VENTIDUE
Arrivarono in salotto contemporaneamente
all’avvocato De Pasquali, un uomo sulla cinquantina, massiccio, con
i capelli a ciuffi disordinati, come se si fosse appena alzato dal
letto.
«Buonasera» disse. A tutti e a nessuno in
particolare.
Gilardi gli tese la mano. «Grazie,
avvocato».
«Lei è Gilardi… perché avete chiamato
me?»
«Io non…»
Si girarono contemporaneamente verso la
porta, perché stava entrando Carlo. Che rimase in disparte, contro
la parete, estraneo a tutti.
Eleonora e Elisa, sul divanetto, erano
abbracciate: Elisa con il volto nascosto contro la spalla della
sorella, Eleonora muovendo la testa verso l’uno o l’altro di quelli
che aveva di fronte.
«Che cosa succede?» domandò. Come se fosse
giusto chiederlo.
D’Urso si fece avanti. «Elisa Clerici, la
dichiaro in stato di arresto a seguito delle prove raccolte,
riguardo alla morte di Elena Clerici, avvenuta la notte del…»
Continuò abbassando il tono con date e orari che tutti
conoscevano.
«Certo che no» urlò Eleonora. «Che domanda
è?»
«La prego, signora, lasci rispondere la
signorina Elisa Clerici».
L’avvocato De Pasquali si fece avanti. «Che
teatrino stiamo recitando? Che significa? Certo che no, rispondo
io».
«Lei è l’avvocato della signorina
Clerici?»
«Sono io».
«Allora la signorina Clerici ora è in
presenza del proprio avvocato».
«Sono arrivato ora, non ho parlato con la
mia cliente… non risponda» aggiunse, rivolto a Elisa, con il tono
dell’avvocato importante.
Elisa era ritta in piedi, muta. Pallida. Non
guardava nessuno, come se avesse gli occhi vuoti.
«È nel suo diritto. Comunque le ordino di
seguirci».
«Mi fa guardare?» domandò l’avvocato,
prendendo quasi di prepotenza i fogli che D’Urso aveva in mano. «E
sarebbe?» chiese di nuovo.
«Misura cautelare, possibilità di
inquinamento delle prove e reiterato…»
«Ma la smetta!» E rivolto a Eleonora, a voce
più bassa seguitò: «Presunta colpevole, sono impazziti. Domani vado
a parlare con il procuratore, altro che reato… domani torna a casa,
e vediamo questo presunto colpevole…»
«Il procuratore punta al rito
abbreviato».
«Senza prove? Ci parlo io, al procuratore.
Lo deve dire a me, il rito abbreviato». Riuscì persino a
sorridere.
«Ma dove volete…? Siete pazzi? Siete
impazziti tutti quanti?» urlò Eleonora, gesticolando.
Gilardi le mise una mano sulla spalla.
«Stanno facendo il loro dovere, Eleonora. Lasciali lavorare».
«Ma che cosa stai dicendo? La portano in
prigione… per che cosa? Chi ha ammazzato Elena… lei, io… noi: che
cosa c’entriamo? Era nostra sorella, avvocato, glielo dica. Che
cosa vogliono da noi?» Stava urlando.
«Non da lei, Eleonora. Parlano di sospetti
su Elisa, presunto colpevole. Ma domani risolviamo… tutte
sciocchezze, ne ho sentite tante». De Pasquali parlava con il tono
di chi è sicuro di quello che dice. «Una notte in questura e domani
torniamo a casa. Lei non apra bocca e attenzione, che a nessuno
venga in mente di farle domande senza il suo avvocato». Si chinò,
volendo rassicurare Elisa con la propria presenza. «Vada, Elisa…
non ho capito questo teatrino di notte, ma vada e stia zitta… ha
capito?» Guardò i presenti, alzando la testa. «E che io non venga a
sapere che qualcuno le fa domande, mi sono spiegato? Altrimenti
saprò io a chi rivolgermi». Era una minaccia.
Gilardi sorrise e guardò D’Urso, che non
sembrò impressionato.
«Possiamo andare? Non vuole vestirsi?» Elisa
non rispose, ma si chiuse la vestaglia: le sue mani
tremavano.
