Capitolo primo
Se la superficie è appannata
Dal maggio di quell’anno
fino all’inizio dell’anno seguente vissi in montagna, all’imbocco
di una stretta valle. L’estate a fondo valle pioveva senza sosta,
ma sulle alture di solito faceva bel tempo. Questo grazie al vento
che soffiava da sud, dal mare. Il vento portava nuvole gonfie
d’acqua che si abbattevano sulla valle e ne risalivano i versanti
scaricando la pioggia di cui erano gonfie. Dato che la casa in cui
vivevo si trovava proprio su un crinale, succedeva spesso che nel
giardino davanti splendesse il sole, mentre sul retro pioveva a
dirotto. All’inizio mi pareva molto strano, ma col tempo mi ci ero
abituato, anzi, finii per trovarlo normale.
Nuvole basse restavano
impigliate qua e là alle pendici dei monti intorno. Spinti dal
vento, filamenti di cotone fluttuavano sulle creste come spiriti
smarriti, venuti dal passato alla ricerca di ricordi perduti. Certi
giorni, volteggiava silenziosamente nella valle una pioggia sottile
e lattiginosa che si poteva scambiare per una neve finissima. Il
vento non cessava mai del tutto, cosí l’estate si poteva
tranquillamente fare a meno del condizionatore.
La casa era piccola e
piuttosto vecchia, ma aveva un grande giardino. Le erbacce vi
crescevano abbastanza rigogliose per offrire rifugio a una famiglia
di gatti − una femmina grigia tigrata coi suoi tre piccoli −,
tranne nei giorni in cui un giardiniere veniva a tagliare l’erba e
allora la famiglia felina si spostava altrove. Forse la gatta non
amava essere disturbata. Aveva un’espressione dura ed era molto
magra, probabilmente riusciva a malapena a sfamarsi.
Da quella casa costruita
in cima al pendio, dalla sua terrazza esposta al vento che soffiava
da sud, si intravedeva il mare fra gli alberi del bosco. Un
pezzettino dell’immenso oceano Pacifico. A sentire un agente
immobiliare che conoscevo, la possibilità di scorgere il mare
(anche una sua porzione cosí piccola) faceva lievitare il prezzo
del terreno, ma a me, che il mare fosse visibile o no, era del
tutto indifferente. Da lassú, quel lembo d’acqua sembrava solo una
scura massa di piombo. Non capivo perché la gente tenesse tanto a
quella vista. Io preferivo osservare i monti tutt’attorno. Col
cambio delle stagioni e le variazioni meteorologiche, il lato
opposto della valle mutava espressione come una creatura viva. E io
mi imprimevo nella mente quella metamorfosi quotidiana, senza
stancarmene mai.
In quel periodo mia
moglie e io ci eravamo separati e avevamo anche preparato le
pratiche per chiedere il divorzio. Poi sono successe delle cose,
diverse cose, e alla fine avevamo deciso di provare a ricominciare
da capo.
Non è facile comprendere
come sia andata, e se dovessi riassumere in due parole la vicenda −
una vicenda in cui il nesso tra cause ed effetti sfuggiva agli
stessi interessati − dovrei parlare banalmente di «accordo
ritrovato»; in ogni caso, nei nove mesi o poco piú intercorsi fra
quelle due fasi di vita matrimoniale (diciamo il primo e il secondo
tempo), la storia aveva trovato uno sbocco, come l’acqua incanalata
fra le pareti rocciose di un istmo.
Poco piú di nove mesi…
Era un periodo di separazione lungo? Breve? Non saprei dirlo.
Quando ci ripenso adesso, a volte mi sembra un tempo vicino
all’eternità, a volte invece ho l’impressione che sia trascorso in
un attimo. La mia sensazione è ogni giorno diversa. Spesso, quando
si fotografa un oggetto, per farne capire la grandezza reale gli si
posa accanto un pacchetto di sigarette, ma nei miei ricordi il
pacchetto a lato dell’immagine si allarga e si restringe a seconda
della disposizione d’animo del momento. Per non so quale motivo,
nella cornice della mia memoria tutto si trasforma di continuo, gli
eventi, gli oggetti, e anche, forse per reazione, quei criteri che
dovrebbero restare immutabili.
