Capitolo ventottesimo
Franz Kafka amava i pendii
Quella sera avevo il corso per bambini alla scuola di pittura di Odawara. Il compito del giorno era disegnare una persona. I bambini dovevano formare delle coppie, scegliere fra le matite colorate (o il carboncino) quelle che preferivano, e fare lo schizzo del proprio compagno. Il tempo assegnato era quindici minuti per coppia. Ogni bambino doveva usare solo un foglio del suo album da disegno.
Quando terminarono, li invitai uno dopo l’altro a venire avanti e a mostrare il risultato a tutti, perché ognuno potesse fare liberamente i suoi commenti. Nella piccola classe i bambini erano in fibrillazione. Dopo quel primo tentativo, spiegai loro alcune semplici cose sugli schizzi preparatori. In cosa fossero diversi da un vero e proprio disegno. Dissi che un disegno lo si progetta come un quadro e richiede una certa precisione. Uno schizzo invece coglie una prima impressione. Un’impressione fugace che va raffigurata a grandi linee su un foglio, prima che svanisca dalla nostra mente. In uno schizzo, piú che la precisione, contano l’equilibrio e la rapidità. Anche tra i pittori famosi, dissi, ce n’erano molti che con gli schizzi non se la cavavano tanto bene. A me invece erano sempre riusciti.
Alla fine scelsi come modello una delle bambine, e con il gesso ne feci un rapido schizzo alla lavagna. Tanto per mostrare un esempio concreto. «Wow!»… «Pazzesco!»… «È identica!»… commentavano gli altri incantati. In quel corso, spingere i ragazzi a esprimersi sinceramente era una delle funzioni principali dell’insegnante.
A quel punto chiesi loro di cambiare partner e ricominciare da capo. La seconda volta andò molto meglio. Erano svelti a imparare. Al punto che ero io ad essere ammirato da loro. Naturalmente c’erano bambini piú bravi e altri meno bravi. Ma questo non mi importava. Piú che un modo di disegnare, volevo che acquisissero una maniera nuova di guardare le cose.
La bambina che avevo scelto (di proposito, naturalmente) quel giorno per fare un esempio pratico era Akikawa Marie. L’avevo disegnata alla lavagna, dalla vita in su, con pochi tratti. Non era uno schizzo molto accurato, ma era ben riuscito. Ci avevo messo tre minuti. Mi ero servito di quell’espediente per capire se ero in grado di ritrarla. E avevo capito che Marie per un pittore era una modella straordinaria: celava potenzialità uniche.
Fino ad allora non le avevo mai prestato grande attenzione, la vedevo appena, ma osservandola come possibile soggetto di un quadro, cominciai a provare per lei un interesse molto piú profondo di prima. Non perché fosse graziosa. Era sicuramente una bella ragazzina, ma a guardarla bene nel suo volto si notava un leggero squilibrio. In fondo alla sua espressione un po’ incerta si nascondeva un qualcosa di combattivo. Come un animale agile e scattante acquattato tra l’erba alta.
Se solo fossi riuscito a ricreare quell’impressione! Farlo in tre minuti però, e col gesso, sulla lavagna, era molto difficile. Diciamo pure impossibile. Avevo bisogno di osservare il suo viso senza fretta, di studiarne i diversi elementi. E soprattutto di conoscere meglio lei.
Non cancellai lo schizzo dalla lavagna. Quando i bambini se andarono, rimasi un momento da solo nell’aula, seduto a braccia conserte, e lo studiai. Cercai di capire se nei tratti di quella ragazzina ci fosse qualcosa di Menshiki. Dovetti rinunciare. Se pensavo che gli assomigliasse, gli assomigliava, se pensavo il contrario, non ritrovavo nulla di lui nel viso di Marie. L’unica cosa in cui erano simili erano senz’altro gli occhi. Nello sguardo, nello strano luccichio che appariva un istante all’improvviso, avevano qualcosa in comune.
Quando si scruta il fondo di una sorgente d’acqua, succede di vedere una luminescenza. Occorre osservare bene, però. Tanto piú che il corpo luminoso trema e perde subito la sua forma. Piú ci si sforza di vedere, piú viene il dubbio di aver avuto un’illusione ottica. Invece là in fondo c’è davvero una fonte di luce. Ora, quando si fa il ritratto a un gran numero di persone, capita di percepire, in alcune, quella particolare luminescenza. Sono pochissime. Quella ragazzina − al pari di Menshiki − l’aveva.
La signora di mezza età che stava alla reception, entrata nell’aula per riassettare, si fermò di fianco a me e guardò sorpresa lo schizzo sulla lavagna.
