare i pasti: se non ne avevo voglia, avevo anche il diritto di non mangiare. Ero completamente libero, potevo fare quello che mi pareva senza che questo desse fastidio a qualcuno.
Ciononostante, non riuscivo a dipingere. Stavo ore davanti alla tela, a osservarne la superficie bianca, ma non sapevo cosa raffigurarvi, non mi veniva in mente nulla, nemmeno la piú piccola idea, il minimo barlume. Non trovavo uno spunto da cui iniziare. In quell’atelier quadrato e disadorno, mi sentivo completamente disorientato, come uno scrittore che non trova piú le parole o un musicista che ha perso il suo strumento.
Non mi era mai successo prima. Di fronte alla tela ero sempre riuscito a rilassarmi, a staccarmi dal contesto quotidiano, e qualcosa arrivava. A volte erano immagini utilizzabili, a volte fantasie del tutto inutili. Ma non ero mai rimasto a corto di idee. Prendevo quelle che mi facevano comodo, le abbozzavo sulla tela, poi bastava che le sviluppassi seguendo la mia intuizione. In questo modo l’opera finale veniva da sé. Ora, però, quel qualcosa da sviluppare non riuscivo a trovarlo. Per quanto lo desiderassi, per quanto sentissi in fondo al petto il pungolo di quella fitta sottile, avevo bisogno di un appiglio concreto da cui partire.
Il mattino mi alzavo presto (sono sempre stato mattiniero), mi facevo un caffè in cucina, poi con la tazza in mano andavo nell’atelier e mi sedevo sullo sgabello davanti alla tela. Mi concentravo. Tendevo l’orecchio alle vibrazioni del mio spirito, cercando di tirarne fuori l’immagine che avrei dovuto trovarvi. Ma finivo sempre col battere in ritirata a mani vuote. Dopo aver provato per un po’ di tempo, rinunciavo, andavo a sedermi sul pavimento, appoggiavo la schiena alla parete e ascoltavo un’opera di Puccini (non so perché, in quel periodo ascoltavo sempre Puccini). Turandot, La bohème. Guardando il ventilatore che ruotava svogliatamente sul soffitto, aspettavo che mi venisse un’idea, uno spunto… ma non arrivava nulla. Intanto il sole di inizio estate si spostava lentamente nel cielo verso lo zenit.
Già, ma cos’era che non andava? Forse il fatto che per anni, per guadagnarmi da vivere, mi fossi dedicato sempre e solo ai ritratti? Col risultato che la mia ispirazione era stata trascinata via, come sabbia lambita incessantemente dalle onde sulla riva del mare? Comunque fosse, a un certo punto la corrente aveva preso la direzione sbagliata. Avevo bisogno di tempo, pensai. Dovevo essere molto, molto paziente. Portare il tempo dalla mia parte. Se ci fossi riuscito, avrei di nuovo imboccato la corrente giusta. Ad essere sincero, però, non ne ero affatto sicuro.
Anche le relazioni che ebbi con le due donne sposate risalgono a quel periodo. Forse cercavo uno sfogo alla mia frustrazione. Volevo fare qualcosa, a tutti i costi, per uscire dalla palude in cui ristagnavo, quindi cercavo degli stimoli (di qualsiasi genere) che dessero una scossa al mio spirito. Inoltre cominciavo a stancarmi di essere sempre solo. Ed era da tanto tempo che non tenevo una donna fra le braccia.
A ripensarci adesso, in quel periodo le mie giornate trascorrevano in modo davvero strano. Mi alzavo presto, mi chiudevo in quell’atelier quadrato dalle pareti bianche, restavo per un certo tempo davanti alla tela bianca senza avere un barlume di qualcosa che assomigliasse a un’idea, poi mi sedevo per terra e ascoltavo Puccini. Per tutto ciò che riguardava la sfera della creazione, avevo di fronte un nulla quasi perfetto. Riferendosi a un periodo in cui non riusciva a comporre, Claude Débussy una volta scrisse: «Giorno dopo giorno, semplicemente, produco il nulla». Ecco, in quell’inizio d’estate io partecipavo alla «produzione del nulla». Forse ci feci anche l’abitudine, a confrontarmi col nulla, anche se non posso dire che mi divenne familiare.
