Capitolo trentesimo
Credo che per ogni persona sia diverso
Il giorno dopo, nel
pomeriggio, infilai la lettera con i documenti per il divorzio
nella buca delle lettere davanti alla stazione. Non avevo aggiunto
un rigo di mio pugno, mi ero limitato a infilare i moduli nella
busta affrancata. Il fatto che quella busta non fosse piú in casa
mia era sufficiente a farmi sentire meglio, molto piú leggero. Non
sapevo quale percorso legale avrebbero seguito quei documenti, e
non me ne importava niente. Prendessero pure la strada che
volevano.
Il mattino di domenica,
Akikawa Marie arrivò a casa mia poco prima delle dieci. Una Toyota
Prius azzurra venne su dalla salita quasi senza far rumore e si
fermò davanti alla porta di casa. La carrozzeria splendeva, colpita
dai raggi del sole mattutino. La macchina doveva essere nuova di
zecca. Dopo la Jaguar argento di Menshiki, la Mini rossa della mia
amante, l’Infinity nera con tanto d’autista mandata da Menshiki, la
Volvo nera vecchio modello di Masahiko, ecco che davanti
all’ingresso ora si fermava questa Toyota Prius. A guidarla era la
zia di Marie. Ah, non avevo contato la mia Toyota Corolla Station
Wagon, ormai talmente impolverata che non se ne distingueva piú il
colore originale. La gente ha mille motivi diversi per scegliere
una vettura, e io non potevo sapere perché la zia di Marie avesse
scelto una Toyota Prius. In ogni caso, piú che un’automobile,
sembrava un gigantesco aspirapolvere.
Quando il motore,
comunque silenzioso, tacque completamente, la quiete circostante
divenne un poco piú profonda. Le portiere si aprirono, Akikawa
Marie e la zia scesero. Quest’ultima era ancora piuttosto giovane,
dimostrava poco piú di quarant’anni. Portava occhiali da sole e
indossava un semplice vestito celeste con una giacca grigia. Borsa
di vernice nera e scarpe grigio scuro, senza tacco − calzature
adatte a guidare. Appena scesa dalla macchina, si tolse gli
occhiali e li mise nella borsa. Aveva bei capelli ondulati che le
arrivavano alle spalle. Una pettinatura naturale, senza la
perfezione eccessiva della testa appena uscita dal parrucchiere.
L’unico ornamento era una spilla d’oro sul colletto del
vestito.
Marie indossava una
felpa nera e una gonna di lana beige che le arrivava al ginocchio.
Io l’avevo sempre vista nell’uniforme della scuola, quindi la
trovai un po’ diversa. Una accanto all’altra, le due donne
sembravano madre e figlia di ottimo ceto sociale. Sapevo però da
Menshiki che il loro legame di parentela era diverso.
Com’era mia abitudine,
le osservai da una fessura fra le tende della finestra. Quando
sentii suonare il campanello, andai ad aprire.
La zia di Marie − una
donna graziosa dal tono di voce gentile − non era il genere di
bellezza che fa voltare la gente per la strada, ma aveva un bel
viso dai lineamenti fini. Sulle labbra le aleggiava un sorriso
spontaneo che mi ricordava il candore della luna all’alba. Aveva
portato dei dolci in regalo. Non era assolutamente necessario,
visto che ero stato io a chiedere che Marie posasse per me, ma di
sicuro conosceva fin da piccola le regole della buona educazione e
sapeva che si porta sempre qualcosa quando si va per la prima volta
in visita a qualcuno. Accettai i dolci ringraziando, poi feci
strada verso il soggiorno.
– Le nostre case, in
linea d’aria, sono davvero vicinissime, ma per venire fin qui con
la macchina bisogna fare una strada tutta curve, – disse la zia, e
aggiunse che si chiamava Akikawa Shōko. – In realtà, sapendo che in
questa casa viveva Amada Tomohiko, non ho mai osato venire da
queste parti…
– Sono venuto ad
abitarci la primavera scorsa. Anche per non lasciarla vuota,
insomma, – spiegai.
– È quello che mi hanno
detto. Mi fa molto piacere che lei sia ora un nostro vicino, spero
che si trovi bene qui da noi.
