QUINDICI
«Esci?» Alzò appena lo sguardo dal libro che
aveva tra le mani per accorgersi che Elisa aveva indossato un
completo azzurro sbiadito, abito e giacchettino con polsi di volpe
dello stesso colore.
«Sì, la moglie del dottor Colombi dà un tè,
a palazzo».
«Con il commissario?» Il tono nascondeva
male un certo imbarazzo.
«Non credo che sia libero. Io prendo la
macchina».
«Ti ricordi che stasera a cena viene Massimo
Gilardi?»
«È già arrivato, è andato da Carlo».
«Come fai a…»
«Ero alla finestra e ho riconosciuto la
macchina. Loro non mi hanno vista, perché tutti questi
misteri?»
Eleonora chiuse il libro, lasciando il dito
indice in mezzo, per non perdere il segno. «Perché misteri? Sarà
andato a salutarlo, che male c’è? Mi dispiace di non aver invitato
Carlo…»
«No, senti. Finché non saremo sicure, meglio
tenerlo alla larga. L’ha detto anche Sante: non è indagato, ma
sospettato. Convinciti, in casa c’era soltanto lui».
«Mi sorprende che un commissario dica queste
cose. Se fosse sospettato… non mi piace questo atteggiamento,
Elisa».
«Perché a te piace lui. Io lo trovo un
contadino rifatto a spese nostre».
«A spese sue» ribatté Eleonora, seccata. «E
tu sei in lutto, te ne ricordi?»
«E vuoi che vada a un tè vestita di nero?
Quello va bene per le vedove, io non ho niente di offensivo.
Azzurro polvere, un colore che va bene per tutto. Vado, se non c’è
altro…»
«Non c’è altro. Ti aspetto per le sette e
mezzo, ceniamo alle otto. E siamo soltanto noi di famiglia». Il
messaggio era chiaro: non voleva D’Urso, che era diventato un po’
troppo ingombrante. «Salutami Beatrice».
«D’accordo». Si chiuse la porta alle spalle
e alzò un sopracciglio, mentre dentro di sé ripeteva la frase che
suo padre diceva a Eleonora quando lei dettava le regole:
ja wohl freilich!
Eleonora riaprì il libro, Sotto il vulcano, che Malcolm Lowry dedica a
sua moglie Margerie. Quell’uomo infelice e dissoluto, in quel lungo
straordinario racconto di sé, le ricordava suo padre.
Anche Massimo Gilardi glielo ricordava. Suo
padre era meno alto e non aveva gli occhi verdazzurri, ma la stessa
eleganza, lo stesso sorriso ironico, gli stessi gesti. Un
seduttore, così lo ricordava. E ricordava le lacrime trattenute di
sua madre, come un sacrificio, e quell’andare e venire dagli
ospedali, sino alla sua morte per un tumore, a poco più di
cinquant’anni. Suo padre sempre assente. Prima con Elena e le gare
di equitazione. Elena che vinceva, che cresceva allegra e
disinvolta: diversa da lei, che aveva già iniziato a sostituire sua
madre, costretta a letto o in poltrona. Poi Elisa, con quel fucile
e la passione di sparare. Scioccherella, viziata, ma con una mira
perfetta. Suo padre in mezzo a loro – le mie gallinelle, diceva
ridendo. Tornava da viaggi e assenze sempre più lunghe con molti
regali e qualche carezza.
Era morto non ancora vecchio in un incidente
d’auto, sulla Costa Azzurra: non era solo, ma non vollero sapere il
nome della sua compagna di viaggio, che si era salvata dal rogo
dell’auto, con il viso sfigurato.
Eleonora che gli stava a fianco, lei che era
la grande e che sarebbe diventata
la baronessa, la padrona.
Nessun uomo, nessuna stravaganza, tranne
quei lunghi mesi a Cortina, in albergo, con gli amici di suo padre
che la rispettavano come se fosse una vedova: aveva ventisei anni e
molta voglia di innamorarsi.
Degli anni della loro vita che avevano
preceduto il funerale di sua madre aveva ricordi confusi, come se
ne avesse lasciato ad altri la responsabilità. Amava Elena perché
era allegra e generosa. Se la ricordava piccina, in braccio alla
balia: succhiava il latte dal biberon e intanto le stringeva un
dito nella mano grassoccia. Piangeva raramente, cresceva giocando
da sola con quella passione per i cavalli che l’avrebbe portata in
ospedale e a vivere con una protesi dal ginocchio in giù. Senza un
lamento, ma facendo coraggio a loro – che la compativano. Lei, che
era felice di essere Elena.
Con Elisa i rapporti erano stati sempre
difficili. Strillona da piccola, inquieta, malaticcia, si era
rinforzata crescendo con un carattere scontento.
Eleonora guardò l’ora, poteva chiedere un tè
perché forse Massimo sarebbe arrivato in tempo per berlo con lei.
Soli, avrebbe potuto raccontargli i suoi fantasmi. Quella donna
sfigurata sapeva chi era suo padre? Chi erano loro? E quella
bambina… no, questo mai. L’aveva giurato a sua madre, mentre stava
morendo.
Mai, Eleonora… mai. Giuralo.
Sì, mamma… te lo giuro, mai… Mamma!
Ricordava ancora la sua mano che allentava
la stretta, a poco a poco, allontanandosi per sempre, e lasciandola
sola. Con quel giuramento sul cuore, pesante come una croce.
Era sua madre.
Questo avrebbe potuto dirlo a Massimo
Gilardi che era avvocato. O forse no, avrebbe potuto confondere le
indagini.
Suonò il campanello, ordinò il tè. Era
pallida.
«Sta bene, signora baronessa?»
«Sto bene, grazie». Riabbassò gli occhi sul
libro, e ritrovò il punto dove si era interrotta.
… dimmi che è la tua vita che vuoi, che sei
allegro o infelice o soddisfatto, o irrequieto. Se hai perduto il
senso della mia esistenza. Dove sei?...
Chiuse nuovamente il libro e, cosa che non
faceva da anni, si ricordò di piangere.