Due volte alla settimana, dopo pranzo, lei (la seconda donna sposata) arrivava sulla sua Mini rossa. Ci infilavamo immediatamente a letto, stretti l’uno all’altra. E per tutto il pomeriggio ci abbandonavamo al piacere dei sensi fino ad esserne sazi. Non era qualcosa che nascesse dal nulla. Senza ombra di dubbio, i nostri erano corpi reali. Corpi che potevamo toccare in ogni parte, labbra che potevamo congiungere. Per tutto il tempo io oscillavo tra una vaga assenza di appigli e una realtà vigorosa, come se spegnessi e accendessi un interruttore. Lei mi raccontò che suo marito non la toccava da due anni. Ne aveva dieci piú di lei e lavorava troppo, la sera tornava a casa tardi. E non sembrava piú interessato al sesso, anche se lei cercava di stimolarlo in mille modi.
– Mi chiedo perché… pensare che hai un corpo stupendo! – le dissi.
Si strinse nelle spalle.
– Siamo sposati da quindici anni, abbiamo due figli, non sono piú una primizia, per lui.
– A me sembri freschissima.
– Grazie. Le tue parole mi fanno sentire… riciclata.
– Una risorsa naturale rigenerata?
– Esatto.
– Una risorsa naturale preziosa, – dissi. – Utilissima alla società.
Lei ridacchiò.
– Sí, a patto di non usarla nel modo sbagliato, – disse.
E tornavamo a saziarci avidamente delle nostre risorse naturali.
Ad essere sincero, non è che avessi un grande interesse per lei come persona. In fondo era piuttosto diversa dalle altre donne cui ero stato legato fino a quel momento. Non c’erano molte cose di cui potessimo parlare: non avevamo molto in comune, né l’ambiente in cui vivevamo né l’esperienza passata. Ed essendo io poco loquace, quando stavamo insieme era quasi solo lei a chiacchierare. Mi raccontava delle sue faccende personali, io le rispondevo con un cenno o facevo un commento vago, ma la nostra non si poteva certo definire conversazione.
Per me era davvero qualcosa di nuovo. Di solito, delle donne mi interessava innanzitutto la personalità; la relazione fisica, eventualmente, poteva essere una conseguenza. Le mie storie avevano sempre seguito questo schema. Con lei però non era andata cosí: prima era arrivato il sesso. Comunque la cosa non mi dava fastidio. Quando stavo con lei, gioivo solo ed esclusivamente del rapporto carnale. Ed era probabile che lei trovasse nei nostri incontri lo stesso genere di appagamento. Ogni volta fra le mie braccia gridava di piacere, e io venivo dentro di lei.
Da quando si era sposata, era la prima volta che faceva sesso con un uomo che non fosse suo marito. Credo che dicesse la verità. Quanto a me, quelle erano le mie prime esperienze con altre donne dopo la separazione (anzi no: in via del tutto eccezionale mi ero trovato nello stesso letto con una ragazza, ma non perché l’avessi voluto io. Di questo episodio parlerò in seguito).
– Sai, le mie amiche sono tutte sposate, – mi disse – e in genere tradiscono il marito. Me ne parlano ogni volta.
– Riciclaggio, – feci.
– Non avrei mai pensato di diventare anch’io come loro.
Gli occhi al soffitto, pensai a Yuzu. Stava facendo le stesse cose che facevamo noi, da qualche parte, con un altro?
Quando lei se ne andava io rimanevo solo, senza nulla con cui tenermi occupato. Nel letto restava ancora l’avvallamento lasciato dal suo corpo. Non avendo voglia di fare niente, mi buttavo su una sedia a sdraio in terrazza e ammazzavo il tempo leggendo. Nella libreria di Amada Tomohiko c’erano soltanto libri vecchi. Qualche romanzo ormai introvabile. Opere che una volta avevano avuto successo, ma poi erano state dimenticate da tutti. A me però quei libri fuori moda piacevano. Cosí condividevo con quel vecchio che non avevo neanche conosciuto la sensazione di essere stato lasciato indietro dalle onde del tempo.
Quando il sole calava, aprivo una bottiglia di vino (all’epoca, comprare ogni tanto una bottiglia di vino − a buon mercato, ovviamente − era il solo lusso che mi concedevo), e ascoltavo dei vecchi lp. La collezione comprendeva solo dischi di musica classica, la metà dei quali di opera lirica. Amada doveva averli maneggiati con molto riguardo, perché non avevano un graffio. Di giorno per lo piú ascoltavo opere liriche, la sera sinfonie di Beethoven o di Schubert.