Dopo questo scambio di
formalità, Akikawa Shōko mi ringraziò con molta cortesia per le
lezioni che impartivo a sua nipote alla scuola di pittura. Disse
che Marie era molto contenta di seguire il mio corso.
– Be’, non si tratta di
vere e proprie lezioni, – le spiegai. – Piú che altro ci divertiamo
a disegnare e dipingere tutti insieme.
– Sento dire però, e da
diverse persone, che è veramente bravo ad assistere e consigliare i
bambini.
Non credo che ci fosse
tanta gente a elogiare i miei corsi, ma non feci commenti.
Ascoltavo le parole di quella donna cortese, dall’educazione
squisita, senza darvi troppo peso.
A vederle sedute una
accanto all’altra sul divano, chiunque avrebbe subito capito che
Shōko e Marie non si assomigliavano affatto, in nessun tratto del
viso. Da lontano sembravano avere quell’aria di famiglia che si
nota di frequente in zia e nipote, ma in realtà nella loro
fisionomia non c’era alcun elemento in comune. Erano entrambe belle
− Marie aveva un bel viso regolare, e Shōko si poteva senza dubbio
definire una donna affascinante −, eppure erano cosí diverse una
dall’altra! Addirittura agli antipodi. Se il volto di Shōko era
l’immagine stessa dell’equilibrio, quello di Marie lasciava intuire
un carattere ribelle, tendente a uscire dagli schemi. Se la zia
aspirava alla tranquillità, alla stabilità e alla concordia
generale, Marie voleva tutto il contrario, cercava il dissenso.
Tuttavia si intuiva anche il legame d’affetto che le univa. Un
legame in un certo senso piú sereno e lucido che se fossero state
davvero madre e figlia. Per lo meno questa era l’impressione che mi
davano.
Chissà come mai una
donna bella, elegante e raffinata come Shōko era ancora single e
viveva con la famiglia del fratello in quel posto sperduto fra i
monti… Naturalmente non avevo modo di saperlo. Poteva darsi che
fosse rimasta fedele al ricordo di un fidanzato molto amato, uno
scalatore che aveva perso la vita mentre cercava di raggiungere la
cima dell’Everest per la via piú impervia, e che avesse deciso di
non sposarsi mai. O che avesse da anni una relazione illecita con
un affascinante uomo sposato. In ogni caso, non erano affari
miei.
Akikawa Shōko andò alla
finestra che guardava a occidente e osservò attentamente il lato
opposto della valle, che da lí si vedeva bene.
– Lo stesso panorama,
visto dallo stesso lato, cambia parecchio se lo guardiamo da punti
diversi, – disse in tono sorpreso.
Di fronte, in alto sulla
montagna, si notava subito, splendida e imponente, la villa di
Menshiki (il quale probabilmente in quel momento ci stava spiando
con il suo binocolo). Chissà come appariva, vista dalla casa di
lei? Mi sarebbe piaciuto chiederglielo, ma ritenni pericoloso
tirare in ballo quell’argomento fin dal primo incontro. Impossibile
dire che piega avrebbe preso il discorso partendo da
lí.
Per evitare
complicazioni, condussi zia e nipote nell’atelier.
– È in questa stanza che
vorrei che Marie posasse per me, – dissi rivolgendomi a
entrambe.
– Immagino fosse qui che
lavorava il Maestro Amada, vero? – chiese Shōko guardandosi attorno
impressionata.
– Credo di sí, –
risposi.
– Che strano… si ha la
sensazione che in quest’atelier ci sia un’atmosfera diversa dal
resto della casa. Non trova anche lei?
– Mah, non saprei…
vivendo qui, non ci ho mai fatto caso, mi sembra una stanza come le
altre.
– E tu, Marie? – disse
Shōko alla nipote. – A te non sembra che ci sia un’atmosfera
particolare, qui dentro?
Occupata a gironzolare
per l’atelier guardando ogni cosa, Marie non rispose. Forse non
aveva nemmeno sentito la domanda della zia. Anch’io avrei voluto
sapere la sua opinione.
– Mentre voi due state
qui a lavorare, forse è meglio che io resti ad aspettare in
soggiorno, – mi disse Shōko a quel punto.
