NOVE
Mentre scendevano a valle, lentamente per
schivare gruppi di donne che uscivano dalla chiesa, Ilaria Guerci
vide il negozio. La vetrina leggermente arretrata rispetto alla
strada, la porta a vetri con la maniglia robusta. Un ragazzino era
seduto sul gradino davanti alla porta e mangiava a strappi un pezzo
di focaccia.
«Si fermi, commissario, guardi».
«Che cosa?»
«In quella vetrina, ci sono i ferri e i
gomitoli…»
D’Urso aveva fermato la macchina in mezzo
alla strada, e un uomo da dietro gli aveva gridato alzando un
pugno. «Ehi… ma guarda…»
D’Urso accostò. Spense il motore e uscì
dall’auto in un unico gesto. «Allora?» gridò verso l’uomo.
«Allora… allora… non si va in questo modo in
mezzo alla strada, impiccia».
D’Urso era in divisa e l’uomo abbassò la
testa.
«Di chi è quel negozio?»
«Perché lo vuol sapere?»
«Ti va di perdere tempo? Allora vieni con
noi in questura, così ti sbrighi…»
«Il negozio è di mia moglie, che adesso è in
chiesa».
«Valla a chiamare, dobbiamo parlarle».
«Che cosa ha fatto?» L’uomo era visibilmente
agitato.
Uno, vicino a lui, gli diede di gomito.
«Sono qui per il delitto…»
«E io che c’entro? Mia moglie…»
«La vai a chiamare tu o ci vado io?»
«Ci vado, ci vado…» Alzò la testa
voltandogli le spalle. «Eccola, sta venendo. E se non fate tanto
chiasso è meglio, non l’abbiamo ammazzata noi, a quella».
La donna, avvicinandosi, si tolse il velo
dalla testa e affrettò il passo. «Che cosa succede?» domandò al
marito. Poi si rivolse a D’Urso. «Voleva me?»
«Sì, mi scusi. Possiamo entrare un momento
nel suo negozio?»
«Sì, venga». E rivolta al marito, con
malagrazia aggiunse: «E tu sempre a urlare… ti distingui sempre… Lo
scusi, sa?» aggiunse rivolgendosi a D’Urso. Vide Ilaria Guerci e le
sorrise, intanto stava girando la chiave nella serratura. «Anche
lei in divisa? È una poliziotta?»
«Vicecommissario Guerci. Il ragazzino è suo
figlio?»
«Ma che cosa dice, dove ce li ha gli occhi?
Al massimo mio nipote… invece è figlio della Bianca, una vicina che
va a servizio. Sempre tra i piedi e sempre a rubacchiare… Poi si
stupiscono che diventano delinquenti».
Ed erano intanto entrati nel negozio. Un
piccolo locale che aveva scaffali invece di pareti, scaffali e
cassetti, maniglie lucide, cartellini. Fu subito chiaro che si
trattava di un negozio di fili, bottoni, cerniere, aghi, lana e
ferri da calza. Anche altro, ma forse l’elenco esatto a D’Urso in
quel momento non importava. Una merceria.
«Lei ha venduto alla signora del castello
quei ferri che sono in vetrina?»
«Oh, Dio… non penserà…»
«Lasci stare quello che penso io, mi
risponde?»
«Sì, l’anno scorso. Quattro paia di ferri e…
forse dodici gomitoli di lana. Per le calze dei rifugiati…»
«Tutti dello stesso spessore?»
La donna gli sorrise, come se avesse detto
una sciocchezza. «Dello stesso numero? No, di due numeri diversi,
per la lana più sottile o più spessa».
Il suo ragionamento le sembrò logico, e ne
fu orgogliosa.
«Se erano ferri soltanto di due numeri
diversi, perché ne ha comperate quattro paia?»
Altro sorriso. «E io come faccio a saperlo?
Forse anche l’altra… no, non quella che si è sposata il Carlo,
quella non sapeva fare niente. Ma forse la piccola… lei i golfini
per i neonati li sa fare. Forse lei».
«Un ferro come questo?» domandò Ilaria
Guerci mostrandole la busta di plastica e il ferro che le aveva
dato Eleonora.
