Capitolo venticinquesimo
Quale profonda solitudine la verità può portare all’essere umano…
Dal tono in cui disse quelle parole − «Glielo chiedo come favore personale» − capii che aveva atteso il momento giusto per parlarmi di quello che veramente aveva a cuore. Se mi aveva invitato quella sera a cena (e insieme a me il Commendatore) era solo per un motivo: rivelarmi un segreto e chiedermi qualcosa.
– Se è nelle mie possibilità… – feci.
Per qualche secondo Menshiki mi fissò negli occhi.
– Piú che essere nelle sue possibilità, direi che è qualcosa che soltanto lei può fare.
Di colpo, non so perché, mi venne voglia di fumare. Quando mi ero sposato, avevo colto l’occasione per smettere, e da allora erano passati quasi sette anni senza che sgarrassi nemmeno una volta. Dato che prima fumavo molto, togliermi il vizio era stato duro, ma ormai non provavo piú il desiderio di accendermi nemmeno mezza sigaretta. Eppure in quel momento immaginai di metterne una fra le labbra, avvicinare all’estremità la fiamma… «Che bello sarebbe», pensai, per la prima volta dopo tanto tempo. Mi pareva di sentire addirittura il rumore del fiammifero.
– Posso sapere di cosa si tratta? – chiesi alla fine. In realtà non avevo alcuna voglia di saperlo e avrei preferito cambiare argomento, ma quanto mi aveva appena detto Menshiki mi obbligava a porgli quella domanda.
– Per andare dritti al sodo, vorrei che lei ritraesse quella ragazza.
Era una risposta molto semplice, eppure mi fu necessario scomporre e ricomporre la frase nella mia testa piú volte per elaborarla.
– Mi sta chiedendo di fare il ritratto della ragazza che potrebbe essere sua figlia?
Menshiki annuí.
– Esatto. È questa la cosa che volevo pregarla di fare per me. E anche questa volta, non dovrebbe basarsi su una fotografia, ma dipingerla dal vivo. Chiederle di venire nel suo atelier, come quando ha fatto il mio ritratto. È l’unica condizione che pongo. Quanto al modo in cui la vorrà dipingere, allo stile, ha carta bianca, mi affido a lei. Faccia come vuole. Non ho altre richieste.
Per un po’ non seppi cosa dire. Gli interrogativi che mi si affollavano in testa erano tantissimi, cosí cominciai dalla questione piú pratica:
– Scusi, ma come pensa che io possa convincerla ad accettare? È vero che sono per cosí dire un vicino di casa, ma non è una ragione sufficiente per presentarmi di punto in bianco da una ragazza mai vista né conosciuta, e chiederle di posare per me perché voglio farle il ritratto.
– È ovvio. Un comportamento del genere sembrerebbe sospetto, la metterebbe in allarme.
– Allora ha qualche buona idea?
Menshiki mi guardò in silenzio. Poi, come se aprisse piano piano una porta ed entrasse a passi felpati in un ripostiglio, disse lentamente:
– La verità è che lei la conosce già. E la ragazza conosce lei.
– Io la conosco?
– Sí. Si chiama Akikawa Marie. Sa chi è, vero?
Akikawa Marie. Quel nome in effetti mi pareva di averlo già sentito. Non riuscivo però a collegarlo a una faccia. Avevo la testa piena di nebbia. Finché a un certo punto, di colpo, mi tornò in mente chi era:
– Come no, certo! Akikawa Marie è una ragazza che viene alle mie lezioni di disegno, alla scuola di Odawara.
Menshiki annuí.
– Esatto. Proprio cosí. Lei è il suo insegnante, la guida nel suo avvicinarsi alla pittura.
Akikawa Marie era una ragazzina di tredici anni minuta e taciturna. Una delle allieve che seguivano il corso per i bambini. In teoria il corso era riservato agli studenti delle elementari, quindi lei, che frequentava già le medie, era la piú grande, ma essendo molto tranquilla si era inserita bene nella classe e non si faceva notare. Sedeva sempre in un angolo, quasi volesse nascondersi. Se me la ricordavo, era perché aveva qualcosa che mi faceva pensare a mia sorella. Anche per età: era piú o meno quella che aveva Komi quando era morta.