Sia chiaro però che
quest’alterazione della memoria non riguarda tutto il mio passato:
non tutti i miei ricordi si gonfiano e si restringono piú o meno a
caso. Conduco una vita piuttosto tranquilla, tutto sommato
ragionevole. Ma nell’arco di quei nove mesi, ecco, ero caduto in
uno stato di confusione assolutamente inspiegabile. Quel periodo
resta per me un’eccezione, qualcosa di estraneo alla mia natura. In
quei giorni ero come un uomo che, mentre nuota in un mare liscio
come l’olio, viene risucchiato da un enorme mulinello dall’origine
sconosciuta.
È senz’altro per lo
stato in cui versavo in quel periodo se, quando ci ripenso (sí, sto
scrivendo a molti anni di distanza), tutto − il nesso fra le cose,
la loro leggerezza o gravità, lontananza o vicinanza − comincia a
vacillare e diventa impreciso; se basta che distolga un attimo gli
occhi perché la sequenza logica degli eventi si alteri in un
istante. Ciononostante, nei limiti della mia intelligenza, ho
intenzione di fare ogni sforzo possibile per portare avanti il
racconto. Può darsi che il tentativo alla fine si riveli inutile,
ma cercherò di attenermi a un criterio di valutazione provvisorio
che ho messo a punto io stesso. Come il nostro nuotatore, che nella
sua impotenza si aggrappa a un’asse di legno che gli vortica
accanto.
La prima cosa che feci
quando traslocai in quella casa fu comprare con una modica spesa
una macchina di seconda mano. La mia precedente automobile era
stata demolita, quindi dovevo procurarmene un’altra. In provincia,
soprattutto quando si vive soli in cima a un monte, una macchina è
indispensabile: anche solo per le compere di tutti i giorni. Da un
concessionario Toyota alla periferia di Odawara trovai una Corolla
Station Wagon a prezzo stracciato. Il colore, che il commesso aveva
definito «azzurro polvere», mi ricordava piuttosto il colorito
livido di un malato cronico. La vettura non aveva fatto molta
strada − il contachilometri segnava soltanto trentaseimila
chilometri −, ma era molto economica perché aveva subito un
incidente. Feci un breve giro di prova: i freni e le gomme
sembravano a posto. Considerando poi che non avevo la necessità di
andare in autostrada, mi potevo accontentare.
La persona che mi aveva
prestato la casa si chiamava Amada Masahiko. Era un mio vecchio
compagno dell’Accademia. Aveva due anni piú di me ed era uno dei
pochi con cui avevo davvero legato, continuando a frequentarlo
anche dopo aver finito la scuola. Preso il diploma, Amada Masahiko
aveva rinunciato a diventare un pittore professionista e aveva
trovato posto come grafico in un’agenzia pubblicitaria. Quando
seppe che mi ero separato e che al momento non sapevo dove abitare,
mi chiamò per dirmi che una casa di proprietà di suo padre era
libera: perché non andavo a vivere lí, cosí avrei anche potuto
fargli da custode? Suo padre era Amada Tomohiko, il famoso pittore,
e sui monti intorno a Odawara possedeva una casa che in origine
usava come atelier, e dove si era poi ritirato a vivere una volta
rimasto vedovo. Dopo dieci anni però, purtroppo, aveva iniziato a
dare chiari segni di demenza senile, cosí era stato ricoverato in
un lussuoso istituto per anziani di Izukōhara e la casa era ormai
disabitata da diversi mesi.
– Non si può certo dire
che sia comoda da raggiungere, è in mezzo ai monti, ma se cerchi la
quiete, be’, quella te la garantisco al cento per cento. Per
dipingere, poi, è l’ambiente ideale. Zero distrazioni, – mi disse
Masahiko.
Quanto all’affitto, era
praticamente simbolico.