– Questo dipende da
Marie. L’essenziale è creare un ambiente in cui Marie si senta a
suo agio. Per me, che lei assista o meno, è
indifferente.
– È meglio che tu vada
di là, zia, – disse Marie, aprendo bocca per la prima volta quel
giorno. Aveva parlato pacatamente, ma la sua risposta concisa e ben
scandita non lasciava spazio a ulteriori discussioni.
– Certo, certo, come
vuoi. Me l’ero immaginato e mi sono portata un libro, – rispose
Shōko senza badare al tono asciutto della nipote. Probabilmente era
abituata a quel genere di scambio di battute.
Ignorando le parole
della zia, Marie, un poco piegata in avanti, stava osservando in
silenzio il quadro di Amada Tomohiko, L’assassinio del Commendatore. Ne fissava a lungo ogni parte, come se volesse
imprimersi nella memoria tutti i dettagli della scena che vedeva
dipinta. Ora che ci pensavo, era forse la prima volta che qualcuno
posava gli occhi su quell’opera, a parte me. Avevo deciso di
spostarla dove non potesse vederla nessuno, poi me n’ero
completamente dimenticato. Be’, pazienza… ormai era
tardi.
– Ti piace, quel quadro?
– le chiesi.
Anche a questa domanda
Marie non rispose. Pareva troppo concentrata in quello che stava
facendo per udire la mia voce. Oppure mi aveva sentito e faceva
finta di niente?
– La perdoni, è una
ragazza fatta un po’ a modo suo, – intervenne la zia scusandosi per
lei. – Ha una straordinaria capacità di concentrazione, ma una
volta che si fissa su qualcosa, non ha testa per nient’altro. È
sempre stata cosí, fin da piccola. Qualunque cosa faccia, che
legga, che ascolti la musica, disegni o guardi un
film…
Non so perché, ma
nessuna delle due chiese se quel quadro l’avesse dipinto Amada
Tomohiko. Di conseguenza io non lo dissi. Né dissi loro che si
intitolava L’assassinio del
Commendatore. Il fatto che l’avessero
visto non avrebbe dovuto comportare problemi, pensai. Probabilmente
non si rendevano conto che si trattava di un’opera speciale, non
accorpabile alla produzione di Amada. Tutt’altra storia sarebbe
stata se fosse finito sotto gli occhi di Menshiki o di
Masahiko.
Lasciai che Marie lo
guardasse con calma. Nel frattempo andai in cucina, scaldai l’acqua
e preparai il tè. Misi tazze e teiera su un vassoio e le portai in
soggiorno. Aprii la scatola di dolci che mi aveva offerto Shōko.
Seduti uno di fronte all’altra sulle poltrone, prendemmo il tè
chiacchierando del piú e del meno (la vita in montagna, il clima
nella valle…) Prima di mettermi a lavorare, era importante per me
passare qualche minuto in una conversazione rilassata.
Intanto, da sola
nell’atelier, Marie continuò a contemplare L’assassinio del Commendatore ancora per un po’, poi cominciò a girare lentamente per
la stanza come un gatto curioso, prendendo in mano uno per uno
tutti gli oggetti che vi si trovavano. I pennelli, i colori, le
tele, infine l’antica campanella. La scosse piú volte. Si udí il
solito lieve tintinnio.
– Come mai qui c’è
questa vecchia campanella? – chiese senza rivolgersi a nessuno in
particolare, guardando nel vuoto.
– L’ho trovata sotto
terra, qui vicino, – le risposi dal soggiorno. – Per caso. Penso
sia legata in qualche modo al culto buddista. Che il prete la usi
per accompagnarsi quando recita i sutra.
Marie la scosse ancora
una volta, vicino all’orecchio.
– Be’, fa un suono
strano, – disse.
Di nuovo mi stupii che
l’esile tintinnio di quella campanella fosse giunto, dalla buca nel
bosco dov’era sepolta, fino a me in quella casa. Forse ci voleva un
tocco particolare, occorreva saperla scuotere…
– Non devi toccare le
cose in quel modo, in casa d’altri, – la ammoní la
zia.
– No, non fa niente, –
la rassicurai. – Non c’è niente di prezioso.
