Capitolo terzo
Una rifrazione che obbedisce a leggi
fisiche
Qualche giorno dopo
essermi sistemato nella casa sui monti intorno a Odawara, chiamai
mia moglie. Dovetti telefonarle cinque volte prima di trovarla.
Forse rincasava tardi perché era ancora molto occupata col lavoro.
Oppure si incontrava con qualcuno fuori. In ogni caso, ormai non
era piú affar mio.
– Ma dove sei, adesso? –
mi chiese Yuzu.
– Sono nella casa che
Masahiko possiede a Odawara, mi sono sistemato qui, – le risposi, e
le spiegai come mai ero andato ad abitare in quel
posto.
– Ti ho chiamato sul
cellulare un’infinità di volte.
– Il cellulare non ce
l’ho piú, – dissi. Ormai la corrente doveva averlo portato fino al
mar del Giappone. – Senti, vorrei passare da casa a prendere alcune
cose, fra non molto. Ti va bene?
– Certo. Hai ancora la
chiave dell’appartamento, no?
– Sí, sí, ce l’ho, –
risposi. Ero stato tentato di gettarla nel fiume insieme al
cellulare, poi ci avevo ripensato e l’avevo tenuta, nel dubbio che
lei mi chiedesse di restituirla. – Ma sei sicura che posso venire
quando voglio, anche se tu non ci sei?
– Questa è sempre casa
tua. È ovvio che puoi. Ma cos’hai fatto, in tutto questo tempo?
Dove sei stato?
Le dissi che avevo
sempre viaggiato. Da solo, in macchina. Avevo viaggiato senza meta
nelle regioni fredde. Finché la macchina non mi aveva abbandonato.
Tutto qua: fu il breve resoconto che le feci.
– Ma sei sano e salvo,
vero? Non ti è successo nulla…
– Sí, io sono vivo. È la
macchina che è morta.
Yuzu rimase in silenzio
per qualche secondo.
– Poco tempo fa, mi sei
apparso in sogno, – disse poi.
Non le chiesi che sogno
avesse fatto. Non avevo alcuna voglia di sapere come le fossi
apparso. Di conseguenza lei non me ne parlò.
– La chiave la lascerò
lí, – le dissi.
– Per me fa lo stesso.
Fai come preferisci.
– Quando vado via la
metto nella buca delle lettere.
Seguí una breve
pausa.
– Senti, ricordi che la
prima volta che siamo usciti insieme mi hai fatto un ritratto a
matita?
– Certo che lo
ricordo.
– Ogni tanto lo tiro
fuori e lo guardo. È bellissimo. Ho l’impressione di guardare la
vera me stessa.
– La vera te
stessa?
– Sí.
– Ma se ti guardi allo
specchio ogni mattina!
– È diverso, – mi spiegò
Yuzu. – Quella che vedo allo specchio è soltanto una rifrazione che
obbedisce a leggi fisiche.
Dopo aver messo giú il
telefono, andai in bagno e mi guardai allo specchio. Riflessa lí
c’era la mia faccia. Era da un bel po’ che non mi osservavo cosí,
dritto negli occhi. Yuzu aveva detto che in uno specchio si vede
soltanto una rifrazione fisica. Eppure il mio viso mi sembrava solo
la parte immaginaria di me stesso. Come se a un certo punto mi
fossi diviso in due. E quella che vedevo era la parte che non avevo
scelto.
Non era neppure una
rifrazione fisica.
Due giorni dopo quella
telefonata, nel primo pomeriggio, mi misi al volante della Toyota
Corolla e andai all’appartamento di Hiroo per prendere le cose di
cui avevo bisogno. Anche quella volta non aveva smesso di piovere
dal mattino. Lasciai la macchina nel parcheggio sotterraneo del
condominio, dove c’era il solito odore delle giornate di
pioggia.
Salii con l’ascensore,
aprii con la mia chiave la porta d’ingresso ed entrai: dopo quasi
due mesi che mancavo da quell’appartamento, ebbi l’impressione di
commettere un’effrazione. Ci avevo vissuto sei anni, avrebbe dovuto
essere un luogo familiare. Eppure l’ambiente al di qua della porta
non mi includeva piú. Nel lavello della cucina c’era una pila di
piatti, ma li aveva usati tutti lei. Nel bagno c’erano delle cose
appese ad asciugare, ma era tutta roba sua. Aprii il frigorifero:
conteneva cibo che non avevo mai visto. Soprattutto piatti pronti.