– Ma questa è Akikawa Marie! – disse riconoscendola alla prima occhiata. – È ritratta splendidamente. Sembra che stia per muoversi da un momento all’altro. Che peccato, doverla cancellare!
– La ringrazio, – dissi. Poi mi alzai, presi il cancellino ed eliminai ogni traccia dello schizzo.
Il giorno dopo (sabato), finalmente il Commendatore ricomparve. Non si era piú fatto vedere − per usare le sue parole, non aveva piú assunto una «forma corporea» − dalla sera di martedí, dalla cena a casa di Menshiki. Nel pomeriggio avevo fatto la spesa e dopo essere tornato a casa stavo leggendo un libro in soggiorno, quando udii suonare la campanella nell’atelier. Andai a vedere: il Commendatore era seduto su una mensola con la campanella in mano, la teneva vicino all’orecchio e la scuoteva leggermente. Sembrava che ne stesse controllando il timbro. Appena mi vide smise.
– È da un po’ che non si fa vedere, – dissi.
– Ah, davvero? – fece lui con noncuranza. – Le idee vanno e vengono in un mondo dove il tempo si misura in centinaia, in migliaia di anni. Non in giorni.
– Come ha trovato la cena dal signor Menshiki?
– Ah, sí… be’, era interessante, a suo modo. Non ho potuto assaggiare nulla, naturalmente, ma è stata una gioia per gli occhi. Menshiki è davvero un uomo notevole. Uno che programma bene le cose, a lungo termine. Anche se è preoccupato da tanti pensieri.
– Mi ha fatto una richiesta.
– Già, giusto, – disse il Commendatore senza mostrare grande interesse, guardando la campanella che teneva in mano. – Ho sentito. Non è affar mio, però. È una questione pratica, concreta, che riguarda solo voi e il signor Menshiki.
– Posso farle una domanda?
Il Commendatore si strofinò forte la barba.
– Sí, prego, – disse. – Anche se non so se potrò rispondervi.
– A proposito del quadro di Amada Tomohiko L’assassinio del Commendatore. Lo conosce bene, no? Visto che ha preso l’aspetto di uno dei personaggi che vi compaiono… Ecco, sembra che la scena raffiguri un episodio accaduto a Vienna nel 1938. Un attentato fallito in cui era coinvolto lo stesso Amada. Lei sa qualcosa, al riguardo?
Il Commendatore si mise a braccia conserte e rifletté un po’. Poi strinse leggermente le palpebre e disse:
– Nel corso della storia, ci sono dei destini che conviene lasciare dove si trovano, nell’oscurità. Non è detto che conoscerli porti bene. Non è detto che l’obiettività valga piú della soggettività. Che la verità faccia luce e spazzi via un’idea ingannevole.
– In linea generale può darsi che sia cosí. Qualcosa in quel quadro però… ecco, sí, sembra fare appello allo spettatore, sembra chiamarlo. Ho l’impressione che Amada l’abbia dipinto per raffigurare qualcosa di grave che lui sapeva, ma non poteva rendere di dominio pubblico. Ha spostato i personaggi e la scena in un’altra epoca, e servendosi della tecnica del nihonga, che aveva appena adottato, ha fatto una sorta di confessione. Una confessione in forma metaforica. Comincio addirittura a pensare che abbia abbandonato la pittura occidentale solo a questo scopo.
– Non potremmo lasciare che sia il quadro a esprimersi? – disse il Commendatore in tono pacato. – Se quel quadro ha qualcosa da dire, facciamolo parlare, senza disturbarlo. Senza disturbare le metafore. E i codici. E i setacci. Avete qualcosa in contrario?
I setacci? Non capivo perché di punto in bianco tirasse fuori i setacci, ma non intendevo disturbare nessuno, io.
– Non è che abbia qualcosa in contrario, – risposi. – Vorrei solo conoscere lo sfondo, per cosí dire, di quella scena dipinta da Amada. Perché quell’opera è stata concepita con uno scopo preciso, un obiettivo concreto.
Di nuovo il Commendatore si strofinò la barba, con l’aria di ricordare qualcosa.
– Franz Kafka amava i pendii, – disse poi. – Era attratto da ogni sorta di pendio. Gli piaceva guardare una casa costruita a mezza costa. Si sedeva sul bordo della strada e restava fermo per ore a contemplarla, senza stufarsi. La guardava piegando il capo a destra, a sinistra, tenendolo dritto… era davvero un tipo strano. Lo sapevate, questo?
Che Franz Kafka amava i pendii?