La relazione con la donna sposata piú vecchia di me mi permetteva di tenere fra le braccia a intervalli regolari un corpo femminile, facendomi ritrovare una certa tranquillità. Il contatto con la morbida pelle di una donna matura placava almeno un poco il mio senso di insoddisfazione. Se non altro, mentre stavo con lei, riuscivo a mettere da parte dubbi e paure. Però non mi aiutava a farmi venire in mente qualcosa da dipingere, su questo fronte la situazione non si sbloccava. Ogni tanto facevo degli schizzi a matita di lei nuda sul letto. La maggior parte erano disegni pornografici. Il mio sesso che la penetrava, lei che prendeva il mio membro in bocca. A lei quei disegni piacevano, anche se la facevano arrossire. La maggior parte delle donne sarebbero furenti di venire fotografate nei momenti di intimità, proverebbero sospetto e disgusto nei confronti di un amante che facesse una cosa del genere. Ma davanti a un disegno veloce, e per di piú fatto bene, di solito sono contente. Perché contiene il calore della vita, non ha la freddezza meccanica della fotografia. Eppure, per quanto bene mi venissero quei disegni, non riuscivo a trovare un soggetto che mi ispirasse veramente.
La pittura astratta, che prediligevo da studente, ormai non mi diceva piú nulla. Se mi voltavo indietro a considerare quelle opere, quadri che avevo dipinto come in trance, adesso mi apparivano come poco piú che una semplice «ricerca della forma». Da ragazzo, ero fortemente attratto dalla bellezza convenzionale e dall’equilibrio delle forme. Non c’è nulla di male in questo. Peccato però che non fossi riuscito a raggiungere, al di là della bellezza e dell’equilibrio, la necessaria profondità spirituale. Ormai ero in grado di capirlo. Tutto quello che avevo ottenuto allora era il piacere relativamente superficiale di dare forma a qualcosa. Nulla che fosse in grado di scuotere profondamente la mia anima. Ad essere ottimisti, solo un certo acume.
Avevo compiuto trentasei anni. I quaranta non erano lontani. Entro quella data, come pittore dovevo aver trovato la mia strada. Ne ero convinto. Quarant’anni, nella vita di una persona, sono uno spartiacque. Superato il quale, si cambia. Avevo davanti a me ancora quattro anni. Quattro anni passano in un baleno. Aver fatto sempre e solo ritratti costituiva già, nella mia vita, una lunga deviazione. Dovevo sforzarmi di portare di nuovo il tempo dalla mia parte.
Mentre abitavo in quella casa fra i monti, mi venne voglia di avere qualche informazione in piú sul proprietario. Fino ad allora non avevo nutrito alcun interesse per la corrente di pittura nihonga e, anche se avevo sentito il nome di Amada Tomohiko e sapevo che era il padre del mio amico, ignoravo tutto di lui e dei quadri che dipingeva. Nel suo campo era un maestro, ma non coltivava la propria fama, non appariva mai in pubblico e viveva solo, conducendo una tranquilla − se non asociale − vita di lavoro. Di lui non sapevo altro.
Tuttavia, a forza di ascoltare sul suo stereo i dischi della sua collezione, leggere i libri che prendevo nella sua libreria, dormire nel suo letto, cucinare ogni giorno nella sua cucina ed entrare tutti i momenti nel suo atelier, poco per volta cominciai a provare interesse per la sua persona. Per Amada Tomohiko. Una specie di curiosità, la definirei. Aveva virato verso il nihonga dopo essere tornato da Vienna: uno sviluppo che trovavo affascinante. Non conoscevo i particolari, ma il buon senso mi diceva che non doveva essere stato facile, per un pittore che aveva sempre dipinto in stile occidentale, convertirsi a quello giapponese. Ci vuole forza di volontà per buttar via una tecnica assimilata con fatica in tanti anni. Per ricominciare da zero. Eppure Amada Tomohiko aveva avuto il coraggio per farlo. Doveva essere stata una ragione seria a motivarlo.