La donna fece un balzo all’indietro e alzò
le mani. «Misericordia, l’hanno ammazzata con quello?»
«No, non con questo» le rispose il
vicecommissario. «Con un ferro come questo».
«E lei da me che cosa vuole sapere?» Non si
era ancora ripresa. «Se gliel’ho venduto io? Non alla Elena,
gliel’ho detto. Ma alla sorella, sì. Gliel’ho appena detto».
D’Urso le sorrise. «Ora provi a ricordare,
ha venduto ferri come questo a altri, in paese? O a qualcuno di
passaggio? Non sono ferri comuni…»
«Sì, che sono ferri comuni, è che la gente
ora non fa più le calze di lana in casa. Che cosa vuole, al mercato
costano sei euro, costano di più i ferri».
«Allora, si ricorda…»
«… se qualcuno li ha comperati?»
«Stai attenta a quello che dici» la
interruppe il marito.
«Ma taci, va’… bisogna aiutarla la
giustizia, vero?» Fu premiata da un doppio sorriso di approvazione.
«Taci… Sì, invece. Ci avete proprio azzeccato… io ho venduto ferri,
di quel numero, alla fornaia qua sotto. Io gliel’ho detto che erano
troppo grossi per fare un golfino al nipote, ma lei dice che non ci
vede… Insomma, li ho venduti a lei».
«Quando?»
La donna guardò verso il soffitto, come se
potesse leggerlo da qualche parte. «Vediamo… siamo a marzo e ho
fatto i conti…»
D’Urso capì che stava tirandola in lungo per
darsi importanza. «Va bene, grazie, non importa» disse, avviandosi
verso la porta che era rimasta spalancata.
«No, un momento… ha fretta? Era prima del
Festival, ecco. Lei lo ascolta il Festival? Era prima perché la
Emma mi ha detto che voleva lavorare mentre ascoltava le canzoni…
io gliel’avevo detto che i ferri erano grossi, ma lei…»
«Grazie, ci è stata di molto aiuto».
«Ma figuriamoci… se si può. E prendetelo
quel delinquente, lei era una così brava persona, senza
arie…»
«Di sicuro un uomo» disse il marito della
donna, seguendoli verso la macchina posteggiata di traverso davanti
alla vetrina.
«Perché?»
«Perché ci vogliono muscoli per un gesto
simile. Io che aiuto il macellaio al mattatoio glielo dico di
sicuro. Sembra facile, ma anche la nostra pelle è dura. I muscoli,
le ossa… come ha fatto a trovare la strada giusta per farla
morire?»
D’Urso pensò alle decine di trasmissioni, di
ipotesi, di prove servite dalla stampa e dalla televisione, e
sorrise. Tra tutti avevano già tracciato il profilo sicuro
dell’assassino: un uomo piuttosto alto e forte, macellaio o
studente di medicina. L’informazione stava muovendosi su queste
ipotesi.
Salendo in macchina sorrise rivolto alla
Guerci. «Tutti detective, si rende conto? Ognuno ha un’opinione,
anche stupida. Importante avere un posto dove andare a raccontarla.
E la televisione aiuta».
«Anche i giornali, commissario. Fanno del
loro meglio anche i giornali. E lei ha un’opinione?»
«Io mi lascio convincere dalle prove. E qui
non ne abbiamo. Lei ha qualche ipotesi, vicecommissario?»
«No, commissario. Quando ci danno il diploma
e le stellette ci tolgono la fantasia».
«E fanno male» la interruppe D’Urso. «Io
sono cresciuto professionalmente con un commissario, che ora è
avvocato a Napoli, che mi ha insegnato di non fidarmi ma di
ascoltarla, la fantasia. La fantasia aiuta, vicecommissario».
«E ora che cosa le suggerisce,
commissario?»
«Che ho fame. Andiamo a colazione dalla
Giorgina al Lambro? Poi torniamo dalla fornaia».
«Grazie, ci sto… però deve andare a
sinistra, commissario. Sempre a sinistra».