– No, non lo sapevo, – dissi. Non ne avevo neanche mai sentito parlare, di quest’abitudine di Kafka.
– E adesso che lo sapete, pensate di comprendere meglio le sue opere? Sinceramente.
A quella domanda non risposi.
– Ma lei Franz Kafka l’ha conosciuto personalmente? – chiesi.
– Be’, è ovvio che lui non conosceva di persona me –. Dette quelle parole, il Commendatore rise di cuore al ricordo di qualcosa. Era la prima volta che lo vedevo ridere cosí. Mi domandai cosa potesse trovare di tanto divertente in Kafka.
Il Commendatore tornò serio.
– La verità è una rappresentazione, – continuò, – e la rappresentazione è verità. La cosa migliore è accettare cosí com’è la rappresentazione. La ragione, la realtà, l’ombelico del maiale, i testicoli delle formiche… nulla esiste. Se gli esseri umani vogliono seguire la via della comprensione usando un altro mezzo, è come se raccogliessero acqua in un setaccio. Non voglio dire cattiverie, ma quello che sta facendo Menshiki, mi dispiace per lui, ci va molto vicino. Farebbe meglio a lasciar perdere, quell’uomo.
– Insomma, alla fine è sempre tutto inutile? Qualunque tentativo?
– Raccogliere acqua in un recipiente pieno di buchi ha qualche utilità?
– Scusi, ma cosa sta cercando di fare, esattamente, il signor Menshiki?
Il Commendatore scosse leggermente la testa. Fra le sue sopracciglia apparve un’affascinante ruga che mi ricordava Marlon Brando da giovane. Non pensavo che il Commendatore avesse visto il film di Elia Kazan Fronte del porto, ma la sua espressione, in quel momento, era davvero identica a quella di Marlon Brando. Mi chiesi se fosse libero di assumere le sembianze di chi voleva.
– Quello che posso raccontarvi sul quadro di Amada Tomohiko L’assassinio del Commendatore è molto poco, – disse. – Perché è metaforico e ha un significato nascosto. Le implicazioni e le metafore non si possono spiegare a parole. Le si comprende o no –. Il Commendatore si grattò dietro l’orecchio con la punta di un dito, come fanno i gatti quando sta per piovere. – C’è una cosa che vi voglio dire, però. È un dettaglio, ma ascoltate: domani sera vi telefonerà Menshiki. Prima di rispondere a quello che vi chiederà, riflettete attentamente. Non che la vostra risposta, per quanto cauta, possa cambiare qualcosa, ma pensateci bene lo stesso.
– Ed è anche importante che gli faccia capire che sto riflettendo, vero? Un segnale, diciamo.
– Ecco, ecco. Rifiutare la prima offerta è una regola fondamentale, in affari. Ricordatevelo, non ci perderete, – disse il Commendatore, e di nuovo ridacchiò. Pareva di buon umore, quel giorno. – A proposito, anche se non c’entra niente… è divertente toccare un clitoride?
– Emh… be’, non saprei: non lo si tocca perché è divertente, – risposi con sincerità.
– Perché solo guardando, non è che si capisca granché.
– Non credo di capirci molto nemmeno io, sa? – gli dissi. Dunque anche un’idea non era in grado di comprendere tutto.
– Comunque adesso mi dileguo. Ho una «piccola commissione» da fare da un’altra parte. E non ho molto tempo –. Detto ciò, il Commendatore sparí. Gradualmente, come lo Stregatto. Io me ne andai in cucina a prepararmi qualcosa da mangiare. Cenando, mi chiedevo cosa potesse mai essere la «piccola commissione» che aveva da fare il Commendatore. Naturalmente non mi venne in mente nulla.
Come mi aveva annunciato il Commendatore, il giorno dopo, verso le otto di sera, mi chiamò Menshiki.
Per prima cosa lo ringraziai per la cena, gli dissi che avevo mangiato divinamente.
– Per carità, di nulla, di nulla… sono io che la devo ringraziare, è stata davvero una bella serata.
– Grazie anche per la somma che mi ha inviato a saldo del ritratto. È molto piú di quanto avevamo pattuito.
– Ma si figuri, è naturale! Lei ha dipinto per me un’opera straordinaria, quindi non si senta in imbarazzo, – rispose Menshiki. Suonava sincero. Dopo quel doveroso scambio di convenevoli, seguí un breve silenzio.
– A proposito, riguardo ad Akikawa Marie… – buttò lí Menshiki con noncuranza, come se parlasse del tempo. – Ricorda, vero? L’altra sera ne abbiamo discusso, l’ho pregata di farle un ritratto…
– Certo che mi ricordo.