Un giorno, terminate le lezioni al Centro culturale, andai alla biblioteca comunale di Odawara a fare qualche ricerca su Amada Tomohiko. La biblioteca possedeva tre magnifici libri illustrati su di lui, anche perché era un pittore locale. Uno conteneva anche i quadri che aveva dipinto in gioventú. Rimasi sorpreso nel constatare che le sue opere di quell’epoca mi facevano venire in mente il mio periodo «astratto». Lo stile non era proprio lo stesso (prima della guerra Amada era stato molto influenzato dal cubismo), ma quell’avida ricerca della forma che vi si scorgeva non era molto diversa dalla mia. Naturalmente, essendo poi diventato un pittore di altissimo livello, nei suoi quadri c’erano comunque una profondità e una forza persuasiva che i miei non avevano. Anche la tecnica era di una qualità sorprendente. Di sicuro all’epoca doveva già essere molto apprezzato. Eppure, a quei quadri giovanili «mancava qualcosa».
Seduto a un tavolo della biblioteca, osservai a lungo le sue opere. Cos’era che mancava? Non riuscivo a capirlo. Arrivai però a una conclusione: il fatto che a quei quadri mancasse qualcosa mi lasciava indifferente. E se l’autore non fosse mai riuscito a trovarlo, la cosa non avrebbe dato fastidio a nessuno. Si trattava di quel tipo di opere. Forse era una cosa crudele da dire, ma era la pura verità. A distanza di settant’anni, era chiaro come il sole.
Voltai le pagine e passai alle opere che aveva dipinto dopo la svolta, seguendo i diversi periodi. Dopo una prima fase in cui mostrava ancora qualche goffaggine, era passato a imitare gli artisti dell’avanguardia, finché gradualmente, ma con sicurezza, aveva trovato il suo stile in seno alla corrente nihonga. Riuscii a seguire la sequenza di quell’evoluzione. A volte c’erano stati dei tentativi, ma mai dei ripensamenti. Da quando aveva messo il suo pennello al servizio del nihonga, i suoi quadri avevano acquisito un carattere originale, unico, e lui doveva esserne ben consapevole. Ed era andato avanti con fiducia e sicurezza in quella direzione. Ormai non provavo piú l’impressione che alle sue opere mancasse qualcosa, come in quelle del periodo giovanile. Piú che di una svolta, si poteva parlare di una sublimazione.
All’inizio di questa nuova fase, come tutti i pittori della corrente nihonga, dipingeva dal vero paesaggi, fiori, cose cosí… A un certo punto però, per un qualche motivo, aveva optato per scene che ricordavano la pittura antica giapponese. Gli era anche successo di ispirarsi a temi del periodo Heian e Kamakura, ma fra tutti preferiva l’inizio del settimo secolo dell’era cristiana, l’epoca di Shōtoku Taishi1, insomma. Ricreava sulla tela, con precisione e senza tentennamenti, i paesaggi, gli eventi storici e le abitudini di quel tempo. Ovviamente non erano cose di cui era stato testimone: ma le aveva viste con gli occhi della mente e sapeva ricrearle come se le avesse davanti in quel momento.
A forza di studiare quelle immagini, ebbi l’impressione che a un certo punto Amada avesse conquistato la capacità di dipingere ciò che gli stava davvero a cuore. Da allora in poi il suo pennello aveva danzato regale sulla tela. La cosa piú straordinaria, nei suoi quadri, era il vuoto. Gli spazi non dipinti, per quanto possa sembrare paradossale. Lasciandoli intatti, riusciva a dare maggior risalto al soggetto raffigurato. Probabilmente è una formula in cui la corrente nihonga eccelle. Per quanto mi riguarda, non ho mai visto in un quadro occidentale una tale estensione di spazio vuoto. Ebbi l’impressione di aver capito, grosso modo, il significato della svolta di Amada Tomohiko. Ciò che continuavo a ignorare era in quale periodo avesse trovato il coraggio di prendere la decisione, e di metterla in atto.
Guardai la nota biografica sul risvolto di copertina. Era nato ad Aso, nella prefettura di Kumamoto, in una famiglia facoltosa; il padre era un proprietario terriero molto influente nella regione. Fin da ragazzo Tomohiko aveva rivelato un grande talento per la pittura. Subito dopo essersi laureato presso l’Accademia di Belle arti di Tōkyō (l’attuale Tōkyō Geijutsu Daigaku2), con grandi speranze per il futuro, era andato a studiare a Vienna e vi era rimasto dal ’36 al ’39. All’inizio del ’39, poco prima che scoppiasse la Seconda guerra mondiale, si era imbarcato su una nave che partiva dal porto di Brema ed era tornato in patria. I suoi anni viennesi erano coincisi con l’ascesa al potere di Hitler. L’Austria era stata annessa alla Germania nel marzo del ’38, quindi il giovane Amada Tomohiko si era trovato a Vienna proprio nel bel mezzo di quel periodo tumultuoso. Non c’era dubbio che fosse stato testimone oculare di eventi storici molto drammatici.
