Capitolo primo
Se la superficie è appannata
Dal maggio di quell’anno fino all’inizio dell’anno seguente vissi in montagna, all’imbocco di una stretta valle. L’estate a fondo valle pioveva senza sosta, ma sulle alture di solito faceva bel tempo. Questo grazie al vento che soffiava da sud, dal mare. Il vento portava nuvole gonfie d’acqua che si abbattevano sulla valle e ne risalivano i versanti scaricando la pioggia di cui erano gonfie. Dato che la casa in cui vivevo si trovava proprio su un crinale, succedeva spesso che nel giardino davanti splendesse il sole, mentre sul retro pioveva a dirotto. All’inizio mi pareva molto strano, ma col tempo mi ci ero abituato, anzi, finii per trovarlo normale.
Nuvole basse restavano impigliate qua e là alle pendici dei monti intorno. Spinti dal vento, filamenti di cotone fluttuavano sulle creste come spiriti smarriti, venuti dal passato alla ricerca di ricordi perduti. Certi giorni, volteggiava silenziosamente nella valle una pioggia sottile e lattiginosa che si poteva scambiare per una neve finissima. Il vento non cessava mai del tutto, cosí l’estate si poteva tranquillamente fare a meno del condizionatore.
La casa era piccola e piuttosto vecchia, ma aveva un grande giardino. Le erbacce vi crescevano abbastanza rigogliose per offrire rifugio a una famiglia di gatti − una femmina grigia tigrata coi suoi tre piccoli −, tranne nei giorni in cui un giardiniere veniva a tagliare l’erba e allora la famiglia felina si spostava altrove. Forse la gatta non amava essere disturbata. Aveva un’espressione dura ed era molto magra, probabilmente riusciva a malapena a sfamarsi.
Da quella casa costruita in cima al pendio, dalla sua terrazza esposta al vento che soffiava da sud, si intravedeva il mare fra gli alberi del bosco. Un pezzettino dell’immenso oceano Pacifico. A sentire un agente immobiliare che conoscevo, la possibilità di scorgere il mare (anche una sua porzione cosí piccola) faceva lievitare il prezzo del terreno, ma a me, che il mare fosse visibile o no, era del tutto indifferente. Da lassú, quel lembo d’acqua sembrava solo una scura massa di piombo. Non capivo perché la gente tenesse tanto a quella vista. Io preferivo osservare i monti tutt’attorno. Col cambio delle stagioni e le variazioni meteorologiche, il lato opposto della valle mutava espressione come una creatura viva. E io mi imprimevo nella mente quella metamorfosi quotidiana, senza stancarmene mai.
In quel periodo mia moglie e io ci eravamo separati e avevamo anche preparato le pratiche per chiedere il divorzio. Poi sono successe delle cose, diverse cose, e alla fine avevamo deciso di provare a ricominciare da capo.
Non è facile comprendere come sia andata, e se dovessi riassumere in due parole la vicenda − una vicenda in cui il nesso tra cause ed effetti sfuggiva agli stessi interessati − dovrei parlare banalmente di «accordo ritrovato»; in ogni caso, nei nove mesi o poco piú intercorsi fra quelle due fasi di vita matrimoniale (diciamo il primo e il secondo tempo), la storia aveva trovato uno sbocco, come l’acqua incanalata fra le pareti rocciose di un istmo.
Poco piú di nove mesi… Era un periodo di separazione lungo? Breve? Non saprei dirlo. Quando ci ripenso adesso, a volte mi sembra un tempo vicino all’eternità, a volte invece ho l’impressione che sia trascorso in un attimo. La mia sensazione è ogni giorno diversa. Spesso, quando si fotografa un oggetto, per farne capire la grandezza reale gli si posa accanto un pacchetto di sigarette, ma nei miei ricordi il pacchetto a lato dell’immagine si allarga e si restringe a seconda della disposizione d’animo del momento. Per non so quale motivo, nella cornice della mia memoria tutto si trasforma di continuo, gli eventi, gli oggetti, e anche, forse per reazione, quei criteri che dovrebbero restare immutabili.
Sia chiaro però che quest’alterazione della memoria non riguarda tutto il mio passato: non tutti i miei ricordi si gonfiano e si restringono piú o meno a caso. Conduco una vita piuttosto tranquilla, tutto sommato ragionevole. Ma nell’arco di quei nove mesi, ecco, ero caduto in uno stato di confusione assolutamente inspiegabile. Quel periodo resta per me un’eccezione, qualcosa di estraneo alla mia natura. In quei giorni ero come un uomo che, mentre nuota in un mare liscio come l’olio, viene risucchiato da un enorme mulinello dall’origine sconosciuta.
