Capitolo venticinquesimo
Quale profonda solitudine la verità può
portare all’essere umano…
Dal tono in cui disse
quelle parole − «Glielo chiedo come favore personale» − capii che
aveva atteso il momento giusto per parlarmi di quello che veramente
aveva a cuore. Se mi aveva invitato quella sera a cena (e insieme a
me il Commendatore) era solo per un motivo: rivelarmi un segreto e
chiedermi qualcosa.
– Se è nelle mie
possibilità… – feci.
Per qualche secondo
Menshiki mi fissò negli occhi.
– Piú che essere nelle
sue possibilità, direi che è qualcosa che soltanto lei può
fare.
Di colpo, non so perché,
mi venne voglia di fumare. Quando mi ero sposato, avevo colto
l’occasione per smettere, e da allora erano passati quasi sette
anni senza che sgarrassi nemmeno una volta. Dato che prima fumavo
molto, togliermi il vizio era stato duro, ma ormai non provavo piú
il desiderio di accendermi nemmeno mezza sigaretta. Eppure in quel
momento immaginai di metterne una fra le labbra, avvicinare
all’estremità la fiamma… «Che bello sarebbe», pensai, per la prima
volta dopo tanto tempo. Mi pareva di sentire addirittura il rumore
del fiammifero.
– Posso sapere di cosa
si tratta? – chiesi alla fine. In realtà non avevo alcuna voglia di
saperlo e avrei preferito cambiare argomento, ma quanto mi aveva
appena detto Menshiki mi obbligava a porgli quella
domanda.
– Per andare dritti al
sodo, vorrei che lei ritraesse quella ragazza.
Era una risposta molto
semplice, eppure mi fu necessario scomporre e ricomporre la frase
nella mia testa piú volte per elaborarla.
– Mi sta chiedendo di
fare il ritratto della ragazza che potrebbe essere sua
figlia?
Menshiki
annuí.
– Esatto. È questa la
cosa che volevo pregarla di fare per me. E anche questa volta, non
dovrebbe basarsi su una fotografia, ma dipingerla dal vivo.
Chiederle di venire nel suo atelier, come quando ha fatto il mio
ritratto. È l’unica condizione che pongo. Quanto al modo in cui la
vorrà dipingere, allo stile, ha carta bianca, mi affido a lei.
Faccia come vuole. Non ho altre richieste.
Per un po’ non seppi
cosa dire. Gli interrogativi che mi si affollavano in testa erano
tantissimi, cosí cominciai dalla questione piú
pratica:
– Scusi, ma come pensa
che io possa convincerla ad accettare? È vero che sono per cosí
dire un vicino di casa, ma non è una ragione sufficiente per
presentarmi di punto in bianco da una ragazza mai vista né
conosciuta, e chiederle di posare per me perché voglio farle il
ritratto.
– È ovvio. Un
comportamento del genere sembrerebbe sospetto, la metterebbe in
allarme.
– Allora ha qualche
buona idea?
Menshiki mi guardò in
silenzio. Poi, come se aprisse piano piano una porta ed entrasse a
passi felpati in un ripostiglio, disse lentamente:
– La verità è che lei la
conosce già. E la ragazza conosce lei.
– Io la
conosco?
– Sí. Si chiama Akikawa
Marie. Sa chi è, vero?
Akikawa Marie. Quel nome
in effetti mi pareva di averlo già sentito. Non riuscivo però a
collegarlo a una faccia. Avevo la testa piena di nebbia. Finché a
un certo punto, di colpo, mi tornò in mente chi era:
– Come no, certo!
Akikawa Marie è una ragazza che viene alle mie lezioni di disegno,
alla scuola di Odawara.
Menshiki
annuí.
– Esatto. Proprio cosí.
Lei è il suo insegnante, la guida nel suo avvicinarsi alla
pittura.
Akikawa Marie era una
ragazzina di tredici anni minuta e taciturna. Una delle allieve che
seguivano il corso per i bambini. In teoria il corso era riservato
agli studenti delle elementari, quindi lei, che frequentava già le
medie, era la piú grande, ma essendo molto tranquilla si era
inserita bene nella classe e non si faceva notare. Sedeva sempre in
un angolo, quasi volesse nascondersi. Se me la ricordavo, era
perché aveva qualcosa che mi faceva pensare a mia sorella. Anche
per età: era piú o meno quella che aveva Komi quando era
morta.
In classe non fiatava.