«Perché tu?» Eleonora, un sussurro a labbra
strette.
Elisa la guardò senza vederla. Poi a testa
bassa seguì il vicecommissario Guerci, che le teneva un braccio,
per uscire di scena: come se la commedia fosse terminata e quello
fosse l’ultimo atto.
Gilardi si avvicinò a Carlo. «Vuoi
bere?»
«Vorrei morire prima di assistere a una cosa
del genere: lei ha ammazzato Elena? Ma siete sicuri? Elena le
voleva bene… come ha fatto? Dov’era?»
«Lo dirà domani al suo avvocato».
«E se continuerà a negare, che prove avete?
L’orologio? Potrebbe essere qualunque cosa… come fate a essere
sicuri?» Stava gridando a bassa voce, rosso in viso e sudato.
«Ci aiuterà lei, D’Urso è un osso duro. Ci
riuscirà».
Carlo guardò verso le due donne, una in
divisa l’altra in vestaglia, che stavano avvicinandosi alla porta e
chiuse gli occhi. «Se è lei, io l’ammazzo».
Gilardi lo strinse contro la parete,
all’improvviso si era ricordato della rivoltella che gli aveva
mostrato.
«Non fare sciocchezze, dammi la tua
pistola». Lo stava immobilizzando. «Dammi la pistola, imbecille»
ripeté a denti stretti.
Carlo si scostò appena dalla parete e
Gilardi comprese che la pistola l’aveva nella tasca posteriore dei
pantaloni. Fu più veloce, era anche in posizione vantaggiosa.
Gliela sfilò dai calzoni e se la mise in tasca con un gesto solo.
«Imbecille» sibilò. «Non ti basta quello che abbiamo?»
«Se quella va in galera anche vent’anni, mi
restituiscono Elena?»
«Perché se in galera ci vai anche tu, va
meglio? Non complicare le cose, Carlo, stai calmo».
Si voltarono insieme verso il centro della
stanza: Eleonora con il viso corrucciato guardò Gilardi, sembrava
inebetita. «Non hai fatto questo, vero? Non sei stato tu».
«Sì, Eleonora».
Stavano avanzando il commissario e il
vicecommissario, tenendo stretta tra di loro Elisa che, a testa
bassa, camminava come se i piedi non le appartenessero.
Eleonora si precipitò verso di loro,
singhiozzando con le braccia tese in avanti e la vestaglia che le
si agitava intorno al corpo: una figura da tragedia greca. «Elisa!»
gridò il suo nome tante volte, cercando di trattenerla.
«Lasciami…»
«Che cosa hai fatto?»
Un attimo di sospensione, come tra un tuono
e l’altro. E poi il grido: «No! NO! Noo!»
Seguendo una sceneggiatura ben congegnata,
D’Urso e Ilaria Guerci si fermarono in mezzo alla stanza, Elisa
abbassò la testa. La scena si immobilizzò di colpo, come se si
fosse rotta la macchina da presa che la stava riprendendo. Si
fermarono anche gli attori: Ilaria Guerci lasciò il braccio di
Elisa e D’Urso avanzò verso Eleonora.
Eleonora guardò Gilardi alzando soltanto gli
occhi. «Che prove avete?» domandò sfinita.
«L’orologio che era sul tavolino di Elena,
non era più al polso di Elisa, che lo portava al matrimonio. Mi
addolora, naturalmente, ma Elena merita giustizia».
«Voi… tu, la giustizia… ce la caveremo. Ma
una cosa ti dico Massimo: Elena non avrebbe mai voluto questo
finale».
«Non l’ho scelto io».
«Smettiamola con questa sciocchezza, Elena è
morta… sì, sono stata io. Ho perso l’orologio che dovevo mettere in
cassaforte. Sono stata io…» Disse tutto in fretta, a labbra che
tremavano. Asciutte.
In piedi, senza guardarla, D’Urso scattò
sull’attenti.
«È stata lei?» Non attese risposta.
«Eleonora Clerici, la dich…»
«Sì. Sì! La bastarda… ci ha rubato tutto… la
bastarda, figlia di puttana…» Si portò le mani alla fronte. «Lei
era felice, maledetta». Con un gesto brusco allontanò la mano di
Ilaria Guerci che voleva prenderle il braccio. «Mi lasci… se ne
vada, mi lasci!»