– Lasciata a se stessa
finirebbe solo per andare in rovina, potrebbero entrarci i ladri o
c’è il rischio che scoppi un incendio. Se so che ci vive qualcuno,
ecco, sono piú tranquillo. Mi rendo conto tuttavia che per te
sarebbe difficile sentirti a casa tua, se non pagassi proprio
niente. Tieni conto però che, nel caso io ne avessi bisogno, potrei
chiederti di lasciarla con pochissimo preavviso.
Da parte mia non avevo
obiezioni. Le cose che possedevo potevano stare tutte dentro il
bagagliaio di un’utilitaria. Se mi avesse chiesto di traslocare,
potevo farlo in un giorno.
Arrivai in quella casa
alla fine del lungo ponte di festa di inizio maggio. Era una
graziosa costruzione a un piano, in stile occidentale: volendo la
si sarebbe potuta definire un cottage, e per una persona sola era
piú che sufficiente. Si trovava su un crinale, era circondata da
boschi, e nemmeno Masahiko sapeva con certezza fin dove si
estendesse la proprietà. Nel giardino c’erano grandi pini i cui
rami si protendevano in tutte le direzioni, belle rocce ornamentali
qua e là, e un magnifico banano accanto a una lanterna di
pietra.
Masahiko aveva detto
giusto: per essere un posto tranquillo, indubbiamente lo era. Col
senno di poi, però, so che sbagliava quando diceva che nulla, in
quel luogo, avrebbe potuto distrarmi.
Negli otto mesi che
trascorsi in quella valle dopo essermi separato, ebbi due
relazioni. Entrambe le donne erano sposate. Una piú vecchia e una
piú giovane di me. Sia l’una che l’altra erano mie allieve presso
la scuola di pittura dove insegnavo.
Mi si era presentata
l’occasione di fare approcci espliciti, con loro, e l’avevo colta
(cosa che in condizioni normali non avrei mai osato fare. Per
natura sono poco socievole e rifuggo da questo tipo di
comportamento). Né l’una né l’altra si erano tirate indietro. Non
so perché, in entrambi i casi trovai molto facile, addirittura
logico, portarmele a letto. Non provavo alcuno scrupolo a sedurre
delle donne di cui ero l’insegnante. Avere rapporti sessuali con
loro mi sembrava del tutto normale, come chiedere l’ora a una
persona che si incrocia per strada.
La prima era una ragazza
sui venticinque anni, alta, con grandi occhi nerissimi. Aveva seni
piccoli e fianchi stretti. La fronte ampia, bei capelli lisci, e
orecchie troppo grandi rispetto al corpo. Forse non si poteva
definire una vera bellezza, ma aveva un viso interessante e
originale che avrebbe invogliato qualunque pittore a ritrarlo
(infatti, essendo io un pittore, ne ho fatto diverse volte lo
schizzo a carboncino). Non aveva figli. Il marito insegnava storia
in un liceo privato, e la picchiava. Non potendo usare la violenza
a scuola, si sfogava a casa. Però non la colpiva mai in faccia. Se
ho capito che la malmenava è perché sul suo corpo nudo ho notato
qua e là lividi e cicatrici. Lei detestava farsi vedere cosí,
quindi quando si spogliava e faceva l’amore con me, voleva sempre
che la stanza fosse al buio.
Il sesso non le piaceva
molto. Quando la penetravo si lamentava che le facevo male, perché
la sua vagina non era mai abbastanza umida. Avevo un bel prodigarmi
in lunghi preliminari e ungermi di crema lubrificante, non serviva
a granché. Soffriva troppo. Il dolore insopportabile a volte la
faceva urlare.
Ciononostante, voleva
fare sesso con me. Per lo meno, non lo detestava. Come spiegarlo?
Forse cercava volontariamente il dolore. Forse cercava la mancanza
di piacere. Oppure voleva infliggersi una qualche forma di
punizione. La gente, nella vita, persegue ogni sorta di fine. C’era
una cosa però che in quei momenti di sicuro non desiderava:
l’intimità.