Comunque Marie sembrò
perdere subito interesse per la campanella. La rimise al suo posto
sulla mensola e si sedette sullo sgabello in mezzo alla stanza. Da
lí osservò il paesaggio che si vedeva dalla finestra.
– Direi che possiamo
metterci al lavoro, se per voi va bene, – proposi.
– Allora io resto in
soggiorno a leggere, – fece Shōko con un sorriso garbato. Poi tirò
fuori dalla borsa nera un libro spesso, rivestito con la carta di
una libreria. La lasciai in soggiorno, andai nell’atelier e chiusi
la porta che separava le due stanze. Marie e io restammo
soli.
La feci accomodare sulla
sedia con lo schienale che avevo già preparato, una di quelle del
tavolo da pranzo. Io mi sedetti sullo sgabello. Tra lei e me
c’erano un paio di metri.
– Puoi restare seduta lí
per un po’? Mettiti come preferisci, puoi anche fare qualche
piccolo movimento, non è necessario che resti immobile. Basta che
non cambi posizione.
– Può parlare, mentre
sta dipingendo? – mi chiese Marie come se tastasse il
terreno.
– Sí, certo, – risposi.
– Parliamo pure.
– Era bellissimo il
ritratto che mi ha fatto l’altro giorno.
– Quello che ho fatto
col gesso, sulla lavagna?
– Peccato che l’abbia
cancellato.
Risi.
– Mica potevo lasciarlo
sempre lí! Ma se ti piaceva, te ne faccio quanti ne vuoi, di
ritratti cosí. Non ci vuole niente.
Marie non
rispose.
Afferrai una matita
spessa e usandola come un righello presi le misure dei suoi
lineamenti. In un disegno, a differenza di uno schizzo, è
necessario comprendere bene la struttura del viso del
modello.
– Penso che lei abbia un
grande talento, per la pittura, – disse Marie dopo un lungo
silenzio, quasi le fosse venuto in mente in quel
momento.
– Mi fa piacere, –
risposi con sincerità. – Le tue parole mi incoraggiano
molto.
– Anche lei, professore,
ha bisogno di coraggio?
– Naturalmente. Tutti
abbiamo bisogno di coraggio.
Presi un grande album da
disegno e lo aprii.
– Oggi mi limiterò a
disegnarti. In genere preferisco mettermi subito a lavorare sulla
tela, usare i colori, ma questa volta comincerò dal disegno. Cosí
potrò capire meglio, poco per volta, che persona sei.
– Capire che persona
sono?
– Ritrarre un essere
umano significa comprenderlo, e poi interpretarlo. Non con le
parole, ma con le linee, le forme, i colori.
– Vorrei riuscire a
capirmi anch’io, – disse Marie.
– La stessa cosa vale
per me. Pure a me piacerebbe capirmi. Ma non è facile. Per questo
dipingo.
Feci un rapido abbozzo a
matita del suo viso e del busto. Era fondamentale trasferire e
restituire sulla superficie piana la profondità. Anche ricreare il
movimento. È il compito del disegno.
– Ho il petto troppo
piatto, vero? – chiese Marie.
– Mah, non
saprei…
– Due pagnottelle mal
lievitate.
Risi.
– Ma se hai appena
iniziato la scuola media! Vedrai che d’ora in poi cresceranno. Non
devi preoccuparti, credimi.
– Non ho nemmeno bisogno
del reggiseno. Tutte le mie compagne di classe se lo
mettono.
Era vero che sotto la
sua felpa non si notava nessun rigonfiamento.
– Se la cosa ti crea
problemi, potresti usare un’imbottitura, – suggerii.
– Vuole che lo
faccia?
– Per me non ha
importanza. Non è che voglia farti il ritratto per dipingere il tuo
seno. Fai come vuoi.
– Sí, però ai ragazzi
piacciono le ragazze col seno grosso, no?
– Non sempre, – dissi. –
Sai, anche a mia sorella, quando aveva la tua età, il seno non era
ancora cresciuto. Lei però non sembrava
preoccuparsene.
– Magari se ne
preoccupava, ma non lo diceva.
– Può anche darsi, –
dissi. Tuttavia sapevo che non era cosí, Komi non era il tipo da
dare importanza a questo genere di cose. Ne aveva di ben piú gravi
cui pensare.
– Poi è cresciuto, il
petto, a sua sorella?