È senz’altro per lo stato in cui versavo in quel periodo se, quando ci ripenso (sí, sto scrivendo a molti anni di distanza), tutto − il nesso fra le cose, la loro leggerezza o gravità, lontananza o vicinanza − comincia a vacillare e diventa impreciso; se basta che distolga un attimo gli occhi perché la sequenza logica degli eventi si alteri in un istante. Ciononostante, nei limiti della mia intelligenza, ho intenzione di fare ogni sforzo possibile per portare avanti il racconto. Può darsi che il tentativo alla fine si riveli inutile, ma cercherò di attenermi a un criterio di valutazione provvisorio che ho messo a punto io stesso. Come il nostro nuotatore, che nella sua impotenza si aggrappa a un’asse di legno che gli vortica accanto.
La prima cosa che feci quando traslocai in quella casa fu comprare con una modica spesa una macchina di seconda mano. La mia precedente automobile era stata demolita, quindi dovevo procurarmene un’altra. In provincia, soprattutto quando si vive soli in cima a un monte, una macchina è indispensabile: anche solo per le compere di tutti i giorni. Da un concessionario Toyota alla periferia di Odawara trovai una Corolla Station Wagon a prezzo stracciato. Il colore, che il commesso aveva definito «azzurro polvere», mi ricordava piuttosto il colorito livido di un malato cronico. La vettura non aveva fatto molta strada − il contachilometri segnava soltanto trentaseimila chilometri −, ma era molto economica perché aveva subito un incidente. Feci un breve giro di prova: i freni e le gomme sembravano a posto. Considerando poi che non avevo la necessità di andare in autostrada, mi potevo accontentare.
La persona che mi aveva prestato la casa si chiamava Amada Masahiko. Era un mio vecchio compagno dell’Accademia. Aveva due anni piú di me ed era uno dei pochi con cui avevo davvero legato, continuando a frequentarlo anche dopo aver finito la scuola. Preso il diploma, Amada Masahiko aveva rinunciato a diventare un pittore professionista e aveva trovato posto come grafico in un’agenzia pubblicitaria. Quando seppe che mi ero separato e che al momento non sapevo dove abitare, mi chiamò per dirmi che una casa di proprietà di suo padre era libera: perché non andavo a vivere lí, cosí avrei anche potuto fargli da custode? Suo padre era Amada Tomohiko, il famoso pittore, e sui monti intorno a Odawara possedeva una casa che in origine usava come atelier, e dove si era poi ritirato a vivere una volta rimasto vedovo. Dopo dieci anni però, purtroppo, aveva iniziato a dare chiari segni di demenza senile, cosí era stato ricoverato in un lussuoso istituto per anziani di Izukōhara e la casa era ormai disabitata da diversi mesi.
– Non si può certo dire che sia comoda da raggiungere, è in mezzo ai monti, ma se cerchi la quiete, be’, quella te la garantisco al cento per cento. Per dipingere, poi, è l’ambiente ideale. Zero distrazioni, – mi disse Masahiko.
Quanto all’affitto, era praticamente simbolico.
– Lasciata a se stessa finirebbe solo per andare in rovina, potrebbero entrarci i ladri o c’è il rischio che scoppi un incendio. Se so che ci vive qualcuno, ecco, sono piú tranquillo. Mi rendo conto tuttavia che per te sarebbe difficile sentirti a casa tua, se non pagassi proprio niente. Tieni conto però che, nel caso io ne avessi bisogno, potrei chiederti di lasciarla con pochissimo preavviso.
Da parte mia non avevo obiezioni. Le cose che possedevo potevano stare tutte dentro il bagagliaio di un’utilitaria. Se mi avesse chiesto di traslocare, potevo farlo in un giorno.
Arrivai in quella casa alla fine del lungo ponte di festa di inizio maggio. Era una graziosa costruzione a un piano, in stile occidentale: volendo la si sarebbe potuta definire un cottage, e per una persona sola era piú che sufficiente. Si trovava su un crinale, era circondata da boschi, e nemmeno Masahiko sapeva con certezza fin dove si estendesse la proprietà. Nel giardino c’erano grandi pini i cui rami si protendevano in tutte le direzioni, belle rocce ornamentali qua e là, e un magnifico banano accanto a una lanterna di pietra.