A lui personalmente, però, cos’era successo?
Lessi per intero, su uno dei volumi illustrati, un lungo testo intitolato Studio su Amada Tomohiko, col solo risultato di constatare che non si diceva assolutamente nulla riguardo al periodo da lui trascorso in Austria. L’autore dissertava con dovizia di particolari sul suo percorso di pittore nihonga, percorso iniziato col suo ritorno in Giappone, ma sulle ragioni e le circostanze che avevano determinato «la svolta», che si presumeva fosse avvenuta ai tempi di Vienna, offriva soltanto vaghi indizi, senza troppo approfondire. Cosa aveva fatto Tomohiko in quella città, cosa l’aveva spinto a imprimere al suo stile una sterzata tanto drastica? Non era dato saperlo, restava un mistero.
Tornato in Giappone nel febbraio del ’39, Amada Tomohiko si stabilí nel quartiere di Sendagi a Tōkyō, in una casa in affitto. In quel periodo aveva già abbandonato del tutto lo stile occidentale. Ogni mese riceveva dalla famiglia un assegno piú che sufficiente a provvedere alle spese quotidiane. Era soprattutto la madre, che aveva un debole per lui, a viziarlo. Intanto Tomohiko studiava lo stile nihonga da autodidatta. Pare che diverse volte avesse provato a seguire le lezioni di qualche maestro, ma con scarsi risultati. La modestia non era nella sua natura. Neppure stringere nuove amicizie, coltivare relazioni tranquille e affettuose era nelle sue corde. Ciò che aveva caratterizzato tutta la sua vita era una profonda e radicale indipendenza spirituale.
Alla fine del ’41, dopo l’attacco a Pearl Harbor e l’ingresso definitivo in guerra del Giappone, Tomohiko lasciò l’agitazione di Tōkyō e tornò dalla sua famiglia ad Aso. Non essendo il maggiore dei figli, evitò il fastidio della successione a capo del clan. Gli venne assegnata una piccola casa e una domestica. Lí poté condurre una vita tranquilla, quasi indisturbata dal tumulto della guerra. Che fosse per lui una fortuna o no, a causa di una malformazione polmonare congenita non rischiava di essere chiamato sotto le armi (sempre ammesso che non si trattasse di una finta patologia e che la famiglia non avesse manovrato per evitargli il servizio militare). Non soffriva la fame come il resto della popolazione, e vivendo in una profonda valle fra i monti non aveva da temere attacchi da parte dei bombardieri americani, a meno di qualche errore da parte loro. In quella casa nei pressi di Aso visse da solo fino al ’45, quando la guerra terminò. Avendo tagliato i ponti con la società, nulla di strano che si dedicasse anima e corpo, senza maestri, all’apprendimento delle tecniche del nihonga. Durante quel periodo non espose nemmeno un’opera.
Per Amada Tomohiko, che era andato fino a Vienna sperando in un futuro da pittore famoso e riconosciuto dal mondo intero, non sarà stato facile restare in silenzio per sei anni e sparire, del tutto dimenticato, dall’ambiente artistico. Ma non era una persona che si demoralizzava facilmente. In quel tempo in cui tutti, all’annuncio che le ostilità erano cessate, si sforzavano di uscire dal caos e cercavano con gran fatica di rimettersi in piedi, lui, completamente rigenerato, di fatto fece un nuovo debutto, questa volta come pittore in stile nihonga. Cominciò a esporre poco per volta le opere che aveva accumulato in tutti gli anni passati. La maggior parte dei pittori, durante la guerra, avevano dipinto solo opere patriottiche di ispirazione marziale, per cui il fardello di quei lavori li costringeva ormai al silenzio: sorvegliati dall’esercito di occupazione, erano condannati all’isolamento sociale. Per Amada, in quanto artista emergente, era una grande opportunità, l’occasione per attirare gli sguardi sulle sue opere. Insomma, il tempo era dalla sua parte.