Anche il latte e il succo d’arancia non erano della marca che
compravo io. Il congelatore era pieno zeppo. Io non acquistavo mai
cibo surgelato. In meno di due mesi tante cose erano già
cambiate.
Avevo la forte
tentazione di lavare i piatti nel lavello, raccogliere la roba
messa ad asciugare e piegarla (magari stirarla), sistemare bene il
cibo nel frigorifero. Ovviamente non lo feci. Ormai quella non era
piú casa mia. Non avevo il diritto di toccare nulla.
Fra i bagagli, i piú
ingombranti erano gli attrezzi per dipingere: il cavalletto, le
tele, una grossa scatola di cartone dove avevo messo alla rinfusa
pennelli, colori, solventi. Poi c’erano i vestiti. Non ne possedevo
molti, non ci avevo mai tenuto. Non mi dava fastidio indossare
sempre gli stessi abiti. Non avevo completi né cravatte. A parte un
pesante cappotto invernale, riuscii a farli entrare tutti in una
grande valigia.
Presi qualche libro che
non avevo ancora letto e una dozzina di cd. Una caffettiera alla
quale ero affezionato. Il costume da bagno, la maschera, la cuffia
da nuoto. Per il momento non avevo bisogno d’altro. Quelle poche
cose mi bastavano, non avrei avuto problemi.
Lasciai nel bagno il mio
spazzolino da denti, il rasoio e la crema da barba, la lozione per
i capelli e la crema solare. Anche una scatola di profilattici
ancora sigillata. Non avevo voglia di portare tutta quella roba
nella mia nuova abitazione. Mia moglie poteva farne quello che
voleva.
Una volta sistemato
tutto nel portabagagli della macchina, tornai in cucina, scaldai
dell’acqua, mi feci un tè usando una bustina e lo bevvi seduto al
tavolo. Questo me lo potevo anche permettere. Nella casa c’era un
gran silenzio. Un silenzio che dava all’aria una certa gravità. Mi
sentivo come se fossi seduto tutto solo in fondo al
mare.
Rimasi nell’appartamento
una trentina di minuti. Non venne nessuno. Il telefono non suonò
mai. Il termostato del frigorifero si fermò una volta e una volta
ripartí. Io tendevo le orecchie, studiavo l’atmosfera, come se
calassi un filo a piombo per misurare la profondità dell’acqua.
Quello era l’appartamento di una donna che viveva sola, non c’era
da metterlo in dubbio. Una donna che lavorava ogni giorno dal
mattino alla sera e non aveva tempo per le faccende di casa, le
lasciava tutte per il fine settimana. Guardandomi attorno, vedevo
soltanto cose che appartenevano a lei. Non c’era traccia della
presenza di un’altra persona (la mia non la si sentiva quasi piú).
Non era probabile che quell’uomo venisse a trovarla lí, pensai.
Forse si incontravano da qualche altra parte.
Eppure in quelle stanze
avevo la sensazione, indefinibile, di essere osservato. Come se
qualcuno mi guardasse attraverso una telecamera nascosta.
Naturalmente non poteva essere cosí. Mia moglie era negata per la
tecnologia: non riusciva nemmeno a cambiare le pile di un
telecomando. Era escluso che fosse riuscita a installare e a far
funzionare una telecamera o qualcosa del genere. Ero solo io che
avevo i nervi a fior di pelle.
Eppure, per tutto il
tempo in cui rimasi in quell’appartamento mi comportai come se
venissi filmato da una telecamera immaginaria. Non feci nulla di
inutile o sconveniente. Non aprii i cassetti della scrivania di
Yuzu per guardarci dentro. Sapevo che nell’armadio teneva un
piccolo diario e le lettere importanti, in fondo al cassetto dei
collant, ma non li toccai. Conoscevo la password del suo notebook
(a meno che non l’avesse cambiata), ma non l’aprii neanche. Erano
tutte cose che non mi riguardavano piú. Lavai soltanto la tazza
dove avevo bevuto il tè, la asciugai, la rimisi a posto e spensi la
luce. Andai alla finestra e guardai cadere la pioggia. Al di là,
all’orizzonte, intravidi la torre di Tōkyō illuminata di arancione.
Poi chiusi la porta, infilai la chiave nella buca delle lettere,
salii in macchina e tornai a Odawara. Mi ci volle circa un’ora.