Masahiko aveva detto giusto: per essere un posto tranquillo, indubbiamente lo era. Col senno di poi, però, so che sbagliava quando diceva che nulla, in quel luogo, avrebbe potuto distrarmi.
Negli otto mesi che trascorsi in quella valle dopo essermi separato, ebbi due relazioni. Entrambe le donne erano sposate. Una piú vecchia e una piú giovane di me. Sia l’una che l’altra erano mie allieve presso la scuola di pittura dove insegnavo.
Mi si era presentata l’occasione di fare approcci espliciti, con loro, e l’avevo colta (cosa che in condizioni normali non avrei mai osato fare. Per natura sono poco socievole e rifuggo da questo tipo di comportamento). Né l’una né l’altra si erano tirate indietro. Non so perché, in entrambi i casi trovai molto facile, addirittura logico, portarmele a letto. Non provavo alcuno scrupolo a sedurre delle donne di cui ero l’insegnante. Avere rapporti sessuali con loro mi sembrava del tutto normale, come chiedere l’ora a una persona che si incrocia per strada.
La prima era una ragazza sui venticinque anni, alta, con grandi occhi nerissimi. Aveva seni piccoli e fianchi stretti. La fronte ampia, bei capelli lisci, e orecchie troppo grandi rispetto al corpo. Forse non si poteva definire una vera bellezza, ma aveva un viso interessante e originale che avrebbe invogliato qualunque pittore a ritrarlo (infatti, essendo io un pittore, ne ho fatto diverse volte lo schizzo a carboncino). Non aveva figli. Il marito insegnava storia in un liceo privato, e la picchiava. Non potendo usare la violenza a scuola, si sfogava a casa. Però non la colpiva mai in faccia. Se ho capito che la malmenava è perché sul suo corpo nudo ho notato qua e là lividi e cicatrici. Lei detestava farsi vedere cosí, quindi quando si spogliava e faceva l’amore con me, voleva sempre che la stanza fosse al buio.
Il sesso non le piaceva molto. Quando la penetravo si lamentava che le facevo male, perché la sua vagina non era mai abbastanza umida. Avevo un bel prodigarmi in lunghi preliminari e ungermi di crema lubrificante, non serviva a granché. Soffriva troppo. Il dolore insopportabile a volte la faceva urlare.
Ciononostante, voleva fare sesso con me. Per lo meno, non lo detestava. Come spiegarlo? Forse cercava volontariamente il dolore. Forse cercava la mancanza di piacere. Oppure voleva infliggersi una qualche forma di punizione. La gente, nella vita, persegue ogni sorta di fine. C’era una cosa però che in quei momenti di sicuro non desiderava: l’intimità.
Non voleva venire a casa mia, né che io andassi da lei, di conseguenza con la mia macchina raggiungevamo un albergo a ore a breve distanza, sulla costa, ed era sempre lí che facevamo l’amore. Ci incontravamo nel vasto parcheggio di un ristorante per famiglie, arrivavamo all’albergo poco dopo l’una del pomeriggio e ne uscivamo poco prima delle tre. Ogni volta lei portava dei grandi occhiali da sole. Anche se il cielo era coperto o pioveva. Finché un giorno non venne piú all’appuntamento. E neanche a lezione. Cosí finí la breve e poco entusiasmante relazione con quella donna. In tutto, avrò fatto l’amore con lei quattro o cinque volte.
L’altra donna sposata con cui ebbi una storia conduceva una vita famigliare serena. Per lo meno, non sembrava avere particolari problemi. All’epoca (se ben ricordo) aveva quarantun anni, quindi cinque piú di me. Era minuta, con un bel viso regolare, e vestiva sempre con gusto. Non aveva un filo di grasso sulla pancia perché un giorno su due andava in palestra, e nell’altro faceva yoga. Girava su una Mini rossa. Una macchina nuova di zecca che nei giorni di sole si vedeva da lontano un miglio, tanto splendeva. Aveva due figlie, due ragazze iscritte in un liceo privato di Shōnan1 che costava un occhio della testa. Lei stessa si era diplomata in quell’istituto. Il marito era titolare di un’azienda, ma non avevo idea di cosa si occupasse (né mi interessava saperlo, a dirla tutta).
Non so bene per quale motivo lei non abbia rifiutato le mie avances fin troppo esplicite. Magari in quel momento godevo di chissà quale particolare magnetismo. Un magnetismo che agí su di lei come una calamita (se cosí si può dire) e l’attirò a me. Oppure il magnetismo non c’entrava un bel niente, lei cercava soltanto stimoli sessuali alternativi e si dava il caso che a portata di mano ci fossi io.