Nella sua nota biografica, altre cose che meritassero di essere raccontate non ce n’erano. Dopo aver raggiunto il successo, aveva condotto una vita per lo piú banale e prevedibile. Si sa che molti artisti, appena si fanno un nome, procedono con passo sicuro verso la propria rovina, ma Amada Tomohiko non era fra questi. Aveva vinto un numero incalcolabile di premi (ma «per evitare distrazioni», a credere alla ragione che adduceva, rifiutava le onorificenze per meriti culturali); era diventato famoso. Le sue quotazioni negli anni erano salite, le sue opere erano esposte in molti luoghi pubblici. Le committenze gli arrivavano di continuo. La sua fama si era estesa anche all’estero. Quel che si dice «andare a gonfie vele, col vento in poppa», insomma. Lui però non si mostrava mai in pubblico. Rifiutava categoricamente di rivestire un ruolo pubblico. Non andava da nessuna parte, né in Giappone né all’estero, neanche quando era invitato. Rintanato nella sua casa sui monti vicino a Odawara (quella in cui ora vivevo io), si era dedicato anima e corpo unicamente alla creazione artistica.
Ormai però aveva novantadue anni, si trovava in un istituto per anziani di Izukōhara, e non capiva la differenza tra un’opera lirica e una padella.
Chiusi il volume illustrato e lo riportai al bibliotecario.
Se il tempo era bello, dopo cena mi sistemavo su una sdraio in terrazza, un bicchiere di vino bianco in mano. E contemplando le stelle che brillavano nel cielo a sud rimuginavo su Amada Tomohiko, chiedendomi se ci fossero degli insegnamenti che potevo trarre dalla sua vita. Sí, dovevano essercene, era ovvio. Il coraggio di dare una svolta alla propria vita, l’importanza di far sí che il tempo fosse dalla propria parte. E innanzitutto, trovare uno stile proprio, dei soggetti originali. Non era facile, è ovvio. Un uomo però, se vuole essere un creatore, deve a tutti i costi realizzare qualcosa. Possibilmente prima dei quarant’anni…
Ma cos’era successo ad Amada Tomohiko, a Vienna? A quali eventi aveva assistito? Cosa l’aveva spinto ad abbandonare per sempre la pittura a olio? Mi immaginavo il giovane Amada che percorreva le vie di Vienna pavesate di vessilli tedeschi, bandiere rosse e nere con la croce uncinata che garrivano al vento. Nella mia fantasia la stagione, chissà perché, era sempre inverno. Tomohiko indossava un cappotto pesante, portava una sciarpa intorno al collo e un berretto da cacciatore ben calcato in testa. Il viso non si vedeva. Nel nevischio che cominciava a cadere, un tram appariva dopo aver svoltato l’angolo. Lui camminava, mentre il suo fiato bianco sembrava prendere nell’aria la forma stessa del silenzio. La gente della città, dentro ai locali ben riscaldati, beveva caffè corretto col rum.
Provai ad accostare gli scenari giapponesi del periodo Asuka3, che Amada aveva dipinto negli anni seguenti, a quelli delle antiche strade di Vienna. Ma per quanti sforzi di immaginazione facessi, non riuscivo a trovarvi nulla in comune.
Un lato della terrazza dava sulla valle, stretta fra monti piú o meno della stessa altezza. Sui versanti, da ambo i lati, c’erano alcune case a notevole distanza l’una dall’altra, immerse nel verde. Di fronte a me, un po’ sulla destra, si notava una grande abitazione moderna. Costruita molto in alto senza badare a spese, piú che una «casa» si poteva definire una «villa», perché con i suoi muri bianchi e le vetrate azzurre era immersa in un’atmosfera di lussuosa eleganza. Articolata su tre piani che seguivano l’inclinazione del pendio, doveva essere l’opera di un architetto di talento. Nella zona, fin da tempi relativamente antichi, c’erano molte seconde case, ma quella villa era sicuramente abitata tutto l’anno, perché la sera le vetrate erano illuminate. Naturalmente poteva darsi che le luci fossero azionate da un timer, per scoraggiare i ladri. Ma sentivo che non era cosí. Le luci si accendevano e si spegnavano in momenti diversi, a seconda dei giorni. A volte tutte le vetrate erano illuminate contemporaneamente, come vetrine su una grande strada commerciale, mentre certe sere l’edificio sprofondava nell’oscurità e restava solo il flebile lucore delle lanterne da giardino a rischiarare la proprietà.