Quando le davo qualche consiglio, si limitava ad annuire e non
rispondeva mai. E se proprio non poteva fare a meno di parlare,
diceva il minimo indispensabile, al punto che spesso dovevo farle
ripetere la domanda. Sembrava sempre molto tesa e non osava
guardarmi in faccia. Dipingere però le piaceva, e di fronte a un
foglio bianco, con una matita in mano, la sua espressione mutava.
Gli occhi si facevano attenti, nello sguardo concentrato brillava
una luce nuova, intensa. Inoltre i suoi disegni erano interessanti.
Attiravano l’attenzione. Non si poteva ancora dire che fosse brava,
quella ragazzina, ma usava i colori in modo non banale. C’era
qualcosa di speciale, in lei, di enigmatico…
Aveva folti capelli
lunghi che portava sciolti, un viso regolare come quello di una
bambola. Talmente regolare, che guardandolo avevo l’impressione di
uno scollamento dalla realtà. Obiettivamente non potevo fare a meno
di trovarlo armonioso, ma definirlo davvero bello… be’, chiunque
avrebbe esitato. Qualcosa − probabilmente quella rigidità
impacciata che mostrano certe bambine nel periodo dello sviluppo −
impediva il fluire della bellezza che sicuramente c’era in lei. Ma
prima o poi la corrente avrebbe scavato la sua strada e si sarebbe
liberata, facendo forse di Marie una splendida ragazza. Ci voleva
ancora del tempo, però. Mi venne in mente che anche il viso di mia
sorella aveva un po’ quel limite. Spesso mi ero detto che avrebbe
potuto essere molto piú bella.
– Ricapitoliamo. Akikawa
Marie forse è sua figlia. E vive in quella casa sul versante
opposto della valle. Io dovrei chiederle di posare per me e farle
il ritratto. Ho capito bene?
– Sí. Non glielo sto
commissionando, però, non è con questo spirito che le faccio questa
richiesta. La sto pregando di farle il ritratto. Quando l’avrà
terminato, poi, lo vorrei comprare. Se lei sarà d’accordo,
naturalmente. Portarlo qui e appenderlo a una parete di questa casa
per poterlo guardare ogni volta che lo desidero. Ecco quello che
vorrei. Quello che spero, cioè.
Il discorso di Menshiki,
però, non mi convinceva al cento per cento. Un po’ preoccupato mi
domandavo se la cosa sarebbe davvero finita lí.
– E non desidera altro?
È davvero tutto? – chiesi.
Menshiki inspirò
lentamente l’aria. Poi, altrettanto lentamente,
espirò.
– No. Sarò onesto, c’è
un’altra cosa di cui la vorrei pregare.
– Sarebbe?
– Una cosa da nulla, –
rispose Menshiki. Nel tono pacato della sua voce si percepiva una
certa tensione. – Quando la farà posare per ritrarla, vorrei che mi
permettesse di parlarle. Come per caso, come se fossi passato un
momento da casa sua a salutare. Basta una volta sola, e per breve
tempo. Vorrei poter stare nella stessa stanza in cui sta lei,
respirare la stessa aria. Desidero soltanto questo. Non farò
assolutamente nulla che possa arrecare disturbo.
Riflettei su quella
richiesta. E piú ci pensavo, piú mi sentivo a disagio. Per
carattere, il ruolo dell’intermediario non fa per me, sono negato.
Non mi piace essere messo in mezzo alle emozioni altrui, tanto meno
quelle tra due persone, di qualunque tipo di emozioni si tratti.
Ciò che mi chiedeva Menshiki non era per niente nelle mie corde.
Ciononostante avrei voluto fare qualcosa per lui, anche questo era
vero. Dovevo riflettere bene prima di rispondere, essere
prudente.
– A questa cosa
penseremo dopo, – dissi. – Prima di tutto bisogna vedere se Akikawa
Marie accetterà di posare per me. Dobbiamo sapere questo, tanto per
cominciare. È una bambina molto tranquilla, ritrosa come un gatto.
Probabilmente dirà di no. O forse il padre non lo permetterà. Non
sapendo che genere di persona io sia, sarà sospettoso, è
ovvio.
– Conosco bene il
direttore della scuola di pittura, il signor Matsushima, – disse
Menshiki con noncuranza. – Inoltre si dà il caso che io sia uno dei
finanziatori, o mecenati, li chiami come vuole, di quella scuola.