Non voleva venire a casa
mia, né che io andassi da lei, di conseguenza con la mia macchina
raggiungevamo un albergo a ore a breve distanza, sulla costa, ed
era sempre lí che facevamo l’amore. Ci incontravamo nel vasto
parcheggio di un ristorante per famiglie, arrivavamo all’albergo
poco dopo l’una del pomeriggio e ne uscivamo poco prima delle tre.
Ogni volta lei portava dei grandi occhiali da sole. Anche se il
cielo era coperto o pioveva. Finché un giorno non venne piú
all’appuntamento. E neanche a lezione. Cosí finí la breve e poco
entusiasmante relazione con quella donna. In tutto, avrò fatto
l’amore con lei quattro o cinque volte.
L’altra donna sposata
con cui ebbi una storia conduceva una vita famigliare serena. Per
lo meno, non sembrava avere particolari problemi. All’epoca (se ben
ricordo) aveva quarantun anni, quindi cinque piú di me. Era minuta,
con un bel viso regolare, e vestiva sempre con gusto. Non aveva un
filo di grasso sulla pancia perché un giorno su due andava in
palestra, e nell’altro faceva yoga. Girava su una Mini rossa. Una
macchina nuova di zecca che nei giorni di sole si vedeva da lontano
un miglio, tanto splendeva. Aveva due figlie, due ragazze iscritte
in un liceo privato di Shōnan1 che costava un occhio
della testa. Lei stessa si era diplomata in quell’istituto. Il
marito era titolare di un’azienda, ma non avevo idea di cosa si
occupasse (né mi interessava saperlo, a dirla tutta).
Non so bene per quale
motivo lei non abbia rifiutato le mie avances fin troppo esplicite.
Magari in quel momento godevo di chissà quale particolare
magnetismo. Un magnetismo che agí su di lei come una calamita (se
cosí si può dire) e l’attirò a me. Oppure il magnetismo non
c’entrava un bel niente, lei cercava soltanto stimoli sessuali
alternativi e si dava il caso che a portata di mano ci fossi
io.
In ogni modo, in quel
periodo ero in grado di offrire senza esitazioni, in modo del tutto
spontaneo, ciò che quella donna cercava, di qualunque cosa si
trattasse. All’inizio anche lei sembrava gioire con estrema
naturalezza di quella relazione. Dal punto di vista fisico (e in
effetti non ce n’erano altri da considerare) il nostro rapporto
funzionava a meraviglia. Facevamo quel che dovevamo fare senza
complicazioni superflue. Questa mancanza di complicazioni aveva
raggiunto quasi un livello concettuale, a volte mi capitava di
rendermene conto nel bel mezzo dell’azione e di restarne un po’
sorpreso io stesso.
A un certo punto però
lei ritrovò il buon senso. Un mattino poco luminoso di inizio
autunno mi chiamò, e nel tono di chi legge un comunicato ufficiale
mi disse: «D’ora in poi, è meglio che non ci vediamo piú. Perché
tanto, anche se continuassimo a vederci, per noi non ci sarebbe
futuro». O almeno questo era il senso delle sue
parole.
Aveva ragione. Non
avevamo né futuro, né radici.
Quando frequentavo
l’Accademia, facevo soprattutto pittura astratta. Con la parola
«astratta» intendo un campo piuttosto vasto, non saprei spiegarne
né i temi né le forme, ma in ogni caso si trattava di quadri in cui
«dipingevo liberamente, senza limitazioni, immagini non
figurative». Avevo già partecipato a diverse mostre e ricevuto
qualche premio. Ero stato citato su riviste specializzate. Non
erano pochi gli insegnanti e i compagni che apprezzavano le mie
opere e mi incoraggiavano. Senza arrivare al punto di nutrire
grandi speranze per il futuro, pensavo di avere un certo talento
per la pittura. Peccato che per i miei quadri a olio avessi bisogno
di grandi tele e di un grosso atelier, con ovvio aumento delle
spese. Inoltre, inutile dirlo, le probabilità che si presentassero
acquirenti disposti a comprare ingombranti quadri astratti di un
pittore sconosciuto e ad appenderli in casa loro erano vicine a
zero.