Continuai a passare e
ripassare la matita sul foglio. A quella domanda non risposi. Marie
per un po’ seguí in silenzio i movimenti della mia
mano.
– Ma poi il petto le è
cresciuto? – ripeté dopo un po’.
– No, non le è
cresciuto, – risposi rassegnato. – È morta quando frequentava la
prima media. Aveva solo dodici anni.
A quelle mie parole,
Marie non fece commenti.
– Non crede che mia zia
sia bellissima? – chiese dopo un paio di minuti, cambiando
argomento.
– Sí, certo. È molto
bella.
– Lei è celibe, vero,
professore?
– Emh… sí, quasi celibe,
– risposi. Quando la busta fosse arrivata nello studio
dell’avvocato, sarei tornato a esserlo completamente.
– Non vorrebbe invitare
mia zia da qualche parte?
– Be’, sí, mi
piacerebbe.
– Ha anche un seno
piuttosto grosso.
– Non ci ho fatto
caso.
Di nuovo osservai il
viso di Marie.
– Vai molto d’accordo
con la zia, vero?
– Sí, ma ogni tanto
litighiamo pure.
– Per quali
motivi?
– Tanti. Quando non la
pensiamo allo stesso modo, oppure cosí… solo perché siamo
arrabbiate.
– Lo sai che sei proprio
strana, tu? Durante le lezioni alla scuola di pittura non dici mai
una parola, mentre adesso… mi avevi dato un’impressione molto
diversa.
– Nei posti dove non mi
va di parlare, non parlo, – fu la risposta secca di Marie. – Ma
forse chiacchiero troppo? Devo stare zitta?
– No, figurati! A me
piace parlare. Chiacchiera pure quanto vuoi.
In realtà ero contento
di conversare anch’io. Non avrebbe avuto senso dipingere per due
ore di fila senza fiatare.
– Questa storia del seno
mi preoccupa, non posso farci niente, – riprese Marie a un certo
punto. – Ci penso tutto il tempo, ogni giorno. Lo trova
strano?
– No, non
particolarmente. Credo che sia normale, alla tua età. Io, ad
esempio, da ragazzino pensavo sempre al mio pisello, mi pare di
ricordare. Avevo paura che avesse una brutta forma, che fosse
troppo piccolo, che non funzionasse bene…
– E adesso?
– Vuoi sapere cosa penso
adesso del mio pisello?
– Sí.
Considerai la
questione.
– Be’, niente, non ci
penso quasi mai. Mi sembra un pisello normalissimo e non mi procura
particolari disagi.
– Ma le donne cosa le
dicono? Che lo apprezzano?
– È successo, ma
raramente. Può darsi che fossero solo lusinghe. Come quando si loda
un quadro, insomma.
Marie considerò quelle
mie parole.
– Mi sa che lei è un
tipo un po’ strampalato, però, – disse poi.
– Ah, sí?
– Di solito gli uomini
non parlano tanto facilmente di queste cose. Mio padre, ad esempio,
non lo farebbe mai.
– Be’, non mi stupisce
che un padre non abbia voglia di parlare del proprio pisello con la
figlia, credo che sia normale, – osservai. Intanto continuavo a
disegnare.
– E i capezzoli? A
partire da che età diventano grandi? – chiese ancora
Marie.
– Mah… non te lo saprei
dire. Sono maschio. E poi credo che per ogni persona sia
diverso.
– Quando era bambino,
aveva una fidanzata?
– La prima ragazza l’ho
avuta a diciassette anni. Era una mia compagna di liceo, eravamo
nella stessa classe.
– Quale
liceo?
– Quello municipale di
Toyoshima a Tōkyō, – le dissi. Probabilmente nessuno, a parte gli
abitanti del quartiere, sapeva che esistesse.
– Andare a scuola le
piaceva?
Scossi la
testa.
– No, non
tanto.
– Ma i capezzoli della
sua ragazza li ha visti?
– Sí. Me li ha fatti
vedere.
– Quanto erano
grandi?
Cercai di
ricordare.
– Non erano né troppo
grandi, né troppo piccoli. Medi, credo.
– E il reggiseno lo
imbottiva, la sua ragazza?