Eppure mi sentivo come se fossi appena stato in un Paese
straniero.
Il giorno dopo telefonai
al mio agente. Gli dissi che ero tornato, ma non avevo intenzione
di riprendere il mio lavoro di ritrattista. Chiedevo
scusa.
– Mi sta dicendo che non
farà mai piú ritratti?
– Probabilmente no, –
risposi.
Accolse il mio annuncio
in modo piuttosto laconico. Non fece rimostranze né mi diede
consigli. Sapeva benissimo che quando dicevo una cosa, poi non me
la rimangiavo.
– Se cambia idea, però,
mi chiami quando vuole. È sempre il benvenuto, – finí col
dirmi.
Lo
ringraziai.
– Forse le sembrerò
indiscreto, ma come pensa di guadagnarsi da vivere?
– Non ho ancora deciso,
– risposi sinceramente. – Vivo solo e non ho molte spese. In piú,
per il momento, ho ancora qualcosa da parte.
– Ma continuerà a
dipingere, vero?
– Forse. Anche perché
non so fare nient’altro.
– Le auguro che vada
tutto per il meglio.
Ringraziai di nuovo. Poi
di colpo mi venne in mente una cosa da chiedergli.
– C’è per caso qualcosa
che dovrei ricordare? – gli chiesi.
– Qualcosa che dovrebbe
ricordare?
– Be’, non so come dire…
ha magari un consiglio da darmi? Un consiglio da
professionista.
Il mio agente ci pensò
su, poi mi disse:
– Per convincersi di una
cosa, lei ci impiega piú tempo della maggior parte della gente. Ma
in una prospettiva a lungo termine, forse il tempo è dalla sua
parte.
Sembrava il titolo di
una vecchia canzone dei Rolling Stones.
– Inoltre, – proseguí, –
credo che lei abbia un talento speciale per il ritratto. Ha la
capacità innata di andare dritto al cuore del soggetto e cogliere
quello che vi trova. È una capacità rara. Avere questo talento e
non usarlo sarebbe veramente un peccato.
– Sí, ma fare ritratti
non è quello che mi interessa in questo momento.
– Questo l’ho capito.
Però il suo talento è qualcosa che dovrebbe sempre venirle in
aiuto. Spero che vada tutto bene.
Speriamo che vada tutto
bene, pensai. Speriamo che il tempo sia dalla mia
parte.
Il primo giorno, era
stato Masahiko ad accompagnarmi fino alla casa di Odawara con la
sua Volvo.
– Se vuoi, puoi
cominciare a vivere qui da subito, – mi aveva detto.
Aveva lasciato
l’autostrada Odawara-Atsugi poco prima che finisse e imboccato una
stradina asfaltata che andava verso i monti. Ai due lati della
stretta carreggiata si susseguivano serre di ortaggi, interrotte
qua e là da piantagioni di susini. Case non ce n’erano quasi,
semafori nemmeno. Percorremmo l’ultimo tratto di strada, che saliva
a tornanti, a bassa velocità, finché ci trovammo di fronte due
magnifici pilastri di legno: peccato che mancasse il cancello. Non
c’era neanche una recinzione. Come se in un primo tempo ci fosse
stata l’intenzione di costruire sia l’uno che l’altra, ma poi non
se ne fosse fatto nulla. Poteva darsi che a un certo punto il
proprietario si fosse reso conto che non era necessario. La bella
targa affissa su uno dei pilastri – vi era inciso il nome
MASAHIKO –
sembrava un’indicazione stradale. Al di là dei pilastri c’era una
casa in stile occidentale, una specie di cottage, dal cui tetto in
ardesia spuntava un camino di tegole sbiadite. L’edificio aveva un
piano solo, il tetto era molto alto. Sapendo che ci aveva vissuto
un famoso pittore della corrente nihonga, mi ero aspettato
un’abitazione in stile giapponese tradizionale.
Lasciammo la macchina
nell’ampio slargo davanti all’ingresso, aprimmo la porta, ed ecco
che in quel momento, dai rami degli alberi, uccelli neri simili a
corvi si involarono verso il cielo levando alte strida. Non
sembravano contenti che avessimo invaso il loro territorio. La casa
era circondata da boschi, solo da un lato godeva di una bellissima
vista sulla valle.