Elisa era rimasta in piedi e la guardava
come se non capisse, come se parlassero una lingua che le era
sconosciuta. Guardò Gilardi.
«Sta dicendo che è stata lei? Ma è
pazza?»
«Temo di sì. Ha sopportato molto…»
«Perché ucciderla?»
«Perché l’odiava».
«Eleonora…» chiamò sottovoce. La sorella non
si girò dalla sua parte, con una spalluccia le fece capire di
lasciarla stare. «Elli…»
«Fatela smettere, portatela via».
«No, Eleonora… lei deve seguirci. La
dichiaro…» D’Urso continuò con le parole e i gesti che il suo
mandato gli imponeva. Eleonora si lasciò prendere alle braccia, li
seguì senza opporsi, guardando Carlo, Gilardi, l’avvocato De
Pasquali, Elisa: estranea tra estranei. Sentirono soltanto che
mormorava Amen… come se
pregasse.
Elisa, con quel nodo in gola che le rendeva
faticoso persino respirare, si aggrappò al braccio di Gilardi. «Che
cosa le faranno?»
«La interrogheranno, soltanto in presenza
del suo avvocato».
«Quei ferri…» Un singhiozzo le impedì di
proseguire. «Ma perché? Che male faceva…»
«Non so risponderti, mi dispiace e mi
addolora». Al cameriere che aveva assistito alla scena raccomandò
di accompagnare Elisa a letto. «Telefonate al dottore, avrà bisogno
di un calmante».
«Sì, signor avvocato…»
«Io accompagno a casa Carlo».
Elisa alzò di colpo la testa. «Chiedigli di
perdonarci… È impazzita, non capisco… digli che io ho perduto due
sorelle, ora sono rimasta sola… digli…»
Un singhiozzo le troncò la parola. Seguì con
gli occhi l’alta figura di Gilardi che usciva dalla stanza quasi
correndo e strinse la mano all’avvocato De Pasquali.
«Stia tranquilla, baronessa, faremo tutto il
possibile. La tireremo fuori, è assurdo… Quel Gilardi deve essere
impazzito, ma di che cosa s’immischia? Perché non se ne torna…
Comunque stia tranquilla, Eleonora è in buone mani, faremo tutto…
stia tranquilla, baronessa».
Ecco, ora toccava a lei. Elisa, baronessa
Clerici di Garbagna.
Gilardi uscì in strada, trovò i due cancelli
aperti, le macchine della polizia se ne erano già andate. L’aria
fresca che lo avvolse gli restituì il senso di quelle ore. Contro
un cielo che scolorava, la figura eretta del campanile, mattoni e
calce, qualche geometria, un nido di rondini.
Al primo rintocco il cielo si fece nero
d’ali. E Carlo che gli stava correndo appresso.
«Perché l’ha fatto? Che male le faceva
Elena?»
«Era felice».
«E si ammazza una sorella… Ma è
pazza?»
«Forse sì. Spero per lei che sia davvero
pazza, sarebbe meglio».
Lo prese sottobraccio per obbligarlo a
camminare adagio, non verso casa ma verso la collina che era alle
loro spalle. Dove erano i cavalli di Elena. Dove era quella strada
stretta e sdrucciolevole che portava tra le robinie al fiume, dove
si erano incontrati una mattina…
«Eleonora? Ma perché?»
«O Elisa? Non so risponderti, Carlo».
«Vuoi dire che non credi che Eleonora sia
colpevole?»
«Spero che la giustizia faccia il proprio
dovere e mi liberi dal dubbio. In piena coscienza, ora io non so
risponderti, Carlo. Non lo so davvero».
I giornali e tutti i mezzi d’informazione
seguirono per anni la vicenda delle due sorelle Clerici di
Garbagna, una assassina e l’altra complice. Difficile stabilire i
diversi ruoli. Nessun tribunale seppe mai decidere quale delle due
avesse effettivamente ucciso Elena. L’opinione pubblica si divise e
continuò a scommettere su una o sull’altra sino alla loro
morte.