In classe non fiatava. Quando le davo qualche consiglio, si limitava ad annuire e non rispondeva mai. E se proprio non poteva fare a meno di parlare, diceva il minimo indispensabile, al punto che spesso dovevo farle ripetere la domanda. Sembrava sempre molto tesa e non osava guardarmi in faccia. Dipingere però le piaceva, e di fronte a un foglio bianco, con una matita in mano, la sua espressione mutava. Gli occhi si facevano attenti, nello sguardo concentrato brillava una luce nuova, intensa. Inoltre i suoi disegni erano interessanti. Attiravano l’attenzione. Non si poteva ancora dire che fosse brava, quella ragazzina, ma usava i colori in modo non banale. C’era qualcosa di speciale, in lei, di enigmatico…
Aveva folti capelli lunghi che portava sciolti, un viso regolare come quello di una bambola. Talmente regolare, che guardandolo avevo l’impressione di uno scollamento dalla realtà. Obiettivamente non potevo fare a meno di trovarlo armonioso, ma definirlo davvero bello… be’, chiunque avrebbe esitato. Qualcosa − probabilmente quella rigidità impacciata che mostrano certe bambine nel periodo dello sviluppo − impediva il fluire della bellezza che sicuramente c’era in lei. Ma prima o poi la corrente avrebbe scavato la sua strada e si sarebbe liberata, facendo forse di Marie una splendida ragazza. Ci voleva ancora del tempo, però. Mi venne in mente che anche il viso di mia sorella aveva un po’ quel limite. Spesso mi ero detto che avrebbe potuto essere molto piú bella.
– Ricapitoliamo. Akikawa Marie forse è sua figlia. E vive in quella casa sul versante opposto della valle. Io dovrei chiederle di posare per me e farle il ritratto. Ho capito bene?
– Sí. Non glielo sto commissionando, però, non è con questo spirito che le faccio questa richiesta. La sto pregando di farle il ritratto. Quando l’avrà terminato, poi, lo vorrei comprare. Se lei sarà d’accordo, naturalmente. Portarlo qui e appenderlo a una parete di questa casa per poterlo guardare ogni volta che lo desidero. Ecco quello che vorrei. Quello che spero, cioè.
Il discorso di Menshiki, però, non mi convinceva al cento per cento. Un po’ preoccupato mi domandavo se la cosa sarebbe davvero finita lí.
– E non desidera altro? È davvero tutto? – chiesi.
Menshiki inspirò lentamente l’aria. Poi, altrettanto lentamente, espirò.
– No. Sarò onesto, c’è un’altra cosa di cui la vorrei pregare.
– Sarebbe?
– Una cosa da nulla, – rispose Menshiki. Nel tono pacato della sua voce si percepiva una certa tensione. – Quando la farà posare per ritrarla, vorrei che mi permettesse di parlarle. Come per caso, come se fossi passato un momento da casa sua a salutare. Basta una volta sola, e per breve tempo. Vorrei poter stare nella stessa stanza in cui sta lei, respirare la stessa aria. Desidero soltanto questo. Non farò assolutamente nulla che possa arrecare disturbo.
Riflettei su quella richiesta. E piú ci pensavo, piú mi sentivo a disagio. Per carattere, il ruolo dell’intermediario non fa per me, sono negato. Non mi piace essere messo in mezzo alle emozioni altrui, tanto meno quelle tra due persone, di qualunque tipo di emozioni si tratti. Ciò che mi chiedeva Menshiki non era per niente nelle mie corde. Ciononostante avrei voluto fare qualcosa per lui, anche questo era vero. Dovevo riflettere bene prima di rispondere, essere prudente.
– A questa cosa penseremo dopo, – dissi. – Prima di tutto bisogna vedere se Akikawa Marie accetterà di posare per me. Dobbiamo sapere questo, tanto per cominciare. È una bambina molto tranquilla, ritrosa come un gatto. Probabilmente dirà di no. O forse il padre non lo permetterà. Non sapendo che genere di persona io sia, sarà sospettoso, è ovvio.