Non potendo mantenermi
solo col genere di pittura che mi andava a genio, una volta
diplomato, per guadagnarmi da vivere cominciai a fare ritratti su
commissione. Presidenti di azienda, baroni universitari, membri del
Parlamento, notabili di provincia… indefesso mi misi a riprodurre
le fattezze di quelli che potremmo definire «pilastri della
società» (sullo spessore di questi «pilastri» potevamo discutere a
lungo). Quello che volevano, tutti loro, sempre, era uno stile
realistico, solenne, rassicurante. Quadri semplici, adatti ad
essere appesi nel salotto buono o nell’ufficio di un amministratore
delegato. Insomma, volente o nolente dovevo dipingere dei quadri
che erano l’esatto opposto di quelli a cui io, come pittore, avevo
sempre aspirato. Per quanto metta le mani avanti dicendo che
comunque lo facevo controvoglia, come artista non potevo certo
andarne fiero.
Un mio insegnante
dell’Accademia mi presentò a una piccola agenzia che si occupava di
ritratti su commissione, nel quartiere di Yotsuya. Iniziai a
collaborarvi con un contratto esclusivo. Non che ricevessi uno
stipendio fisso, ma accettando molti incarichi riuscivo a mettere
insieme quanto bastava ai bisogni basilari di un uomo giovane e
ancora celibe; a pagare l’affitto di un alloggetto lungo la linea
ferroviaria Kokubunji, fare piú o meno tre pasti al giorno,
concedermi ogni tanto una bottiglia di vino a buon prezzo, andare
qualche volta al cinema con un’amica… questa era la modesta vita
che conducevo. Quando riuscivo a sfornare un numero di ritratti
sufficiente a garantirmi il necessario, il resto del tempo potevo
dipingere quello che mi pareva. Per alcuni anni andai avanti cosí.
Ovviamente per me fare ritratti era solo un mezzo per mettere
insieme il pranzo con la cena, e non avevo alcuna intenzione di
continuare all’infinito.
Non che fosse stancante,
anzi. In confronto ai lavori temporanei che avevo fatto da studente
− traslocatore, commesso in un piccolo supermercato − era una
passeggiata, dal punto di vista sia fisico che mentale. Una volta
colte le caratteristiche essenziali di un volto, il processo poi
era sempre lo stesso e andava avanti da solo: terminare il ritratto
non richiedeva molto tempo. Non era tanto diverso dal mettere il
«pilota automatico» su un aereo.
Dopo un anno, tuttavia,
i miei ritratti, imprevedibilmente, avevano raggiunto quotazioni
piuttosto alte. I committenti erano soddisfatti e li trovavano
ineccepibili. Se i clienti si lamentano, il lavoro passa ad altri e
si perde l’esclusiva. Al contrario, quando la reputazione del
pittore è buona i contratti aumentano, e anche i compensi a poco a
poco migliorano. Il mondo dei ritrattisti è un settore
professionale a suo modo serio. Nonostante fossi praticamente un
novellino, le richieste fioccavano. E i prezzi salivano. Anche la
persona che gestiva la mia attività valutava positivamente le mie
opere. E fra i committenti c’era chi sosteneva che avevo un «tocco»
particolare.
Perché i miei ritratti
venissero tanto apprezzati non saprei dirlo nemmeno io. Da parte
mia non ci mettevo molta passione, mi limitavo a eseguire di volta
in volta il compito che mi veniva assegnato. Ad essere sincero, se
dovessi dire a chi abbia fatto il ritratto, non mi ricordo nemmeno
una faccia. Tuttavia volevo essere un pittore, e quando prendevo in
mano i pennelli e mi mettevo, seppur controvoglia, di fronte a una
tela, non riuscivo a dipingere qualcosa che per me non avesse un
qualche valore, di qualunque genere di opera si trattasse.
