DUE
Il commissario D’Urso si fermò sulla porta di quella cucina che sembrava fantascienza e raddrizzò le spalle. Si ricordò con un certo plausibile imbarazzo il giorno che aveva preceduto le nozze, quando Elena e Carlo avevano mostrato agli amici e ai parenti la loro casa nuova. Quella cucina, con il doppio frigorifero che sputava il ghiaccio, il lungo tavolo e gli armadietti chiusi, come se fossero muti.
Tu non sai far cuocere un uovo aveva detto la sorella maggiore.
Magari con questa cucina imparo pure
Il ricordo gli pizzicò la gola.
Carlo era seduto davanti a quel tavolo, la testa tra le mani. Beppa, la vecchia domestica vestita di nero, gli stava accarezzando la schiena.
«E beviti il caffè… avanti, è caldo». Alzando la testa l’aveva visto. «C’è quello della polizia… Carlo».
Carlo staccò le mani dal viso e guardò D’Urso. «Ho sognato? È un incubo?»
«No, Carlo. Purtroppo è vero. Al vicecommissario hai detto che l’hai trovata tu… ripetilo anche a me». E si sedette di fianco a lui e sorrise a Beppa che gli porgeva la tazzina del caffè.
«Che ti devo dire? Da dove comincio? Ieri sera eravamo in salotto insieme, abbracciati, felici… Io stamani dovevo andare in Svizzera…» Si frugò nella tasca della giacca che non si era tolto e mise sul tavolo il biglietto dell’azienda che doveva raggiungere a Lugano. «Ecco, qui. Dovevo andare in Svizzera con una parte della collezione, un nuovo cliente. Elena non ha voluto venire, non era importante. L’ho portata a letto e abbiamo… sì, insomma, hai capito. Poi io sono salito in camera mia…»
«L’ora?»
«Circa la una e mezzo. Dico circa, perché quando ho guardato l’ora per sistemare la sveglia era la una e quaranta ed ero stato in bagno. Quindi circa la una e trenta. Stamani alle sette sono entrato in camera di Elena per salutarla e… Dio mio, dimmi che non è vero. Svegliatemi, per favore. Svegliatemi o divento pazzo… chi può aver fatto una cosa simile? Chi è quel mostro?»
«Calmati, Carlo. Devi essere calmo e lucido se vuoi aiutarci a scoprire la verità».
«E che me ne faccio della verità? Mi restituite la donna che amo? Me la ridate viva e sorridente, felice com’era? Me la ridate la mia Elena?»
«Purtroppo no, Carlo. Ma noi vogliamo giustizia. Vogliamo sapere chi e perché. E tu devi aiutarci».
«E come faccio?»
«Sospetti… qualcuno che vi odiava, che era geloso della vostra fortuna… un ladro sorpreso…»
Carlo continuò a scuotere la testa.
«Dobbiamo portarti in questura, il procuratore vorrà interrogarti…»
«A me? E da me che cosa vuol sapere se io non so neppure se sono vivo?»
«Ecco, non dire mai frasi di questo genere. Rispondi soltanto per quello che sai. Le porte erano chiuse?»
«Sì, al solito».
«Allarme?»
«L’abbiamo acceso in laboratorio, ma non in casa».
«I cani?»
«Sono due dobermann che mi ha dato la sorella di Elena, ma li teniamo chiusi, sono spaesati. Avevamo il timore che fuggissero. I cani non hanno abbaiato, ero sveglio, li avrei sentiti».
«Come sarebbe entrato?»
Carlo scosse la testa. «Non ne ho la minima idea. Stamani porte e finestre erano chiuse al solito. Chiedilo al vicecommissario, hanno guardato…»
«Elena potrebbe essere andata ad aprire la porta?» Carlo lo fissò, cercando di interpretare la domanda. «Non a un amante, non essere stupido. Ma a qualcuno che conoscev…»
«All’una di notte? Ma che cosa stai dicendo?»
«Se qualcuno che conoscete avesse suonato alla porta, Elena sarebbe andata ad aprire?»
Carlo scosse la testa e Beppa, alle sue spalle, si fece un segno della croce e scosse forte le mani. «Ma a letto si toglieva la gamba, come avrebbe fatto?» strillò, isterica.
D’Urso guardò Carlo che gli fece di sì con la testa. «L’ho portata a letto in braccio. Si era tolta la protesi. Comunque non sarebbe mai andata ad aprire, di notte. Aveva l’alarm, un cellulare che teneva sempre sotto il cuscino, con il mio numero: avrebbe chiamato me, eravamo tutti svegli. Lo escludo. Chiunque sia, è entrato probabilmente dal giardino, l’unica via aperta, e conosceva la casa».
«E sapeva dove dormiva la Elena» aggiunse fiera la Beppa.
«Non è detto. Se aveva ancora la luce accesa in camera non sarebbe stato difficile individuarla attraverso le persiane, anche se chiuse» completò D’Urso. «Comunque ti interrogheranno e ripeterai quello che hai detto a me. Se ti viene in mente altro, aiutaci. Sono importanti anche particolari che magari a te sembrano assurdi». Si alzò. «Hai un avvocato?»
«Ho bisogno di un avvocato?»
«Certo. Tu sei innocente, lo sai tu e lo so io. Ma per il procuratore tu sei un potenziale assassino, non dimenticartene mai. E non rispondere mai, neppure come ti chiami, se non hai un avvocato. Ne puoi avere uno d’ufficio, se non conosci nessuno».
«Gilardi?»
D’Urso gli mise una mano sulla spalla. «Me lo immagino. Quello sta a Napoli e viene qui per te? Me lo immagino proprio. Comunque tu chiediglielo e intanto preparati un altro nome locale… Scusa, vado a vedere che cosa stanno facendo. Se ho altre notizie… e tu, se ricordi altri particolari… Quando ho finito, ti pregherò di seguirmi».
«Sono sospettato? Ma sei impazzito?»
«No, Carlo: informato dei fatti. Io arrivo soltanto sino a qui».
«Va bene, tanto ormai non m’importa più di niente. Ma trovatelo!»
«Faremo del nostro meglio, aspettami qui». E con un cenno che poteva essere di raccomandazione o di saluto si rivolse a Beppa che era rimasta impalata contro il lavello, alle spalle di Carlo. La donna gli fece di sì, muovendo appena il capo.
D’Urso si fermò sulla porta e rispose al telefono. Fece di sì con la testa un paio di volte, ringraziò e chiuse la comunicazione. «Da un primo esame molto sommario – il dottor Vincenzi è scrupoloso e rompicoglioni – Elena è stata ammazzata con un robusto ferro da calza tra la una e le due di stanotte, sarà più preciso dopo l’autopsia. Tra la una e le due, poco dopo che vi eravate lasciati. E tu eri ancora sveglio».
«Io?» urlò. E si lasciò cadere sulla sedia con la testa tra le mani.