– Allora, che te ne
pare? È straordinario come non ci sia nulla, in questo posto, – mi
disse Masahiko.
In piedi davanti alla
porta, mi guardai attorno: era veramente un luogo prodigiosamente
isolato. Ero impressionato dal fatto che si fosse costruita una
casa in mezzo al nulla. Il proprietario doveva detestare qualsiasi
tipo di relazione.
– Tu ci hai mai abitato?
– chiesi al mio amico.
– No. Non per lunghi
periodi, almeno. A volte ci sono venuto per un paio di giorni.
Oppure con tutta la famiglia per sfuggire al caldo, ma solo durante
le vacanze estive: il resto dell’anno dovevo andare a scuola. Sono
cresciuto con mia madre nella casa di Mejiro. Mio padre quando non
dipingeva veniva a Tōkyō e stava con noi. Poi tornava qui e si
rimetteva al lavoro. Da quando è morta mia madre, dieci anni fa, è
vissuto da solo in questa casa come un eremita. Io ormai ero
indipendente.
Arrivò una donna di
mezz’età che abitava poco lontano e si occupava della casa quando
non c’era nessuno, mi spiegò diverse cose pratiche: come servirmi
degli elettrodomestici in cucina e ordinare le bombole del gas al
rifornitore, dove si trovavano i diversi attrezzi, dove portare la
spazzatura e in quali giorni… Il pittore aveva condotto una vita
molto semplice, usando pochi apparecchi e utensili, quindi non
dovetti sorbirmi una conferenza.
– Se c’è qualcosa che
non capisce, non esiti a chiamarmi in qualunque momento, – mi disse
la donna (in realtà le telefonai solo una volta). – È un bene che
ci venga a vivere qualcuno, qui. Le case disabitate si rovinano in
fretta. I cinghiali e le scimmie capiscono che possono entrarci
come vogliono.
– Sí, cinghiali e
scimmie si fanno vedere spesso da queste parti, – confermò
Masahiko.
– In primavera vengono
per mangiare i germogli di bambú. Faccia attenzione, – mi
raccomandò la donna. – Soprattutto alle femmine di cinghiale.
Quando hanno i piccoli, si innervosiscono facilmente e diventano
aggressive. Anche le vespe sono un pericolo. C’è chi è morto, per
le punture di vespa. Spesso fanno il nido nei susini.
Il cuore della casa era
un soggiorno relativamente ampio, dotato di un caminetto a fuoco
aperto. La parete orientata a sud si apriva su una terrazza
coperta; dalla parte opposta, contiguo al soggiorno, c’era un
atelier in piena regola. Era lí che il Maestro dipingeva. A est del
soggiorno si trovava la cucina con un tavolo da pranzo e il bagno.
C’erano inoltre una grande e comoda camera da letto principale, e
una piú piccola per gli ospiti. Nella camera degli ospiti c’era
anche una scrivania. Amada doveva amare molto leggere: gli scaffali
della libreria traboccavano. Sembrava che avesse usato quella
stanza come studio. Considerata l’epoca cui risaliva, la casa era
pulita e comoda, però una cosa mi sembrò strana (ma forse non lo
era affatto): non c’era neanche un quadro. Le pareti erano nude e
fredde.
Come mi aveva detto
Masahiko, era provvista di tutto il necessario: mobili,
elettrodomestici, piatti e pentole, materassi e coperte… «Non hai
bisogno di portarti niente», erano state le sue parole, e aveva
ragione. Anche di legna per il camino, ce n’era parecchia
accumulata sotto la tettoia del ripostiglio. In casa non esisteva
un televisore (il padre di Masahiko detestava la tv), ma nel
soggiorno troneggiava un magnifico impianto stereo. Le casse,
enormi, erano della Tannoy, gli amplificatori a valvole
termoioniche originali della Marantz. Inoltre c’era una splendida
collezione di dischi in vinile. A una prima occhiata, mi parve che
ci fossero molti cofanetti di opera lirica.
– Qui di lettori cd non
ce ne sono, – mi disse Masahiko. – Mio padre detesta gli apparecchi
moderni. Ha fiducia soltanto nelle cose che ha sempre usato.
Naturalmente non c’è l’ombra di Internet o roba del genere. Se hai
bisogno di collegarti, devi andare in un Internet café in
città.
Dissi che non ne avevo
particolare necessità.