Se Matsushima mette una buona parola, non c’è ragione perché le
cose non vadano nel verso giusto senza troppi problemi. Basta che
dica al padre di Marie che lei è una persona a posto, un pittore
che ha fatto una bella carriera. Che garantisco io per lei. Vedrà
che sarà sufficiente a rassicurarlo.
Quell’uomo aveva
programmato tutto, pensai, e stava portando avanti il suo piano.
Aveva previsto ogni mossa e disposto in anticipo tutte le pedine
sulla scacchiera in base ai suoi calcoli. Nulla era stato lasciato
al caso.
– A occuparsi di Marie
nelle faccende quotidiane, – proseguí Menshiki, – è una zia nubile.
La sorella del padre. La sorella minore per la precisione. Dopo la
morte della cognata è andata a vivere con il fratello e la nipote,
credo di averglielo già detto, e ha fatto da mamma alla bambina. Il
padre è troppo occupato col lavoro per badare alla figlia. Di
conseguenza se la zia sarà d’accordo, praticamente potremo
considerarla cosa fatta. Quando Marie verrà a posare da lei, sarà
probabilmente la zia ad accompagnarla. Si figuri se lascerebbero
una ragazzina andare a casa di un uomo che vive solo, non è nemmeno
immaginabile!
– Sí, ma non sono sicuro
che Marie sia d’accordo, non so se vuole posare per un
quadro.
– Di questo non si
preoccupi, lasci fare a me. Se lei accetta di farle il ritratto,
tutto il resto è affar mio, i problemi pratici li risolvo
io.
Sí, qualunque problema
pratico si fosse presentato, lui l’avrebbe risolto in quattro e
quattr’otto, ne ero convinto, mi dissi considerando le sue parole.
In questo genere di cose era eccezionale. Detto ciò, era opportuno
che io mi facessi coinvolgere in quella vicenda − un bel groviglio
− fino a quel punto? Chi mi garantiva che Menshiki non avesse delle
intenzioni, o un piano, che andava ben oltre quello che mi aveva
appena spiegato?
– Posso esprimere la mia
opinione sinceramente? – chiesi. – Forse dirò una sciocchezza, ma è
il buon senso a farmi parlare.
– Prego, ci mancherebbe!
Dica tutto quello che vuole.
– Scusi, ma prima di
lanciarci nella realizzazione di questo piano, prima di iniziare il
ritratto di Akikawa Marie, non sarebbe meglio che lei cercasse di
scoprire se la ragazza è veramente sua figlia? Se per caso venisse
fuori che non lo è, eviterebbe tante seccature inutili, non crede?
Probabilmente non sarà facile, ma qualche mezzo valido per appurare
la cosa ci dovrebbe essere. E una persona come lei è sicuramente in
grado di trovarlo. Metta che io faccia il ritratto alla ragazza, e
che lei lo appenda nello studio di fianco al suo… pensa che questo
la farebbe avanzare verso la soluzione del problema?
Menshiki lasciò passare
qualche secondo prima di rispondere.
– Nel caso volessi
controllare scientificamente se Marie ha il mio stesso sangue o no,
credo che non avrei difficoltà a farlo. Per quanto complicato, un
modo lo troverei. Però questa verifica non mi
interessa.
– Per quale
motivo?
– Perché non è un
fattore importante. Che Marie sia mia figlia o meno, voglio
dire.
Guardai Menshiki senza
fiatare. Lui scosse la testa, facendo oscillare la sua magnifica
capigliatura, come se fosse il vento a scuoterla. Poi riprese in
tono pacato − il tono che si usa per insegnare a un grosso cagnone
a rispondere a un semplice comando:
– Non sto dicendo che la
cosa mi sia indifferente, è ovvio. Semplicemente non voglio
conoscere a tutti i costi la verità. Può darsi che nelle vene di
Marie scorra il mio stesso sangue. O forse no. Ma supponiamo che io
riesca a provare che sia davvero mia figlia. A quel punto cosa
dovrei fare? Presentarmi da lei e dirle: «Guarda che il tuo vero
padre sono io»? Cercare di ottenere il suo affidamento? Ma si
figuri, nemmeno a pensarci!
Di nuovo scosse
leggermente la testa. Poi si strofinò le mani come se si stesse
scaldando davanti al fuoco in una fredda notte
invernale.