– Conosco bene il direttore della scuola di pittura, il signor Matsushima, – disse Menshiki con noncuranza. – Inoltre si dà il caso che io sia uno dei finanziatori, o mecenati, li chiami come vuole, di quella scuola. Se Matsushima mette una buona parola, non c’è ragione perché le cose non vadano nel verso giusto senza troppi problemi. Basta che dica al padre di Marie che lei è una persona a posto, un pittore che ha fatto una bella carriera. Che garantisco io per lei. Vedrà che sarà sufficiente a rassicurarlo.
Quell’uomo aveva programmato tutto, pensai, e stava portando avanti il suo piano. Aveva previsto ogni mossa e disposto in anticipo tutte le pedine sulla scacchiera in base ai suoi calcoli. Nulla era stato lasciato al caso.
– A occuparsi di Marie nelle faccende quotidiane, – proseguí Menshiki, – è una zia nubile. La sorella del padre. La sorella minore per la precisione. Dopo la morte della cognata è andata a vivere con il fratello e la nipote, credo di averglielo già detto, e ha fatto da mamma alla bambina. Il padre è troppo occupato col lavoro per badare alla figlia. Di conseguenza se la zia sarà d’accordo, praticamente potremo considerarla cosa fatta. Quando Marie verrà a posare da lei, sarà probabilmente la zia ad accompagnarla. Si figuri se lascerebbero una ragazzina andare a casa di un uomo che vive solo, non è nemmeno immaginabile!
– Sí, ma non sono sicuro che Marie sia d’accordo, non so se vuole posare per un quadro.
– Di questo non si preoccupi, lasci fare a me. Se lei accetta di farle il ritratto, tutto il resto è affar mio, i problemi pratici li risolvo io.
Sí, qualunque problema pratico si fosse presentato, lui l’avrebbe risolto in quattro e quattr’otto, ne ero convinto, mi dissi considerando le sue parole. In questo genere di cose era eccezionale. Detto ciò, era opportuno che io mi facessi coinvolgere in quella vicenda − un bel groviglio − fino a quel punto? Chi mi garantiva che Menshiki non avesse delle intenzioni, o un piano, che andava ben oltre quello che mi aveva appena spiegato?
– Posso esprimere la mia opinione sinceramente? – chiesi. – Forse dirò una sciocchezza, ma è il buon senso a farmi parlare.
– Prego, ci mancherebbe! Dica tutto quello che vuole.
– Scusi, ma prima di lanciarci nella realizzazione di questo piano, prima di iniziare il ritratto di Akikawa Marie, non sarebbe meglio che lei cercasse di scoprire se la ragazza è veramente sua figlia? Se per caso venisse fuori che non lo è, eviterebbe tante seccature inutili, non crede? Probabilmente non sarà facile, ma qualche mezzo valido per appurare la cosa ci dovrebbe essere. E una persona come lei è sicuramente in grado di trovarlo. Metta che io faccia il ritratto alla ragazza, e che lei lo appenda nello studio di fianco al suo… pensa che questo la farebbe avanzare verso la soluzione del problema?
Menshiki lasciò passare qualche secondo prima di rispondere.
– Nel caso volessi controllare scientificamente se Marie ha il mio stesso sangue o no, credo che non avrei difficoltà a farlo. Per quanto complicato, un modo lo troverei. Però questa verifica non mi interessa.
– Per quale motivo?
– Perché non è un fattore importante. Che Marie sia mia figlia o meno, voglio dire.
Guardai Menshiki senza fiatare. Lui scosse la testa, facendo oscillare la sua magnifica capigliatura, come se fosse il vento a scuoterla. Poi riprese in tono pacato − il tono che si usa per insegnare a un grosso cagnone a rispondere a un semplice comando:
– Non sto dicendo che la cosa mi sia indifferente, è ovvio. Semplicemente non voglio conoscere a tutti i costi la verità. Può darsi che nelle vene di Marie scorra il mio stesso sangue. O forse no. Ma supponiamo che io riesca a provare che sia davvero mia figlia. A quel punto cosa dovrei fare? Presentarmi da lei e dirle: «Guarda che il tuo vero padre sono io»? Cercare di ottenere il suo affidamento? Ma si figuri, nemmeno a pensarci!
Di nuovo scosse leggermente la testa. Poi si strofinò le mani come se si stesse scaldando davanti al fuoco in una fredda notte invernale.
