UNDICI
«Pronto, baronessa? Sono Sante
D’Urso».
«Ah, commissario…» si aggiustò il telefono
all’orecchio per sentirlo meglio. «Ci sono novità?»
«No, baronessa. Stiamo lavorando,
naturalmente, ma oggi sono fuori servizio. Mi chiedevo…»
«Le farebbe piacere un tè con noi?» Stava
sorridendo dopo giorni di dolore e di preghiere.
«Grazie, baronessa. Al teatro Comunale
stasera danno La Traviata con Di
Leo, volevo chiedere se potevo invitarvi…»
«Commissario, siamo in lutto stretto. Però è
un’opera… insomma. Senta, commissario: venga a prendersi un tè con
noi, poi lo chiediamo a Elisa. Sono sicura che le farebbe piacere,
lei è l’artista di famiglia, ama moltissimo le opere».
«Grazie, baronessa: va bene alle sei?»
«L’aspettiamo, certo. È stato gentile ad
aver pensato a noi».
Quando chiuse la comunicazione Eleonora alzò
gli occhi verso Elisa, che era rimasta sospesa in piedi davanti a
lei. «Ho fatto bene?» domandò.
«Certo, tanto il dolore non te lo toglie
nessuno. È l’opera, non cabaret».
«Viene alle sei, ci beviamo il tè, poi
prepariamo qualcosina per ingannare lo stomaco e te ne vai con lui
a teatro».
«E tu?»
«Io resto qui, stai tranquilla. Al massimo
telefono a Carlo…»
«Non fare stupidaggini, Eleonora. Non
possiamo mescolarci con lui, non sappiamo ancora se è davvero
innocente».
«Ma certo che lo sappiamo, Elisa… Non
capisco e disapprovo la tua antipatia per Carlo. È un bravo
ragazzo, amava nostra sorella, sta soffrendo come noi e inoltre
deve dimostrare, anche a te, di essere innocente. No, Elisa: io gli
credo e stasera lo invito a cena, noi due soli. Avrà bisogno di
sapere che noi siamo anche la sua famiglia».
«La tua, forse…» Alzò una spalla. «Che cosa
mi metto?»
«Nero, naturalmente…»
«Sì, ma non a lutto, altrimenti sto a casa.
Mi metto quel tubino nero che mi aveva regalato Elena con la giacca
di Cavalli. Un po’ di fantasia, ma a teatro non mi conosce
nessuno». Si avviò verso la porta. «Ora chiamo la parrucchiera… e
tu mi dai la mia spilla?»
«Sì. Elisa… lui arriva qui alle sei.
Sbrigati».
Entrando nel salottino di Eleonora alle sei
precise, Sante D’Urso trovò le due sorelle che lo stavano
aspettando, con il tavolo già apparecchiato per il tè.
«Grazie, commissario… lei è la prima persona
che entra in casa nostra, da quella notte…»
«Ma il commissario c’era già venuto,
Eleonora: per l’interrogatorio, non ti ricordi?» la interruppe
Elisa, stringendogli la mano.
D’Urso le sorrise. «Non era un
interrogatorio, Elisa… posso chiamarla così?»
Elegante nel tubino nero che la fasciava
discretamente lasciando nude le braccia, con la bella spilla di
brillanti alla scollatura, Elisa stava versando il tè nelle tazze.
«Ma certo. Latte o limone?»
«Niente, grazie. Il tè mi piace puro».
Seduti intorno al tavolo, parlarono
dell’opera e del cantante, che era appena tornato da una tournée in
America ed era considerato dalla critica un nuovo Pavarotti.
«È giovane, ha molta strada davanti».
Parlarono del teatro, che era stato appena
restaurato, e della Traviata
nell’allestimento di quella sera che poteva essere considerata una
Prima a tutti gli effetti.
«Non mi sono sentita di scegliere un abito
colorato, sono sicura che lei mi capisce» si scusò Elisa per
mettere in risalto quell’abito che esaltava il suo corpo snello,
ben proporzionato, faticoso risultato di tutti i suoi sacrifici a
tavola.
«È elegantissima, il nero è un colore che
dona a tutte le donne. A lei sta bene, in modo particolare, perché
ha gli occhi e i capelli chiari».
«Si intende di moda?» gli chiese Eleonora un
po’ stupita.
Elisa rise in modo che lui si accorgesse che
stava ridendo. «Si intende di donne» disse. «Vero,
commissario?»
«Per favore, no commissario… Ammetto di
avere un brutto nome».
«Massimo la chiamava Santino».
«Perché quando mi ha conosciuto ero un
giovane vicecommissario. Sono cresciuto».
«Sante va bene». Elisa alzò gli occhi alla
pendola per assicurarsi di avere ancora tempo. «Abbiamo preparato
qualche tramezzino… vino bianco?»
«Tanto per non essere digiuni» incalzò
Eleonora. «Preferisce un brodo caldo?»
«No, grazie. Il vino va bene».
La giacca di Cavalli dava un tono speciale a
quel semplice e perfetto tubino nero alla caviglia, i sandali neri
di raso ben accoppiati alla busta-gioiello di Bulgari. I capelli
lasciati morbidi intorno al viso poco truccato la ringiovanivano:
Elisa era una bella donna di trentasette anni, non allegra e
prorompente come Elena, ma riservata e con quella punta di
timidezza e di imbarazzo che piaceva agli uomini. Che piaceva a
lui.
Quando furono arrivati davanti al teatro,
D’Urso consegnò le chiavi all’appuntato che avrebbe portato l’auto
al parcheggio del Grand Hotel dove, dopo l’opera, era prevista la
cena con le autorità, i protagonisti dell’opera, il direttore
d’orchestra e alcune famiglie tra la nobiltà e l’aristocrazia
industriale di quel piccolo mondo. Molti di loro, che D’Urso
presentava a Elisa, la conoscevano o conoscevano la sua famiglia.
Le donne la guardavano rimproverandole bellezza e eleganza, gli
uomini con ammirazione, come se si accorgessero di lei per la prima
volta, mentre molti di loro l’avevano vista bambina e poi ragazza,
con suo padre, alle gare di tiro al piattello o ai balli del
Circolo della caccia. Forse le rimproveravano di essere a teatro,
con quella tragedia ancora insoluta nell’anima.
Quando furono accomodati nel loro palco,
Sante D’Urso trovò giusto scusarsi per averla esibita in quel modo.
«Spero che non le sia dispiaciuto, ma la loro ammirazione mi è
sembrata sincera».
«Anche un po’ esagerata, con tutti quei
baciamano fuori posto e fuori luogo…»
«Perché? Mi sembravano sinceri».
«Probabilmente, sì. Ma non si fa il
baciamano nel foyer di un teatro, è un luogo pubblico e il
baciamano è un gesto privato, mio padre sarebbe inorridito».
«Non lo sapevo… questo è un luogo adatto?»
domandò prendendole la mano.
«Certo, questo è infatti un luogo
privato».
«Allora…» D’Urso si chinò sulla sua mano e
la baciò.