– Per sapere quel che
accade nel mondo, su uno scaffale della cucina c’è una radio a
transistor, ti devi accontentare di quella. Qui fra i monti riceve
piuttosto male, ma la Nhk si sente, basta sintonizzarsi sulla
frequenza di Shizuoka. Sempre meglio di niente.
– Quel che accade nel
mondo non mi interessa piú di tanto.
– Perfetto. Andresti
d’accordo con mio padre.
– È un appassionato di
musica lirica? – chiesi a Masahiko.
– Sí. È un pittore della
corrente nihonga, ma mentre dipingeva ascoltava sempre brani d’opera.
Quando studiava a Vienna, pare che andasse spesso al teatro
dell’Opera. A te la musica lirica piace?
– L’ascolto ogni
tanto.
– Be’, non fa per me. È
troppo impegnativa e mi annoia. Lí c’è una montagna di vecchi
dischi, puoi sentirli quanto vuoi. Mio padre non li può piú
ascoltare, sono sicuro che sarebbe contento di sapere che lo fai
tu.
– Non li può piú
ascoltare?
– Sai, l’Alzheimer
progredisce. Ormai non capisce piú neanche la differenza tra
un’opera e una padella.
– Ma tuo padre ha
studiato pittura in stile nihonga a
Vienna?
– No, figurati! È sempre
stato eccentrico, sí, ma non al punto di fare una cosa del genere.
All’inizio dipingeva in stile occidentale. Per questo è andato a
Vienna. Poco dopo essere tornato in Giappone, però, tutt’a un
tratto ha cambiato stile. Mah, alla fine sono cose che succedono
abbastanza spesso. Ritrovare le proprie radici dopo un soggiorno
all’estero, intendo.
– E ha avuto un successo
strepitoso.
Masahiko si strinse
nelle spalle.
– Questo agli occhi del
mondo. Agli occhi di un figlio, invece, era solo un vecchio
scorbutico. In testa aveva solo la pittura, in vita sua ha fatto
sempre e solo quello che ha voluto. Ormai però è l’ombra di se
stesso.
– Quanti anni ha,
adesso?
– Novantadue. Si dice
che da giovane si sia divertito parecchio. Ma non conosco i
particolari.
Lo
ringraziai.
– Ti sono grato, stai
facendo molto per me. Mi hai davvero tirato fuori dai
guai.
– Ti piace,
qui?
– Sí, sono molto
contento di poter vivere per un po’ in questo posto.
– Bene, me ne rallegro.
Da parte mia, però, spero proprio che tu e Yuzu torniate insieme,
che ritroviate l’accordo.
Su questo non feci
commenti. Masahiko non era sposato. Correva voce che fosse
bisessuale, ma non sapevo se crederci o no. Pur conoscendolo da
tanto tempo, non avevo mai sfiorato l’argomento con
lui.
– Continuerai a fare
ritratti? – mi chiese prima di andarsene.
Gli dissi che avevo
completamente smesso, e gli spiegai il motivo.
– Ma come pensi di
mantenerti, d’ora in poi?
Era la stessa domanda
che mi aveva fatto il mio agente. Gli diedi la stessa risposta:
avrei ridotto le spese e vissuto per qualche tempo dei miei
risparmi. Finalmente avrei dipinto seguendo la mia ispirazione,
senza vincoli: non desideravo altro!
– Ottima idea, – mi
disse Masahiko. – Per un po’, fai quello che ti pare. Ma non
vorresti anche dare qualche lezione, sarebbe una seccatura, per te?
Davanti alla stazione di Odawara c’è un Centro culturale dove
organizzano corsi di pittura. Si tratta principalmente di corsi per
bambini, ma ce ne sono anche per adulti. Solo disegno e acquarello,
niente pittura a olio. Il direttore del Centro è un conoscente di
mio padre, non lo fa per guadagnarci, per lui è quasi come fare
volontariato. Peccato che sia a corto di insegnanti. Se tu volessi
dare una mano, ne sarebbe di sicuro felice. Il compenso non è
granché, ma ti aiuterebbe a pagare qualche spesa. Potresti tenere
due lezioni alla settimana, non sarebbe poi cosí pesante, non
credi?
– No, certo, ma non ho
mai insegnato pittura, e non conosco l’acquarello.