Dopo la colazione dalla Giorgina al Lambro,
torta di cozze e verdure, trote appena pescate con le patate in
umido e una gelatina di pesche, mezzo bicchiere di vino bianco e il
caffè, si rimisero in macchina e risalirono in paese, verso la
panetteria.
Che era chiusa, perché era pomeriggio, come
spiegò la Emma affacciandosi alla finestra del primo piano. La casa
era bassa, le persiane verde bandiera ridipinte di fresco, un
decoro di mattoni a vista a segnare l’angolo della facciata. Al di
là dei quattro gradini di pietra la porta sotto l’insegna
Alimentari era chiusa. Pane era serigrafato sui vetri.
D’Urso alzò la testa. «Mi scusi, lei è la
signora Emma?»
«Certo che sono io la signora Emma, ma lei
chi vuole?»
«Sono il commissario D’Urso della polizia di
Como, posso parlarle? Il vicecommissario Ilaria Guerci».
«E io che cosa avrei fatto?» domandò
sgarbatamente.
«Niente, signora. Ma forse è meglio se
scende… devo soltanto chiederle un’informazione».
«A me? E chi è stato a dirglielo?»
«Stiamo indagando sulla morte di Elena Orsi…
la conosceva, vero?»
«Certo che la conoscevo. Tutto il paese la
conosceva. Da me che cosa vuole?»
«Se preferisce la faccio chiamare in
questura. Altrimenti…»
«Va bene, scendo. Mio marito non c’è»
aggiunse, chiudendo con forza le persiane, perché capissero che era
femmina, ma risoluta.
Invece della porta a vetri aprì un uscio di
legno sul fianco della casa e mise avanti la testa. «Venite, quello
è il negozio, la casa è qui. Da me…» Li guardò dalla testa ai
piedi, poi rifece la domanda. «Da me che cosa volete?»
«Lei ha un ferro come questo?» le domandò
Ilaria Guerci, mostrandole il ferro nella busta che le aveva dato
Eleonora.
«Ehi, un momento! È il ferro con cui l’hanno
ammazzata? È quello il ferro? E io che cosa c’entro? Chi è la scema
che vi ha detto questa storia?»
«Lei ha dei ferri come questo?»
«Ma che v’importa?» Mentre rispondeva,
arrossendo per l’indignazione, li sospingeva senza toccarli lontano
dalla porta d’entrata. «Sono ferri comuni».
«Lo sappiamo. Lei ha dei ferri come questo?»
Ilaria Guerci ripeté la domanda a labbra strette.
«Sì, li ho. Questa è quella cretina della
Marlona, perché non pensa ai fatti suoi? Che con quel marito, ne
avrebbe… lasciamo perdere. Comunque volevo fare un golf a mio
nipote, ma ci ho rinunciato, non vanno bene». Si scostò dall’uscio
lasciandoli entrare e con il mento indicò una cesta che era in
mezzo alla stanza, a metà tra un salotto e una cucina, con il
divano e la televisione. «Sono lì».
Ilaria Guerci si chinò verso il cesto che a
bocca spalancata mostrava il proprio contenuto: lana di diversi
colori, gomitoli sfatti e gomitoli nuovi, una busta di plastica e i
quattro ferri. Non li raccolse, era inutile. E guardò D’Urso senza
capire che cosa volesse sapere: il ferro che aveva ucciso Elena
Orsi era in laboratorio, l’avevano estratto dalla gola della
vittima. Perché stava cercando ferri uguali a quello?
«Grazie, ci scusi» disse piano.
«Non li volete? Li prenda, sa, senza
complimenti. Tanto io non li uso».
«No, volevamo soltanto vedere… ci scusi,
signora Emma. Magari stava riposando…»
«E stavo riposando, sì. Mio marito non vi ha
nemmeno sentiti, lui la notte impasta e inforna. Con il pane si
guadagna, ma ne va di salute…» Con un gesto della mano indicò che
non voleva parlare di quello, ma del fattaccio che aveva sconvolto
tutti, in paese. «Non ci posso pensare, mi crede? E trovatelo quel
mascalzone, lei non se lo meritava… certo che se fosse rimasta a
casa sua non le capitava di certo. Invidia, o forse hanno fatto un
po’ di conti, quella è gente ricca. Credo che dovrete cercare tra
questi che arrivano e hanno fame… non gli basta mai. Ma lo sa… lei
cos’è, capitano?»