– Adesso Marie vive
tranquilla con il padre e la zia in quella casa. Ha perso la mamma,
ma ha una famiglia relativamente sana… anche se il padre ha una
serie di problemi. Per lo meno è molto attaccata alla zia. A suo
modo può condurre una vita serena. Se tutt’a un tratto saltassi
fuori io a dirle che sono suo padre, che ne ho le prove
scientifiche, che cosa otterrei? Qualcosa di buono? La verità
creerebbe soltanto confusione. Non porterebbe felicità a nessuno.
Me incluso, naturalmente.
– Cioè preferisce
lasciare la situazione cosí com’è, piuttosto che scoprire la
verità.
Menshiki fece il suo
solito gesto di allargare le mani.
– In parole povere, sí.
Ho impiegato molto tempo per arrivare a questa conclusione. Adesso
però sono convinto che sia meglio. D’ora in poi vivrò cosí, con
questo sentimento nel cuore, col pensiero che forse Akikawa Marie è
mia figlia. Seguirò la sua crescita da lontano. Sarà sufficiente.
Tanto, anche se venissi a sapere che sono davvero suo padre, non
per questo sarei piú felice. Anzi, il senso di perdita sarebbe
ancora piú grave. E se invece scoprissi che in realtà non è mia
figlia, forse mi sentirei ancora piú deluso. Probabilmente ne sarei
devastato. In entrambi i casi, non si potrebbero prevedere sviluppi
felici della situazione. Capisce cosa voglio dire,
vero?
– Sí, grosso modo lo
capisco. Razionalmente, cioè. Se fossi al suo posto, però, credo
che vorrei sapere la verità. È un desiderio molto umano, sa, il
voler conoscere la verità a prescindere da ogni considerazione
razionale.
Menshiki
sorrise.
– Questo perché lei è
ancora giovane, – disse. – Quando avrà la mia età, sono sicuro che
riuscirà a comprendermi. Capirà quale profonda solitudine la verità
può portare all’essere umano…
– Quindi lei desidera
soltanto appendere il ritratto di Marie a una parete, per poterlo
guardare ogni giorno pensando alle possibilità che vi sono
nascoste. Nient’altro.
Menshiki
annuí.
– Esatto. Alla verità
inconfutabile, preferisco una possibilità che lasci spazio al
dubbio. Scelgo di affidarmi all’incertezza. Lo trova
strano?
Era ovvio che lo trovavo
strano. O per lo meno non naturale. Forse addirittura malsano.
Comunque era un problema suo, non mio.
Voltai un attimo gli
occhi verso il Commendatore, sempre seduto sullo Steinway. I nostri
sguardi si incrociarono. Lui alzò gli indici di entrambe le mani e
li fece ruotare. Sembrava volermi suggerire di non rispondere, di
rimandare. Poi con l’indice destro indicò l’orologio sul polso
sinistro. Non che lui avesse l’orologio, naturalmente. Voleva dirmi
che era tempo che me ne andassi. Era un consiglio, ma anche un
avvertimento. Decisi di seguirlo.
– Potrebbe attendere
qualche giorno, signor Menshiki? Non so rispondere alla sua
richiesta cosí su due piedi, – dissi. – È una questione delicata,
ho bisogno di pensarci con calma.
Menshiki allargò le
mani.
– Certamente. È
naturale. Ci rifletta quanto vuole, prenda tutto il tempo che le è
necessario. Non ho alcuna intenzione di metterle fretta. Può darsi
che io le stia chiedendo troppo.
Mi alzai e lo ringraziai
per la cena.
– Ah, stavo dimenticando
di dirle una cosa! – fece lui a quel punto, come ricordandosene in
quel momento. – Riguardo ad Amada Tomohiko. Sul suo soggiorno in
Austria con una borsa di studio, e alla sua partenza da Vienna in
tutta fretta poco prima che scoppiasse la Seconda guerra mondiale.
Ne avevamo parlato.
– Sí, è vero. Lo ricordo
bene.
– Ho cercato qualche
informazione in piú. L’argomento interessa anche a me. È una
vecchia storia, non so quanto credibile. In ogni caso, sono voci
che circolano fin da allora. Voci di uno scandalo.
– Uno
scandalo?
– Sí. C’è chi dice che a
Vienna Amada rimase coinvolto in un caso di tentato omicidio, finí
addirittura per creare problemi politici, tanto che l’ambasciata
giapponese a Berlino si mosse e lo fece tornare di nascosto in
patria. Subito dopo l’Anschluss. Conosce questo termine,
vero?