Mi sforzai di ricordare
anche il reggiseno… nella memoria ne avevo solo una vaga immagine,
ma quello che non avevo scordato era la fatica che facevo per
slacciarglielo, passandole una mano dietro la schiena.
– No, non mi pare che lo
imbottisse.
– Adesso quella ragazza
cosa fa?
Ci pensai. Già, chissà
cosa stava facendo…
– Non ne ho idea. È da
tanto che non la vedo piú. Si sarà sposata, probabilmente avrà dei
figli.
– Perché non l’ha piú
vista?
– Perché alla fine mi ha
detto che non mi voleva piú vedere.
Marie aggrottò le
sopracciglia.
– Questo significa che
lei si è comportato male, professore. Mi sembra ovvio.
Due volte, negli ultimi
tempi, avevo sognato quella mia ragazza dei tempi del liceo. La
prima camminavamo uno accanto all’altra, un pomeriggio d’estate,
lungo la sponda di un grande fiume. Io cercavo di baciarla. Lei
però aveva il viso nascosto da quella che sembrava una cortina di
capelli, cosí le mie labbra non riuscivano a trovare le sue. Nel
sogno, tutt’a un tratto mi rendevo conto che lei aveva ancora
diciassette anni, mentre io ne avevo già compiuti trentasei. A quel
punto mi ero svegliato. Era stato un sogno molto vivido. Sulle
labbra avevo ancora la sensazione dei suoi capelli. E dire che a
quella ragazza non pensavo da secoli.
– E con sua sorella che
differenza d’età c’era, professore? – mi chiese Marie cambiando di
nuovo argomento.
– Aveva tre anni meno di
me.
– Ha detto che quando è
morta ne aveva dodici.
– Sí.
– Quindi lei ne aveva
quindici.
– Esatto. All’epoca
avevo quindici anni. Avevo appena iniziato il liceo. E lei le
medie. Come te.
Mi resi conto in quel
momento che la differenza d’età, fra Komi e me, era andata
aumentando, da quando lei era mancata, ormai era di ventiquattro
anni. Ovviamente.
– Quando mia mamma è
morta, io ne avevo sei, – disse Marie. – La mamma è morta perché è
stata punta dalle vespe su tutto il corpo. Stava facendo una
passeggiata da sola, su queste montagne.
– Mi
dispiace.
– Era allergica alle
punture di vespa dalla nascita. È stata trasportata d’urgenza
all’ospedale, ma a causa dello shock anafilattico il cuore e i
polmoni si erano già fermati.
– E dopo tua zia è
venuta a vivere con voi?
– Sí. La zia è la
sorella minore di papà. Anche a me sarebbe tanto piaciuto avere un
fratello maggiore! Magari piú grande di tre anni…
Avevo appena finito un
occhio, ora dovevo passare al secondo. Volevo disegnare Marie da
tanti angoli diversi. Quel giorno mi sarei dedicato solo a quel
lavoro.
– Ma con sua sorella
litigava? – mi chiese lei.
– No, non ricordo di
averlo mai fatto.
– Allora andavate
d’accordo.
– Penso di sí. Anche se
non ne ero consapevole. Non ci pensavo, insomma.
– Cosa significa che è
«quasi celibe»? – domandò a quel punto Marie, saltando di nuovo di
palo in frasca.
– Che molto presto
divorzierò ufficialmente, – risposi. – Al momento le pratiche
burocratiche sono ancora in corso, quindi sono «quasi»
celibe.
Marie socchiuse un po’
le palpebre.
– Non capisco bene che
cosa sia, un divorzio. Intorno a me non ci sono divorziati, neanche
uno.
– Non lo capisco
neanch’io. Anche per me è la prima volta.
– Che cosa
prova?
– Be’, tutto quello che
posso dire è che mi sembra molto strano. Uno cammina su una strada
che crede sia la propria, quella giusta, e tutt’a un tratto la
strada gli viene a mancare sotto i piedi. Cosí deve avanzare nel
vuoto, senza sapere dove va, senza avere alcun appiglio. Ecco cosa
si prova.
– Quanto tempo è stato
sposato?
– Sei anni.
– E sua moglie quanti
anni ha?
– Tre meno di
me.
Come mia sorella. Per
puro caso, naturalmente.