Altrimenti avrei tradito la mia anima artistica e svilito la mia
professione. Invece cosí, per lo meno, non avevo nulla di cui
vergognarmi, anche se non ero fiero del risultato. Credo si possa
chiamarla deontologia. Per quel che mi riguardava, sapevo soltanto
che «non avrei potuto comportarmi diversamente».
Nel fare un ritratto,
fin dall’inizio della mia carriera, ho sempre adottato la stessa
tecnica. Prima di tutto, non facevo mai il ritratto dal vivo.
Quando ricevevo un ordine, esigevo di incontrare il cliente. Gli
chiedevo un’ora del suo tempo per parlare con lui faccia a faccia.
Una semplice conversazione. Non facevo alcuno schizzo. Gli ponevo
delle domande − quand’era nato, dove, in quale tipo di famiglia,
com’era stata la sua infanzia, quali scuole aveva frequentato… che
lavoro faceva, com’era composta la sua attuale famiglia, in che
modo aveva raggiunto il suo rango sociale… questo tipo di cose − e
lui rispondeva. Parlavamo anche della sua vita quotidiana e dei
suoi hobby. La maggior parte della gente parla volentieri di sé. E
ci mette anche un discreto entusiasmo (forse perché di solito non
trova orecchie disposte ad ascoltare questo genere di discorsi). Un
incontro che all’inizio era previsto durasse un’ora, a volte si
prolungava per due o tre. Alla fine pregavo l’interessato di
prestarmi cinque o sei fotografie sue. Banali istantanee scattate
con naturalezza, scene di vita quotidiana. In certi casi (non
sempre), chiedevo il permesso di fotografarlo con la mia macchina
da diverse angolazioni. E questo era tutto.
– Non è necessario che
mi metta in posa, che resti fermo? – mi domandavano preoccupati
alcuni clienti. Era quello che si aspettavano. Pensavano che il
pittore prendesse un pennello e si piazzasse davanti al cavalletto
con aria concentrata − magari senza basco, ormai −, mentre la
persona che veniva ritratta se ne stava immobile, in rispettoso
silenzio. Vietato muovere un muscolo. Nella loro testa si
proiettavano questo tipo di film.
– Lei preferirebbe fare
cosí? – chiedevo loro. – Per chi non è abituato, posare per un
pittore è piuttosto faticoso. Bisogna restare fermi per ore e ore,
ci si annoia, e i muscoli delle spalle si irrigidiscono. Ma se è
quello che lei desidera, per me va bene.
Com’è ovvio, il
novantanove per cento dei clienti non ne aveva nessuna voglia. La
maggior parte di loro erano persone molto attive e indaffarate.
Oppure anziane e in pensione. Se possibile, preferivano evitare una
simile fatica.
– Esserci incontrati, e
aver parlato, è sufficiente, – li tranquillizzavo io. – Che io la
dipinga dal vivo o meno non ha importanza, non influenza il
risultato. Se non sarà soddisfatto, me ne assumerò la
responsabilità e ricomincerò da capo.
Un paio di settimane
dopo il ritratto era terminato (anche se poi ci vogliono ancora
molti giorni perché i colori si asciughino). Quello di cui avevo
bisogno, piú che l’uomo in carne e ossa davanti a me, era il suo
ricordo (anzi, la presenza del modello poteva persino essere
d’intralcio). Il ricordo di lui e dell’atmosfera che generava.
Bastava trasferirli tali e quali nel quadro. Sembrava che io fossi
dotato per natura di questa particolare memoria visiva. E per un
pittore questo talento − questa particolare facoltà − era un
vantaggio non da poco, un vero e proprio asso nella
manica.