– È l’annessione
dell’Austria alla Germania, nel 1938.
– Esatto. L’Austria
venne annessa alla Germania da Hitler. Al termine di complesse
trattative, i nazisti presero possesso di tutto il territorio
austriaco quasi con la forza, e l’Austria smise di esistere come
nazione indipendente. Nel marzo del ’38, appunto. Da lí
naturalmente nacquero infiniti problemi. Un gran numero di persone
vennero fatte sparire. Assassinate, o uccise in modo che sembrasse
un suicidio. O mandate nei campi di concentramento. È in questo
periodo storico terribile che Amada Tomohiko fa i suoi studi a
Vienna. Stando a quanto si racconta, aveva un’appassionata
relazione con una donna austriaca, ed è a causa di questo legame
che venne coinvolto nel caso di tentato omicidio. La donna faceva
parte di un’organizzazione segreta di dissidenti, formata
soprattutto da studenti universitari, che avevano preparato, pare,
un piano per assassinare un alto ufficiale nazista. Il
coinvolgimento di Amada non piacque né al governo tedesco né a
quello giapponese. Circa un anno e mezzo prima la Germania e il
Giappone avevano firmato un patto di alleanza, patto che portò a
un’intesa sempre piú forte tra i due Paesi. Di conseguenza sia
l’uno che l’altro volevano a tutti i costi evitare l’insorgere di
problemi che interferissero con quest’accordo. Però Amada Tomohiko
in Giappone era già un pittore piuttosto noto, benché fosse ancora
giovane; inoltre era figlio di un importante proprietario terriero
molto influente nella sua regione, un uomo che aveva voce in
capitolo nelle decisioni politiche. Un personaggio come Tomohiko
non lo si poteva eliminare in segreto come niente
fosse.
– Quindi è stato
rispedito in Giappone?
– Esatto. Cioè, piú che
rimpatriato, espulso dall’Austria, direi. Se l’è cavata per il
rotto della cuffia, grazie alle «considerazioni di natura politica»
fatte da qualcuno ai piani alti. Se finivi nelle grinfie della
Gestapo, per il sospetto di reati tanto gravi oltretutto, eri
spacciato. Con o senza prove.
– Ma l’attentato a un
alto ufficiale poi c’è stato?
– Non ce ne fu il tempo,
venne bloccato mentre lo stavano ancora pianificando. C’era una
talpa nell’organizzazione che informava di ogni decisione la
Gestapo. Cosí i membri del gruppo furono arrestati in una
retata.
– Be’, deve essere stato
un caso che ha fatto scalpore, all’epoca.
– No, la cosa strana è
che i giornali non ne parlarono, – disse Menshiki. – Giravano voci,
pettegolezzi, ma non esiste nessun rapporto ufficiale. È un
episodio che si è voluto restasse nell’ombra.
Se le cose stavano cosí,
il Commendatore che Amada aveva dipinto in quel quadro
rappresentava forse un alto ufficiale nazista. Quella scena
raffigurava l’attentato che avrebbe dovuto aver luogo a Vienna nel
1938, poi andato a monte. Un caso in cui erano implicati sia
Tomohiko che la sua amante. Quando il piano era stato sventato, i
due si erano dovuti separare, lei forse era stata uccisa. E lui,
tornato in Giappone, aveva raffigurato simbolicamente quella
vicenda dolorosa in un quadro di scuola nihonga. Trasformata in una
scena di mille anni prima, adattandola al periodo Asuka.
L’assassinio del Commendatore
era sicuramente un’opera che Amada aveva
dipinto per se stesso. Non aveva potuto farne a meno, per
conservare quel ricordo di gioventú, quel ricordo terribile e
sanguinoso. Ecco perché, una volta terminato il quadro, invece di
mostrarlo al pubblico l’aveva impacchettato per bene e nascosto nel
sottotetto di casa sua. Nessuno doveva vederlo.
Poteva anche darsi che
la decisione presa dopo essere tornato in patria − abbandonare una
promettente carriera di pittore in stile occidentale e passare
al nihonga − fosse dovuta anche a quanto era avvenuto a Vienna. Come
se volesse tagliare i ponti con il suo passato.
– Come ha fatto a
procurarsi queste informazioni? – chiesi.
– Non sono andato a
cercare di qua e di là. Ho incaricato un’associazione che conosco.