«Commissario, sì» tagliò corto, avviandosi
alla porta.
«I conti si fanno in fretta e loro non si
erano nascosti. Della casa nuova, di quello che gli era costata, ne
parlavano tutti… la fabbrica che ora si sta allargando… con i soldi
della moglie, ci credo».
«Ha rifiutato il patrimonio della moglie» la
interruppe D’Urso.
La donna restò a guardarlo a bocca aperta,
come se le ci volesse tempo a capire quello che aveva sentito. Poi
si scosse, persino riuscendo a ridere. «E bravo il Carlino, lo
sapevamo che era intelligente e furbo, di famiglia… ha rifiutato i
beni della moglie, sai che sforzo? S’è fatto la casa, sta
ingrandendo quella fabbrica di vestiti strampalati per finocchi, e
restituisce quello che è rimasto, perché nessuno sospetti di lui…
Ma che bravo! E voi gli credete?»
Si girò verso la stanza vuota, come se si
aspettasse di trovarci un pubblico consenziente, e si diede una
manata sui fianchi.
«Ma che furbo, il Carlino. Scommetto che se
la cava». Si avvicinò nuovamente a D’Urso. «State attenti a quello,
suo padre che badava alle ville s’è fatto ricco mentre le ville
sono in malora… lui è furbo di famiglia, dia retta a me,
comandante...»
«Commissario» la corresse nuovamente Ilaria
Guerci.
«Sì… fa lo stesso. Tutto quel lusso… con
questi che arrivano e hanno fame… sa le ceste di pane avanzato che
diamo alla chiesa per i profughi? Non basta mai… Cercate in mezzo a
questi, date retta. Certo lei ha sbagliato, ma l’amour… eh, capitano?»
«Sbagliato?» chiesero insieme D’Urso e
Ilaria Guerci.
«Tutto quel chiasso, tutto quel lusso… qui
la gente conta i centesimi, ma sa quanto è costata la funzione in
chiesa, con violino e armonium? Il Vescovo, che non si muove a
gratis di certo. I confetti per tutti, a sacchi. Gli addobbi e la
colazione sul prato con le tende… qui la gente vede, tace, ma
rimugina… Certo, un po’ più di riservatezza, che cosa dice?»
«Non so…»
«Ma c’era anche lei, io me lo ricordo. Era
testimone del Carlo… Queste cose le ha viste anche lei».
«Sì… non c’entra, vedremo. Grazie, ci
scusi».
«Se serve…»
«Grazie, buona giornata».
Quando furono risaliti in macchina avevano
iniziato a scendere verso la superstrada, Ilaria Guerci osò porre
la domanda che aveva rimandato sino a quel momento. «Ma da questi
che cosa voleva sapere, se l’arma certa del delitto è in mano al
dottor Vincenzi?»
«Volevo sapere se quei ferri sono di uso
comune. Se li conoscono in tanti, se sanno come si usano. Difficile
immaginare che uno che non li ha mai visti possa sapere che sono
così forti e duri, al punto da poter entrare con un colpo solo in
gola e uccidere. Bisogna averli avuti in mano, sapere quanto
possano resistere incontrando ossa e nervi, e quanto possano
uccidere».
«Si è dato una risposta, commissario?» Piena
di ammirazione ora lo guardava guidare, con la testa spinta in
avanti e la fronte corrugata. «C’è una risposta?»
«No, non c’è. Ma ora io ho una domanda in
meno. Elena è stata uccisa da qualcuno che conosceva quei ferri,
che li aveva visti, presi in mano, soppesati. Che sapeva quanto
fossero pericolosi e come doveva usarli».
Ora l’avrebbe scritto nel suo rapporto.
Ilaria Guerci sorrise, soddisfatta di far parte della squadra
investigativa del commissario D’Urso.