– Adesso Marie vive tranquilla con il padre e la zia in quella casa. Ha perso la mamma, ma ha una famiglia relativamente sana… anche se il padre ha una serie di problemi. Per lo meno è molto attaccata alla zia. A suo modo può condurre una vita serena. Se tutt’a un tratto saltassi fuori io a dirle che sono suo padre, che ne ho le prove scientifiche, che cosa otterrei? Qualcosa di buono? La verità creerebbe soltanto confusione. Non porterebbe felicità a nessuno. Me incluso, naturalmente.
– Cioè preferisce lasciare la situazione cosí com’è, piuttosto che scoprire la verità.
Menshiki fece il suo solito gesto di allargare le mani.
– In parole povere, sí. Ho impiegato molto tempo per arrivare a questa conclusione. Adesso però sono convinto che sia meglio. D’ora in poi vivrò cosí, con questo sentimento nel cuore, col pensiero che forse Akikawa Marie è mia figlia. Seguirò la sua crescita da lontano. Sarà sufficiente. Tanto, anche se venissi a sapere che sono davvero suo padre, non per questo sarei piú felice. Anzi, il senso di perdita sarebbe ancora piú grave. E se invece scoprissi che in realtà non è mia figlia, forse mi sentirei ancora piú deluso. Probabilmente ne sarei devastato. In entrambi i casi, non si potrebbero prevedere sviluppi felici della situazione. Capisce cosa voglio dire, vero?
– Sí, grosso modo lo capisco. Razionalmente, cioè. Se fossi al suo posto, però, credo che vorrei sapere la verità. È un desiderio molto umano, sa, il voler conoscere la verità a prescindere da ogni considerazione razionale.
Menshiki sorrise.
– Questo perché lei è ancora giovane, – disse. – Quando avrà la mia età, sono sicuro che riuscirà a comprendermi. Capirà quale profonda solitudine la verità può portare all’essere umano…
– Quindi lei desidera soltanto appendere il ritratto di Marie a una parete, per poterlo guardare ogni giorno pensando alle possibilità che vi sono nascoste. Nient’altro.
Menshiki annuí.
– Esatto. Alla verità inconfutabile, preferisco una possibilità che lasci spazio al dubbio. Scelgo di affidarmi all’incertezza. Lo trova strano?
Era ovvio che lo trovavo strano. O per lo meno non naturale. Forse addirittura malsano. Comunque era un problema suo, non mio.
Voltai un attimo gli occhi verso il Commendatore, sempre seduto sullo Steinway. I nostri sguardi si incrociarono. Lui alzò gli indici di entrambe le mani e li fece ruotare. Sembrava volermi suggerire di non rispondere, di rimandare. Poi con l’indice destro indicò l’orologio sul polso sinistro. Non che lui avesse l’orologio, naturalmente. Voleva dirmi che era tempo che me ne andassi. Era un consiglio, ma anche un avvertimento. Decisi di seguirlo.
– Potrebbe attendere qualche giorno, signor Menshiki? Non so rispondere alla sua richiesta cosí su due piedi, – dissi. – È una questione delicata, ho bisogno di pensarci con calma.
Menshiki allargò le mani.
– Certamente. È naturale. Ci rifletta quanto vuole, prenda tutto il tempo che le è necessario. Non ho alcuna intenzione di metterle fretta. Può darsi che io le stia chiedendo troppo.
Mi alzai e lo ringraziai per la cena.
– Ah, stavo dimenticando di dirle una cosa! – fece lui a quel punto, come ricordandosene in quel momento. – Riguardo ad Amada Tomohiko. Sul suo soggiorno in Austria con una borsa di studio, e alla sua partenza da Vienna in tutta fretta poco prima che scoppiasse la Seconda guerra mondiale. Ne avevamo parlato.
– Sí, è vero. Lo ricordo bene.
– Ho cercato qualche informazione in piú. L’argomento interessa anche a me. È una vecchia storia, non so quanto credibile. In ogni caso, sono voci che circolano fin da allora. Voci di uno scandalo.
– Uno scandalo?
– Sí. C’è chi dice che a Vienna Amada rimase coinvolto in un caso di tentato omicidio, finí addirittura per creare problemi politici, tanto che l’ambasciata giapponese a Berlino si mosse e lo fece tornare di nascosto in patria. Subito dopo l’Anschluss. Conosce questo termine, vero?