L’unico problema è che trattandosi di eventi molto lontani nel
tempo non posso garantire che sia tutto vero. Però sono
informazioni che provengono da piú di una fonte, quindi credo che
fondamentalmente ci sia da fidarsi.
– Quindi Amada Tomohiko
aveva un’amante austriaca, membro di un’organizzazione segreta. E
per questo anche lui venne coinvolto nel piano di uccidere un alto
ufficiale nazista.
Menshiki piegò la testa
di lato, pensieroso:
– Se le cose andarono
cosí, fu davvero una storia tragica. Le persone che possono
confermarla sono tutte morte, per cui è difficile sapere se mai
avremo la certezza che sia avvenuta. Comunque, anche ammesso che
sia vero, questo genere di storie sono sempre un po’ gonfiate dalla
distanza temporale. Sembra la trama di un melodramma.
– E non si riesce a
capire fino a che punto lui fosse coinvolto in quel
piano?
– No, impossibile. Mi
sto solo figurando la trama di un melodramma, appunto. Comunque
sia, è per una faccenda di questo genere che Amada Tomohiko dovette
dire addio alla sua amante, o forse non poté fare neanche quello. E
che fu espulso da Vienna, venne imbarcato su una nave nel porto di
Brema e rimandato in Giappone. Qui si rintanò nella campagna di
Aso, dove mantenne un rigoroso silenzio finché durò la guerra, poi,
dopo pochi anni, stupí tutti facendo un nuovo debutto come pittore
della corrente nihonga. Anche questo
risvolto della vicenda ha qualcosa di drammatico, non
crede?
Il discorso su Amada
Tomohiko non andò oltre.
Ferma davanti
all’ingresso, mi attendeva la stessa Infinity nera che mi aveva
portato lí. Continuava a piovere a tratti, appena un’acquerugiola,
l’aria era umida e fredda. Ben presto sarebbe stato necessario
mettere il cappotto.
– Le sono grato di
essere venuto fin quassú, – disse Menshiki. – Porti i miei saluti
al Commendatore.
«Ricambio», mi sussurrò
all’orecchio il Commendatore. Naturalmente lo sentii soltanto io.
Di nuovo ringraziai Menshiki per la cena. Gli dissi che avevo
mangiato meravigliosamente bene. Gli feci i miei complimenti e gli
trasmisi quelli del Commendatore.
– Spero di non averle
guastato la serata, con i futili discorsi che le ho fatto dopo
cena, – disse Menshiki.
– Ma niente affatto, si
immagini! Mi lasci solo un po’ di tempo per darle una
risposta.
–
Certamente.
– Sono lento, io, a
prendere una decisione.
– Allora è come me.
Meglio pensare e ripensare sulle cose piú volte. Tre è meglio di
due. È il mio motto. E se c’è tempo, quattro è meglio di tre. Non
c’è alcuna fretta, faccia con comodo.
L’autista aspettava
tenendo aperta la portiera posteriore. Salii in macchina. Il
Commendatore sarebbe dovuto salire con me, ma non lo vidi. La
vettura percorse la strada asfaltata, uscí dal cancello, poi scese
lentamente lungo il fianco della montagna. Quando la villa bianca
scomparve alla vista, tutto quello che vi era avvenuto quella sera
mi sembrò accaduto in sogno. Poco per volta non riuscii piú a
capire cosa fosse normale e cosa no, cosa fosse reale e cosa
no.
– Tutto quello che si
vede è reale, – mi disse il Commendatore all’orecchio. – Basta
tenere gli occhi aperti e guardare bene. A giudicare c’è sempre
tempo.
Anche tenendo gli occhi
ben aperti, le cose che mi sfuggivano erano tante, pensai. Forse lo
dissi a bassa voce, perché l’autista mi gettò un’occhiata nel
retrovisore. Chiusi gli occhi e mi lasciai sprofondare nel sedile.
Come sarebbe stato bello se avessi potuto rimandare all’infinito
ogni valutazione…
Arrivai a casa poco
prima delle dieci. Andai in bagno a lavarmi i denti, misi il
pigiama, mi infilai nel letto e mi addormentai subito. Naturalmente
feci parecchi sogni. Tutti strampalati e sgradevoli. Infinite
bandiere con la svastica che volteggiavano nelle strade di Vienna,
una grande nave che lasciava il porto di Brema, una fanfara sul
molo, la stanza segreta di Barbablú, Menshiki che suonava lo
Steinway…