La casa aveva una terrazza rivolta verso valle (simile al ponte piú alto di una nave), dove ogni tanto scorgevo qualcuno. Doveva essere la persona che viveva lí, compariva soprattutto verso il tramonto. Non riuscivo a distinguere se quella piccola figura umana, un’ombra che riceveva la luce di spalle, fosse uomo o donna. Dalla forma però, dai movimenti, dedussi che doveva trattarsi di un uomo. Era sempre solo. Forse non aveva famiglia.
Che tipo di persona poteva mai abitare in un posto del genere? Avendo tempo da perdere, mi sbizzarrivo in supposizioni. Era qualcuno che amava vivere come un eremita su una montagna, lontano dalla società?
Che genere di attività svolgeva? In quell’elegante villa tutta vetrate conduceva un’esistenza libera e raffinata, nessun dubbio in proposito. Di sicuro non aveva bisogno di partire ogni giorno da quel posto cosí isolato per andare a lavorare in città. Probabilmente non aveva problemi economici. Dal suo punto di osservazione, però, doveva pensare che anch’io, da questa parte della valle, non avessi fastidi e passassi le mie giornate placidamente. La maggior parte delle cose, viste da lontano, ci sembrano belle.
Anche quella sera lo vidi. Come me, sedeva in terrazza senza quasi muoversi. Come me, sembrava inseguire i suoi pensieri guardando le stelle che brillavano in cielo. Per lo meno cosí mi parve. Persino nelle circostanze piú felici, la gente ha qualcosa su cui riflettere. Sollevai un poco il mio bicchiere di vino, in un gesto segreto per mostrare la mia solidarietà all’essere umano dall’altra parte della valle.
In quel momento non potevo immaginare che presto quell’uomo sarebbe entrato nella mia vita e vi avrebbe impresso una drastica svolta. Se non ci fosse stato lui, molte cose probabilmente non mi sarebbero accadute. Senza di lui, forse mi sarei lasciato scivolare nelle tenebre senza che nessuno se ne accorgesse.
Col senno di poi, ci si rende conto che la vita è davvero strana. Piena di coincidenze strampalate, quasi incredibili, di sviluppi tortuosi e inimmaginabili. Nel momento in cui le cose accadono, però, anche a osservare la situazione attentamente in ogni aspetto, nella maggior parte dei casi non ci si accorge che sta accadendo qualcosa di anomalo. Quello che vediamo, nella quotidianità ininterrotta, sono eventi del tutto ordinari che si svolgono in modo del tutto normale. È possibile che questi eventi non abbiano alcuna logica. Ma per capire se qualcosa sia logico o no, occorre guardarlo a distanza di tempo.
In ogni caso, in linea generale, a prescindere dalla coerenza dei fatti, a rivelare un qualche significato per lo piú è il risultato finale. Il risultato è una realtà, visibile a tutti, ed esercita un’influenza. Le cause che hanno portato a quel risultato invece non sono facili da determinare. Ancora meno facile è metterci il dito sopra e mostrarle − guardate qui! Ovviamente delle cause ci sono sempre. Senza cause non c’è risultato. Come non si possono fare frittate senza rompere le uova. È la stessa cosa che succede in un effetto domino: una pedina (causa) fa cadere la pedina vicina (causa), la quale a sua volta fa cadere quella vicina (causa). E man mano che questa concatenazione prosegue, alla fine non si capisce piú quale sia stata la causa originaria. O non le si dà piú alcuna importanza. Se addirittura non si preferisce ignorarla. «In conclusione, tante pedine sono cadute una dopo l’altra», si dirà, e il discorso finisce lí. Anche il racconto che sto per farvi, forse, avrà uno sviluppo simile.
Comunque sia, quello di cui devo parlarvi innanzitutto − le prime due pedine, insomma − sono il misterioso vicino che viveva dall’altra parte della valle, e un quadro intitolato L’assassinio del Commendatore. Comincerò dal quadro.
1. 574-622 d. C. Principe reggente per conto di sua zia, l’imperatrice Suiko.
2. Il piú prestigioso istituto universitario del Paese in campo artistico.
3. Il periodo Asuka va dal 538 al 710 d. C.