In ogni modo, in quel periodo ero in grado di offrire senza esitazioni, in modo del tutto spontaneo, ciò che quella donna cercava, di qualunque cosa si trattasse. All’inizio anche lei sembrava gioire con estrema naturalezza di quella relazione. Dal punto di vista fisico (e in effetti non ce n’erano altri da considerare) il nostro rapporto funzionava a meraviglia. Facevamo quel che dovevamo fare senza complicazioni superflue. Questa mancanza di complicazioni aveva raggiunto quasi un livello concettuale, a volte mi capitava di rendermene conto nel bel mezzo dell’azione e di restarne un po’ sorpreso io stesso.
A un certo punto però lei ritrovò il buon senso. Un mattino poco luminoso di inizio autunno mi chiamò, e nel tono di chi legge un comunicato ufficiale mi disse: «D’ora in poi, è meglio che non ci vediamo piú. Perché tanto, anche se continuassimo a vederci, per noi non ci sarebbe futuro». O almeno questo era il senso delle sue parole.
Aveva ragione. Non avevamo né futuro, né radici.
Quando frequentavo l’Accademia, facevo soprattutto pittura astratta. Con la parola «astratta» intendo un campo piuttosto vasto, non saprei spiegarne né i temi né le forme, ma in ogni caso si trattava di quadri in cui «dipingevo liberamente, senza limitazioni, immagini non figurative». Avevo già partecipato a diverse mostre e ricevuto qualche premio. Ero stato citato su riviste specializzate. Non erano pochi gli insegnanti e i compagni che apprezzavano le mie opere e mi incoraggiavano. Senza arrivare al punto di nutrire grandi speranze per il futuro, pensavo di avere un certo talento per la pittura. Peccato che per i miei quadri a olio avessi bisogno di grandi tele e di un grosso atelier, con ovvio aumento delle spese. Inoltre, inutile dirlo, le probabilità che si presentassero acquirenti disposti a comprare ingombranti quadri astratti di un pittore sconosciuto e ad appenderli in casa loro erano vicine a zero.
Non potendo mantenermi solo col genere di pittura che mi andava a genio, una volta diplomato, per guadagnarmi da vivere cominciai a fare ritratti su commissione. Presidenti di azienda, baroni universitari, membri del Parlamento, notabili di provincia… indefesso mi misi a riprodurre le fattezze di quelli che potremmo definire «pilastri della società» (sullo spessore di questi «pilastri» potevamo discutere a lungo). Quello che volevano, tutti loro, sempre, era uno stile realistico, solenne, rassicurante. Quadri semplici, adatti ad essere appesi nel salotto buono o nell’ufficio di un amministratore delegato. Insomma, volente o nolente dovevo dipingere dei quadri che erano l’esatto opposto di quelli a cui io, come pittore, avevo sempre aspirato. Per quanto metta le mani avanti dicendo che comunque lo facevo controvoglia, come artista non potevo certo andarne fiero.
Un mio insegnante dell’Accademia mi presentò a una piccola agenzia che si occupava di ritratti su commissione, nel quartiere di Yotsuya. Iniziai a collaborarvi con un contratto esclusivo. Non che ricevessi uno stipendio fisso, ma accettando molti incarichi riuscivo a mettere insieme quanto bastava ai bisogni basilari di un uomo giovane e ancora celibe; a pagare l’affitto di un alloggetto lungo la linea ferroviaria Kokubunji, fare piú o meno tre pasti al giorno, concedermi ogni tanto una bottiglia di vino a buon prezzo, andare qualche volta al cinema con un’amica… questa era la modesta vita che conducevo. Quando riuscivo a sfornare un numero di ritratti sufficiente a garantirmi il necessario, il resto del tempo potevo dipingere quello che mi pareva. Per alcuni anni andai avanti cosí. Ovviamente per me fare ritratti era solo un mezzo per mettere insieme il pranzo con la cena, e non avevo alcuna intenzione di continuare all’infinito.
Non che fosse stancante, anzi. In confronto ai lavori temporanei che avevo fatto da studente − traslocatore, commesso in un piccolo supermercato − era una passeggiata, dal punto di vista sia fisico che mentale. Una volta colte le caratteristiche essenziali di un volto, il processo poi era sempre lo stesso e andava avanti da solo: terminare il ritratto non richiedeva molto tempo. Non era tanto diverso dal mettere il «pilota automatico» su un aereo.