– Pensa che quei sei
anni siano stati inutili?
Riflettei sulla
domanda.
– No, non credo. Non
voglio pensare che siano passati inutilmente. Perché ci sono stati
anche tanti momenti belli.
– Lo pensa anche sua
moglie?
– Questo non lo so, –
dissi scuotendo la testa. – Vorrei che fosse cosí.
– Non gliel’ha
chiesto?
– No, non gliel’ho
chiesto. La prossima volta, se ne avrò l’occasione, lo
farò.
Dopo queste ultime
domande e risposte, restammo a lungo in silenzio. Mentre io mi
concentravo nel disegno del suo secondo occhio, Marie inseguiva i
suoi pensieri − la grandezza dei capezzoli, il divorzio, le vespe o
chissà cosa. Le palpebre socchiuse, le labbra strette, le braccia
intorno alle ginocchia, sembrava assorta nelle sue riflessioni.
Come se fosse entrata in modalità meditativa. Ricreai sul foglio
bianco dell’album l’espressione seria dei suoi occhi.
Ogni giorno, alle dodici
in punto, dal fondo valle arrivava lo scampanellio di una breve
melodia. Forse era il segnale orario di un municipio, o di una
scuola. Quando lo udii lanciai un’occhiata all’orologio. E posai la
matita. Avevo fatto tre disegni. Tutti e tre piuttosto
interessanti. Ognuno a suo modo suggeriva delle possibilità. Come
risultato della giornata, potevo ritenermi
soddisfatto.
Marie aveva posato per
poco piú di un’ora e mezza. Un’ora e mezza ferma su una sedia, come
inizio poteva bastare. Non è facile per le persone che non vi sono
abituate − soprattutto i bambini in pieno sviluppo − fare da
modello per un quadro.
Intanto sul divano del
soggiorno Akikawa Shōko, con un paio di occhiali dalla montatura
nera che le davano un’aria molto intellettuale, leggeva assorta il
suo libro. Quando mi vide entrare si tolse gli occhiali, chiuse il
libro e lo mise nella borsa.
– Per oggi abbiamo
finito, ce l’abbiamo fatta, – dissi. – Se non avete niente in
contrario, posso chiederle di tornare con Marie la settimana
prossima alla stessa ora?
– Sí, certamente, –
rispose Shōko. – Non so perché, ma si sta bene a leggere qui. Sarà
perché questo divano è comodissimo?
– Anche tu sei
d’accordo, per domenica prossima, Marie? – chiesi alla
ragazza.
Lei si limitò a fare un
breve cenno affermativo col capo. Era d’accordo. Davanti alla zia
aveva cambiato del tutto atteggiamento, era di nuovo un’adolescente
taciturna. A meno che non le desse fastidio stare in tre: lei, la
zia e io.
Salirono sulla Toyota
Prius e tornarono a casa loro. Dall’ingresso, le guardai andar via.
Shōko, che aveva messo gli occhiali da sole, sporse un braccio dal
finestrino e agitò piú volte la mano per salutarmi. Una piccola
mano bianca. Risposi sollevando un braccio anch’io. Marie, molto
composta, guardava dritto davanti a sé. Quando la macchina si avviò
per la discesa e scomparve dal mio campo visivo, rientrai in casa.
Ora che loro due se n’erano andate, di colpo la casa sembrava piú
vuota del solito. Come se fosse venuto a mancare qualcosa che
normalmente doveva trovarsi lí.
Una strana coppia,
pensai guardando le tazze da tè rimaste sul tavolo. C’era qualcosa
di anomalo, in loro. Mi chiesi cosa fosse a darmi
quell’impressione…
A un tratto mi venne in
mente Menshiki. Forse avrei dovuto far uscire Marie sulla terrazza,
in modo che lui potesse osservarla attraverso il suo binocolo. Poi
cambiai idea. Non ci mancava altro che mi preoccupassi di
agevolarlo! Tanto piú che non me l’aveva nemmeno
chiesto.
In ogni caso si
sarebbero presentate altre occasioni. Non c’era nessuna fretta.
Forse.
1. È tradizione in
Giappone, quando le dimensioni della vasca lo permettono, che i
membri di una stessa famiglia facciano il bagno
insieme.