– Oh, non dovresti mica
formare degli specialisti! Solo insegnare le tecniche di base, una
cosa semplicissima. Impareresti in un giorno. Ma soprattutto,
lavorare coi bambini è stimolante. Inoltre considera che vivendo da
solo quassú, se non scendi in città un paio di volte alla
settimana, se non stai qualche ora in mezzo alla gente, anche
malvolentieri, dopo un po’ vai fuori di testa. L’hai visto
Shining? Non
vorrei mai che tu facessi quella fine!
Masahiko imitò
l’espressione di Jack Nicholson. Aveva sempre avuto talento per le
imitazioni.
Risi.
– Va bene, ci provo. Ma
non garantisco il risultato.
– Allora comincio a
parlarne io al direttore, – disse lui.
Poi andammo insieme da
un venditore di Toyota usate, lungo la strada nazionale, e lí
comprai in contanti la Corolla Station Wagon. Quel giorno cominciai
a vivere in solitudine sui monti intorno a Odawara. Per due mesi mi
ero spostato senza sosta, e ora iniziavo una vita sedentaria,
un’esistenza di totale immobilità.
Da un estremo
all’altro.
Si arrivò alla decisione
che dalla settimana seguente, il mercoledí e il venerdí, avrei
tenuto dei corsi di pittura al Centro culturale davanti alla
stazione di Odawara. Prima di iniziare feci un breve colloquio, ma
grazie alla mediazione di Masahiko venni subito assunto. Avevo due
lezioni con gli adulti, e il venerdí una supplementare per i
bambini. A questi mi abituai subito e in poco tempo entrai in
confidenza con loro. Mi piaceva guardare i loro disegni, lo trovavo
stimolante, come aveva detto il mio amico. Giravo fra i banchi
osservando quello che facevano, davo qualche piccolo consiglio
tecnico, cercavo di capire in cosa riuscivano meglio, li lodavo, li
incoraggiavo. Il mio metodo consisteva nel far disegnare lo stesso
soggetto piú volte. Dopodiché spiegavo che uno stesso soggetto,
guardato da punti di vista diversi, cambia; che gli oggetti, come
le persone, hanno molti aspetti. I bambini capivano subito che
c’era in questo qualcosa di interessante.
In confronto, insegnare
agli adulti era piú faticoso. A lezione venivano anziani
pensionati, o casalinghe che riuscivano a trovare un po’ di tempo
nella giornata perché i figli non richiedevano piú attenzioni
continue. Niente di strano che queste persone, non possedendo
l’elasticità mentale dei bambini, avessero qualche difficoltà a
seguire le mie indicazioni. Alcune fra loro però erano dotate di
una bella sensibilità e riuscivano a fare cose niente male. Quando
me lo chiedevano, davo loro qualche consiglio utile, ma per lo piú
mi limitavo a lasciarle dipingere liberamente, come volevano. Poi
indicavo e lodavo gli aspetti positivi dei loro lavori. Tutto qui.
Gli allievi sembravano apprezzare questo modo di procedere. E a me
pareva che questo risultato − il fatto che traessero gioia dalla
pittura − fosse piú che sufficiente. Fu in questo contesto che ebbi
due relazioni con due donne sposate. Entrambe frequentavano i miei
corsi di pittura (per inciso, erano tutte e due piuttosto brave).
Quindi, visto che la mia posizione nei loro confronti era quella di
insegnante − anche se non ne avevo la qualifica ufficiale −, poteva
darsi che la mia condotta fosse ingiustificabile, ma non mi
sembrava che le cose stessero proprio cosí. Trattandosi di due
donne adulte che agivano in piena libertà, fondamentalmente pensavo
che non ci fossero problemi, ma era anche vero che agli occhi della
società non potevo andar fiero del mio comportamento.
In ogni caso, e non lo
dico per trovarmi delle scuse, in quel periodo non avevo certo la
serenità mentale per decidere se facessi bene o male. Aggrappato a
un’asse di legno, mi limitavo a seguire la corrente. Tutt’intorno
era buio pesto, in cielo non si vedevano né luna né stelle. Finché
non mollavo quell’asse di legno, riuscivo a stare a galla. Dove mi
trovavo? In che direzione stavo andando? Non ne avevo
idea.
Fu diversi mesi dopo
aver superato quell’impasse che scoprii il quadro di Amada Tomohiko
intitolato L’assassinio del
Commendatore. Quello che non potevo
sapere in quel momento, però, era che quel quadro avrebbe portato
un cambiamento radicale alla mia vita.