– È l’annessione dell’Austria alla Germania, nel 1938.
– Esatto. L’Austria venne annessa alla Germania da Hitler. Al termine di complesse trattative, i nazisti presero possesso di tutto il territorio austriaco quasi con la forza, e l’Austria smise di esistere come nazione indipendente. Nel marzo del ’38, appunto. Da lí naturalmente nacquero infiniti problemi. Un gran numero di persone vennero fatte sparire. Assassinate, o uccise in modo che sembrasse un suicidio. O mandate nei campi di concentramento. È in questo periodo storico terribile che Amada Tomohiko fa i suoi studi a Vienna. Stando a quanto si racconta, aveva un’appassionata relazione con una donna austriaca, ed è a causa di questo legame che venne coinvolto nel caso di tentato omicidio. La donna faceva parte di un’organizzazione segreta di dissidenti, formata soprattutto da studenti universitari, che avevano preparato, pare, un piano per assassinare un alto ufficiale nazista. Il coinvolgimento di Amada non piacque né al governo tedesco né a quello giapponese. Circa un anno e mezzo prima la Germania e il Giappone avevano firmato un patto di alleanza, patto che portò a un’intesa sempre piú forte tra i due Paesi. Di conseguenza sia l’uno che l’altro volevano a tutti i costi evitare l’insorgere di problemi che interferissero con quest’accordo. Però Amada Tomohiko in Giappone era già un pittore piuttosto noto, benché fosse ancora giovane; inoltre era figlio di un importante proprietario terriero molto influente nella sua regione, un uomo che aveva voce in capitolo nelle decisioni politiche. Un personaggio come Tomohiko non lo si poteva eliminare in segreto come niente fosse.
– Quindi è stato rispedito in Giappone?
– Esatto. Cioè, piú che rimpatriato, espulso dall’Austria, direi. Se l’è cavata per il rotto della cuffia, grazie alle «considerazioni di natura politica» fatte da qualcuno ai piani alti. Se finivi nelle grinfie della Gestapo, per il sospetto di reati tanto gravi oltretutto, eri spacciato. Con o senza prove.
– Ma l’attentato a un alto ufficiale poi c’è stato?
– Non ce ne fu il tempo, venne bloccato mentre lo stavano ancora pianificando. C’era una talpa nell’organizzazione che informava di ogni decisione la Gestapo. Cosí i membri del gruppo furono arrestati in una retata.
– Be’, deve essere stato un caso che ha fatto scalpore, all’epoca.
– No, la cosa strana è che i giornali non ne parlarono, – disse Menshiki. – Giravano voci, pettegolezzi, ma non esiste nessun rapporto ufficiale. È un episodio che si è voluto restasse nell’ombra.
Se le cose stavano cosí, il Commendatore che Amada aveva dipinto in quel quadro rappresentava forse un alto ufficiale nazista. Quella scena raffigurava l’attentato che avrebbe dovuto aver luogo a Vienna nel 1938, poi andato a monte. Un caso in cui erano implicati sia Tomohiko che la sua amante. Quando il piano era stato sventato, i due si erano dovuti separare, lei forse era stata uccisa. E lui, tornato in Giappone, aveva raffigurato simbolicamente quella vicenda dolorosa in un quadro di scuola nihonga. Trasformata in una scena di mille anni prima, adattandola al periodo Asuka. L’assassinio del Commendatore era sicuramente un’opera che Amada aveva dipinto per se stesso. Non aveva potuto farne a meno, per conservare quel ricordo di gioventú, quel ricordo terribile e sanguinoso. Ecco perché, una volta terminato il quadro, invece di mostrarlo al pubblico l’aveva impacchettato per bene e nascosto nel sottotetto di casa sua. Nessuno doveva vederlo.
Poteva anche darsi che la decisione presa dopo essere tornato in patria − abbandonare una promettente carriera di pittore in stile occidentale e passare al nihonga − fosse dovuta anche a quanto era avvenuto a Vienna. Come se volesse tagliare i ponti con il suo passato.
– Come ha fatto a procurarsi queste informazioni? – chiesi.