Dopo un anno, tuttavia, i miei ritratti, imprevedibilmente, avevano raggiunto quotazioni piuttosto alte. I committenti erano soddisfatti e li trovavano ineccepibili. Se i clienti si lamentano, il lavoro passa ad altri e si perde l’esclusiva. Al contrario, quando la reputazione del pittore è buona i contratti aumentano, e anche i compensi a poco a poco migliorano. Il mondo dei ritrattisti è un settore professionale a suo modo serio. Nonostante fossi praticamente un novellino, le richieste fioccavano. E i prezzi salivano. Anche la persona che gestiva la mia attività valutava positivamente le mie opere. E fra i committenti c’era chi sosteneva che avevo un «tocco» particolare.
Perché i miei ritratti venissero tanto apprezzati non saprei dirlo nemmeno io. Da parte mia non ci mettevo molta passione, mi limitavo a eseguire di volta in volta il compito che mi veniva assegnato. Ad essere sincero, se dovessi dire a chi abbia fatto il ritratto, non mi ricordo nemmeno una faccia. Tuttavia volevo essere un pittore, e quando prendevo in mano i pennelli e mi mettevo, seppur controvoglia, di fronte a una tela, non riuscivo a dipingere qualcosa che per me non avesse un qualche valore, di qualunque genere di opera si trattasse. Altrimenti avrei tradito la mia anima artistica e svilito la mia professione. Invece cosí, per lo meno, non avevo nulla di cui vergognarmi, anche se non ero fiero del risultato. Credo si possa chiamarla deontologia. Per quel che mi riguardava, sapevo soltanto che «non avrei potuto comportarmi diversamente».
Nel fare un ritratto, fin dall’inizio della mia carriera, ho sempre adottato la stessa tecnica. Prima di tutto, non facevo mai il ritratto dal vivo. Quando ricevevo un ordine, esigevo di incontrare il cliente. Gli chiedevo un’ora del suo tempo per parlare con lui faccia a faccia. Una semplice conversazione. Non facevo alcuno schizzo. Gli ponevo delle domande − quand’era nato, dove, in quale tipo di famiglia, com’era stata la sua infanzia, quali scuole aveva frequentato… che lavoro faceva, com’era composta la sua attuale famiglia, in che modo aveva raggiunto il suo rango sociale… questo tipo di cose − e lui rispondeva. Parlavamo anche della sua vita quotidiana e dei suoi hobby. La maggior parte della gente parla volentieri di sé. E ci mette anche un discreto entusiasmo (forse perché di solito non trova orecchie disposte ad ascoltare questo genere di discorsi). Un incontro che all’inizio era previsto durasse un’ora, a volte si prolungava per due o tre. Alla fine pregavo l’interessato di prestarmi cinque o sei fotografie sue. Banali istantanee scattate con naturalezza, scene di vita quotidiana. In certi casi (non sempre), chiedevo il permesso di fotografarlo con la mia macchina da diverse angolazioni. E questo era tutto.
– Non è necessario che mi metta in posa, che resti fermo? – mi domandavano preoccupati alcuni clienti. Era quello che si aspettavano. Pensavano che il pittore prendesse un pennello e si piazzasse davanti al cavalletto con aria concentrata − magari senza basco, ormai −, mentre la persona che veniva ritratta se ne stava immobile, in rispettoso silenzio. Vietato muovere un muscolo. Nella loro testa si proiettavano questo tipo di film.
– Lei preferirebbe fare cosí? – chiedevo loro. – Per chi non è abituato, posare per un pittore è piuttosto faticoso. Bisogna restare fermi per ore e ore, ci si annoia, e i muscoli delle spalle si irrigidiscono. Ma se è quello che lei desidera, per me va bene.
Com’è ovvio, il novantanove per cento dei clienti non ne aveva nessuna voglia. La maggior parte di loro erano persone molto attive e indaffarate. Oppure anziane e in pensione. Se possibile, preferivano evitare una simile fatica.
– Esserci incontrati, e aver parlato, è sufficiente, – li tranquillizzavo io. – Che io la dipinga dal vivo o meno non ha importanza, non influenza il risultato. Se non sarà soddisfatto, me ne assumerò la responsabilità e ricomincerò da capo.
Un paio di settimane dopo il ritratto era terminato (anche se poi ci vogliono ancora molti giorni perché i colori si asciughino). Quello di cui avevo bisogno, piú che l’uomo in carne e ossa davanti a me, era il suo ricordo (anzi, la presenza del modello poteva persino essere d’intralcio). Il ricordo di lui e dell’atmosfera che generava. Bastava trasferirli tali e quali nel quadro. Sembrava che io fossi dotato per natura di questa particolare memoria visiva. E per un pittore questo talento − questa particolare facoltà − era un vantaggio non da poco, un vero e proprio asso nella manica.