– Bene. Marie acconsentirebbe a posare come modella. Cioè, il direttore della scuola di pittura, il signor Matsushima, ha domandato alla zia se fosse possibile, e la zia ha dato il suo consenso.
– Ah, veramente? – dissi.
– Quindi, se lei accettasse la mia richiesta, il terreno è preparato.
– Sí, però scusi, signor Menshiki… Matsushima non trova strano che sia lei a gestire questa faccenda?
– Oh, ma mi sono mosso con molta cautela. Di questo non si deve preoccupare. Gli ho spiegato che io le faccio per cosí dire da mecenate. Spero che non le dispiaccia…
– No, no, si figuri… – dissi. – Certo che Marie ha fatto in fretta ad accettare… Una bambina cosí taciturna, cosí timida. La credevo piú ritrosa.
– Ad essere sincero, all’inizio la zia non era entusiasta di questa richiesta. Temeva che non fosse una cosa per bene, posare per un pittore. Scusi se lo vengo a dire proprio a lei…
– No, è quello che la gente pensa di solito.
– Invece pare che Marie fosse piuttosto contenta, alla prospettiva di fare da modella. Se a ritrarla è lei, sarà felice di posare. E ha convinto la zia.
Mi chiesi perché. Forse, disegnandola alla lavagna, avevo stabilito con lei un legame di qualche tipo. Questo però a Menshiki non lo dissi.
– Le cose procedono esattamente come speravamo, no? – fece lui.
Ci pensai su. Era davvero cosí? All’altro capo del filo, Menshiki sembrava attendere che esprimessi il mio parere.
– Scusi, potrebbe spiegarmi un po’ meglio come si sono svolte le trattative?
– È molto semplice. Ho detto che lei stava cercando una modella per un quadro. E ha pensato che una sua allieva, Akikawa Marie, fosse la ragazza adatta. Quindi ha ritenuto piú corretto chiedere al direttore della scuola di fare da intermediario con la tutrice della ragazza. E questo è stato il primo passo. Quanto al signor Matsushima, si è incaricato di garantire per lei. Sia come pittore che come persona. Ha detto alla zia che lei è un uomo correttissimo e un insegnante entusiasta, e che grazie al suo straordinario talento ha un brillante futuro davanti. Di me non le ha parlato, io non compaio nella vicenda. Gli avevo raccomandato di non tirarmi in ballo. Naturalmente Marie poserà vestita, e sarà accompagnata dalla zia. Cerchi di non prolungare le sedute oltre mezzogiorno. È la condizione che hanno posto. Allora, cosa mi dice?
Ricordandomi dell’avvertimento del Commendatore (in affari la prima offerta la si rifiuta), frenai l’irruenza di Menshiki.
– Le condizioni mi stanno bene, non ho obiezioni. Però non sono sicuro di voler fare il ritratto di Akikawa Marie. Mi dà ancora un po’ di tempo per pensarci?
– Ma certo! Tutto il tempo che vuole! – disse Menshiki, senza tradire alcun nervosismo. – Non c’è nessuna fretta. Visto che il pittore è lei, è lei che dev’essere convinto, altrimenti non se ne parla neanche. Io mi sono limitato a preparare il terreno, e volevo che lo sapesse. Solo un’altra cosa: scusi se mi permetto, ma il compenso per il lavoro che le chiedo sarebbe davvero soddisfacente, credo.
Le cose stavano correndo troppo, pensai. Tutto stava procedendo in modo sorprendentemente rapido e facile. Come una palla che rotoli giú per un pendio… mi immaginai Franz Kafka seduto sulla strada a guardare la palla che ruzzolava. Dovevo essere piú prudente.
– Mi lascia ancora un paio di giorni? – chiesi. – Dopodomani saprò darle una risposta.
E misi fine alla telefonata.
In realtà, per prendere una decisione non avevo bisogno di tutto quel tempo. In cuor mio avevo già deciso. Morivo dalla voglia di fare il ritratto di Akikawa Marie. Avrei accettato quel lavoro comunque, anche se qualcuno avesse cercato di impedirmelo. Se avevo chiesto quei due giorni era per opporre una qualche resistenza al ritmo di Menshiki. Non avevo altro motivo. L’istinto − o il Commendatore − mi diceva che dovevo fermarmi un momento e fare un respiro profondo.
«È come raccogliere acqua in un setaccio», mi aveva detto il Commendatore. «Raccogliere acqua in un recipiente pieno di buchi ha qualche utilità?»
Mi aveva segnalato qualcosa. Qualcosa che stava arrivando.