– Non sono andato a cercare di qua e di là. Ho incaricato un’associazione che conosco. L’unico problema è che trattandosi di eventi molto lontani nel tempo non posso garantire che sia tutto vero. Però sono informazioni che provengono da piú di una fonte, quindi credo che fondamentalmente ci sia da fidarsi.
– Quindi Amada Tomohiko aveva un’amante austriaca, membro di un’organizzazione segreta. E per questo anche lui venne coinvolto nel piano di uccidere un alto ufficiale nazista.
Menshiki piegò la testa di lato, pensieroso:
– Se le cose andarono cosí, fu davvero una storia tragica. Le persone che possono confermarla sono tutte morte, per cui è difficile sapere se mai avremo la certezza che sia avvenuta. Comunque, anche ammesso che sia vero, questo genere di storie sono sempre un po’ gonfiate dalla distanza temporale. Sembra la trama di un melodramma.
– E non si riesce a capire fino a che punto lui fosse coinvolto in quel piano?
– No, impossibile. Mi sto solo figurando la trama di un melodramma, appunto. Comunque sia, è per una faccenda di questo genere che Amada Tomohiko dovette dire addio alla sua amante, o forse non poté fare neanche quello. E che fu espulso da Vienna, venne imbarcato su una nave nel porto di Brema e rimandato in Giappone. Qui si rintanò nella campagna di Aso, dove mantenne un rigoroso silenzio finché durò la guerra, poi, dopo pochi anni, stupí tutti facendo un nuovo debutto come pittore della corrente nihonga. Anche questo risvolto della vicenda ha qualcosa di drammatico, non crede?
Il discorso su Amada Tomohiko non andò oltre.
Ferma davanti all’ingresso, mi attendeva la stessa Infinity nera che mi aveva portato lí. Continuava a piovere a tratti, appena un’acquerugiola, l’aria era umida e fredda. Ben presto sarebbe stato necessario mettere il cappotto.
– Le sono grato di essere venuto fin quassú, – disse Menshiki. – Porti i miei saluti al Commendatore.
«Ricambio», mi sussurrò all’orecchio il Commendatore. Naturalmente lo sentii soltanto io. Di nuovo ringraziai Menshiki per la cena. Gli dissi che avevo mangiato meravigliosamente bene. Gli feci i miei complimenti e gli trasmisi quelli del Commendatore.
– Spero di non averle guastato la serata, con i futili discorsi che le ho fatto dopo cena, – disse Menshiki.
– Ma niente affatto, si immagini! Mi lasci solo un po’ di tempo per darle una risposta.
– Certamente.
– Sono lento, io, a prendere una decisione.
– Allora è come me. Meglio pensare e ripensare sulle cose piú volte. Tre è meglio di due. È il mio motto. E se c’è tempo, quattro è meglio di tre. Non c’è alcuna fretta, faccia con comodo.
L’autista aspettava tenendo aperta la portiera posteriore. Salii in macchina. Il Commendatore sarebbe dovuto salire con me, ma non lo vidi. La vettura percorse la strada asfaltata, uscí dal cancello, poi scese lentamente lungo il fianco della montagna. Quando la villa bianca scomparve alla vista, tutto quello che vi era avvenuto quella sera mi sembrò accaduto in sogno. Poco per volta non riuscii piú a capire cosa fosse normale e cosa no, cosa fosse reale e cosa no.
– Tutto quello che si vede è reale, – mi disse il Commendatore all’orecchio. – Basta tenere gli occhi aperti e guardare bene. A giudicare c’è sempre tempo.
Anche tenendo gli occhi ben aperti, le cose che mi sfuggivano erano tante, pensai. Forse lo dissi a bassa voce, perché l’autista mi gettò un’occhiata nel retrovisore. Chiusi gli occhi e mi lasciai sprofondare nel sedile. Come sarebbe stato bello se avessi potuto rimandare all’infinito ogni valutazione…
Arrivai a casa poco prima delle dieci. Andai in bagno a lavarmi i denti, misi il pigiama, mi infilai nel letto e mi addormentai subito. Naturalmente feci parecchi sogni. Tutti strampalati e sgradevoli. Infinite bandiere con la svastica che volteggiavano nelle strade di Vienna, una grande nave che lasciava il porto di Brema, una fanfara sul molo, la stanza segreta di Barbablú, Menshiki che suonava lo Steinway…