Altra cosa per me essenziale, nel lavoro, era provare almeno un po’ di simpatia per il mio cliente. Proprio per questo, durante il nostro primo incontro di un’ora, mi sforzavo di scovare in lui quanti piú elementi con i quali mi sentissi in sintonia. Naturalmente c’erano persone con cui questo era impossibile. Altre che sarei stato riluttante a frequentare al di fuori dell’ambito professionale, se avessi dovuto. Ma nel corso di quel breve scambio di opinioni, alla fine, non era poi cosí difficile trovare uno o due aspetti su cui basare una simpatia. A saper guardare in fondo all’animo, in qualunque essere umano c’è una luce che brilla. Quando la si trova, se la superficie è appannata (e credo siano i casi piú frequenti), occorre pulirla bene con una stoffa. E cosí, alla fine, quella luce finisce col brillare anche nell’opera.
Insomma, questa è la storia di come diventai un pittore specializzato in ritratti. In quel campo, un campo tutto sommato ristretto, mi feci un nome. Quando mi sposai sciolsi l’esclusiva con l’agenzia di Yotsuya e, tramite un’agenzia che operava nel mercato dell’arte, ottenni delle commissioni a condizioni decisamente migliori. Il mio agente aveva dieci anni piú di me ed era un tipo tanto efficiente quanto ambizioso. Fu lui a consigliarmi di diventare indipendente – solo cosí avrei avuto incarichi piú importanti. Da allora feci il ritratto di un gran numero di persone (per lo piú gente del mondo degli affari e della politica; uomini molto noti nel loro campo, dei quali però io non avevo quasi mai sentito parlare) e guadagnai abbastanza bene. Non si può dire, però, che sia mai diventato davvero famoso. Il mondo dei ritrattisti funziona in modo diverso da quello della pittura in generale. Anche da quello della fotografia. Un fotografo specializzato in ritratti può acquisire una certa reputazione, farsi un nome. A un pittore ritrattista questo non succede quasi mai. Accade raramente che una sua opera esca dalle mura di una casa. Non verrà recensita su riviste d’arte, né esposta in una galleria. Resterà semplicemente appesa in qualche salotto, dove a poco a poco si coprirà di polvere e verrà dimenticata. E se a volte qualcuno si soffermerà a contemplarla (uno che abbia tempo da perdere), non chiederà certo il nome di chi l’ha dipinta.
A volte mi sentivo come una escort di lusso che lavora nel mondo della pittura. Dovevo svolgere un determinato compito, senza sbavature, con padronanza delle tecniche e tutto lo scrupolo possibile. Avevo talento, e riuscivo a soddisfare ogni cliente. Era qualcosa che richiedeva un alto grado di professionalità, ma bisognava lo stesso metterci un po’ di sentimento. Il mio lavoro non costava poco, ma i clienti pagavano senza batter ciglio. Del resto erano persone che non avevano problemi a porre mano al portafoglio. E con il passaparola il mio talento si faceva conoscere. Insomma, i committenti non mi mancavano e l’agenda era sempre piena. Desiderio e piacere, da parte mia, zero.
Non ero diventato quel genere di pittore, e neppure quel genere di persona, perché davvero lo desiderassi. Il fatto è che, abbandonandomi passivamente al corso degli eventi, a un certo punto avevo rinunciato a dipingere seguendo la mia ispirazione. Uno dei motivi era perché, essendomi sposato, dovevo garantire una certa stabilità economica a me e mia moglie, ma non era il solo. La verità è che l’aspirazione a dipingere per il mio piacere si era forse indebolita già prima. La vita matrimoniale era solo una scusa. Ormai avevo raggiunto un’età alla quale non mi si poteva piú definire giovane, e qualcosa dentro di me − una specie di fuoco che mi ardeva nel petto – si stava spegnendo. A poco a poco dimenticai la sensazione di calore che quella fiamma mi trasmetteva.
Avrei dovuto tirarmi fuori da quella condizione. Fare qualcosa. Invece continuai a rimandare. Chi vi mise un termine prima di me fu mia moglie. All’epoca avevo trentasei anni.
1. Cittadina nella prefettura di Kanagawa, sull’isola di Enoshima, a sudovest di Tōkyō.