Altra cosa per me
essenziale, nel lavoro, era provare almeno un po’ di simpatia per
il mio cliente. Proprio per questo, durante il nostro primo
incontro di un’ora, mi sforzavo di scovare in lui quanti piú
elementi con i quali mi sentissi in sintonia. Naturalmente c’erano
persone con cui questo era impossibile. Altre che sarei stato
riluttante a frequentare al di fuori dell’ambito professionale, se
avessi dovuto. Ma nel corso di quel breve scambio di opinioni, alla
fine, non era poi cosí difficile trovare uno o due aspetti su cui
basare una simpatia. A saper guardare in fondo all’animo, in
qualunque essere umano c’è una luce che brilla. Quando la si trova,
se la superficie è appannata (e credo siano i casi piú frequenti),
occorre pulirla bene con una stoffa. E cosí, alla fine, quella luce
finisce col brillare anche nell’opera.
Insomma, questa è la
storia di come diventai un pittore specializzato in ritratti. In
quel campo, un campo tutto sommato ristretto, mi feci un nome.
Quando mi sposai sciolsi l’esclusiva con l’agenzia di Yotsuya e,
tramite un’agenzia che operava nel mercato dell’arte, ottenni delle
commissioni a condizioni decisamente migliori. Il mio agente aveva
dieci anni piú di me ed era un tipo tanto efficiente quanto
ambizioso. Fu lui a consigliarmi di diventare indipendente – solo
cosí avrei avuto incarichi piú importanti. Da allora feci il
ritratto di un gran numero di persone (per lo piú gente del mondo
degli affari e della politica; uomini molto noti nel loro campo,
dei quali però io non avevo quasi mai sentito parlare) e guadagnai
abbastanza bene. Non si può dire, però, che sia mai diventato
davvero famoso. Il mondo dei ritrattisti funziona in modo diverso
da quello della pittura in generale. Anche da quello della
fotografia. Un fotografo specializzato in ritratti può acquisire
una certa reputazione, farsi un nome. A un pittore ritrattista
questo non succede quasi mai. Accade raramente che una sua opera
esca dalle mura di una casa. Non verrà recensita su riviste d’arte,
né esposta in una galleria. Resterà semplicemente appesa in qualche
salotto, dove a poco a poco si coprirà di polvere e verrà
dimenticata. E se a volte qualcuno si soffermerà a contemplarla
(uno che abbia tempo da perdere), non chiederà certo il nome di chi
l’ha dipinta.
A volte mi sentivo come
una escort di lusso che lavora nel mondo della pittura. Dovevo
svolgere un determinato compito, senza sbavature, con padronanza
delle tecniche e tutto lo scrupolo possibile. Avevo talento, e
riuscivo a soddisfare ogni cliente. Era qualcosa che richiedeva un
alto grado di professionalità, ma bisognava lo stesso metterci un
po’ di sentimento. Il mio lavoro non costava poco, ma i clienti
pagavano senza batter ciglio. Del resto erano persone che non
avevano problemi a porre mano al portafoglio. E con il passaparola
il mio talento si faceva conoscere. Insomma, i committenti non mi
mancavano e l’agenda era sempre piena. Desiderio e piacere, da
parte mia, zero.
Non ero diventato quel
genere di pittore, e neppure quel genere di persona, perché davvero
lo desiderassi. Il fatto è che, abbandonandomi passivamente al
corso degli eventi, a un certo punto avevo rinunciato a dipingere
seguendo la mia ispirazione. Uno dei motivi era perché, essendomi
sposato, dovevo garantire una certa stabilità economica a me e mia
moglie, ma non era il solo. La verità è che l’aspirazione a
dipingere per il mio piacere si era forse indebolita già prima. La
vita matrimoniale era solo una scusa. Ormai avevo raggiunto un’età
alla quale non mi si poteva piú definire giovane, e qualcosa dentro
di me − una specie di fuoco che mi ardeva nel petto – si stava
spegnendo. A poco a poco dimenticai la sensazione di calore che
quella fiamma mi trasmetteva.
Avrei dovuto tirarmi
fuori da quella condizione. Fare qualcosa. Invece continuai a
rimandare. Chi vi mise un termine prima di me fu mia moglie.
All’epoca avevo trentasei anni.
1. Cittadina nella
prefettura di Kanagawa, sull’isola di Enoshima, a sudovest di
Tōkyō.