DODICI
Entrando, Carlo istintivamente l’abbracciò.
Poi si ritrasse e le chiese scusa.
«Carlo…» Questa volta fu lei a mettergli le
braccia intorno al collo, alzandosi sulla punta dei piedi. «Carlo…»
ripeté in un singhiozzo.
«Grazie, baronessa…»
«E lascia stare la baronessa». Ora lo stava
guardando in viso, accarezzandolo. «Sono la sorella di Elena, sono
Eleonora… E tu?»
«Sto male, non sai che piacere mi ha fatto
la tua telefonata… grazie».
«Vieni, siamo soli. Elisa è andata a Como, è
venuto a prenderla quel commissario… D’Urso, mi pare».
Carlo fece la faccia scura. «Perché?» chiese
allarmato.
Eleonora comprese l’equivoco e gli sorrise.
«No, vieni, sediamoci. L’ha invitata a teatro, all’opera… io l’ho
spinta ad andare». Ora si erano seduti sul divano, uno accanto
all’altra, e Eleonora gli prese la mano. «Si è messa quel tubino
nero che le aveva regalato Elena… stava bene. L’opera è una cosa
seria» aggiunse, per scusarla di quella distrazione che le era
stata concessa. «E tu?» domandò.
«Io… a me non sembra di essere vivo».
«Tutto a posto con questo D’Urso?»
«No, non sono indagato. Soltanto un pazzo
potrebbe pensare una cosa simile. Non sai quanto mi manca».
«Lo so, lo immagino. Manca tanto anche a me.
Sempre allegra, imprevedibile… aveva cominciato a mancarmi dal
vostro matrimonio, anche se ogni giorno riuscivamo a vederci, a
parlarci. A ridere insieme. Mi stavo abituando a poco a poco alla
sua mancanza, ma ora… e quella domanda fissa in testa» aggiunse,
portandosi la mano alla fronte. «Perché?»
«Io non voglio una risposta, io rivoglio
Elena».
«Lo so… lo so. Ora andiamo a tavola, Carlo.
Mettiamoci quieti. A volte la volontà del Signore è incomprensibile
ai nostri cuori… mettiamoci nelle Sue mani».
Carlo fece una smorfia, ma si trattenne dal
risponderle. In fondo era gentile. Da quando Elena era sparita
dalle loro vite, era la prima volta che lo invitava. ‘Perché?’ si
chiese. Perché loro due da soli? Che cosa voleva sapere da
lui?
Entrando nel salottino dove aveva fatto
preparare la cena, Eleonora si fermò e lo trattenne posandogli la
mano sul braccio. «Il nostro amministratore mi ha detto che tu hai
rinunciato definitivamente al patrimonio di Elena, perché?»
«Perché non mi appartiene, non lo
voglio».
«Hai pensato che questo gesto, che non
giudico e non discuto, potrebbe rivoltarsi contro di te? Quasi un
pretesto per sottolineare di essere disinteressato e quindi
innocente?»
«Io sono innocente, non ho bisogno di gesti.
Eleonora, io sono innocente. Io l’amavo e ora sono disperato. Di
quei soldi non ho bisogno e non li voglio, qualunque cosa
significhi questo gesto: non li voglio».
«Va bene, ne parleremo». Si accomodò al suo
posto e lasciò che Carlo l’aiutasse ad accostare la sedia al
tavolo. «Ti ho fatto preparare i nostri raviolini in brodo… Tutta
roba nostra, anche le galline».
Fu al momento del piatto con il bollito
misto, messo a lato di Carlo perché facesse le porzioni, che
Eleonora si passò una mano sugli occhi. «Quello era il posto di mio
padre, quando mangiavamo in famiglia, e quel lavoro toccava sempre
a lui, ci teneva». Fece un sospiro, quasi un segno della croce.
«Forse un uomo in casa ci è mancato, dopo la sua morte. Si era
dedicato con entusiasmo a Elena con i cavalli e a Elisa con il tiro
al piattello. Brave tutte e due. Quando per motivi diversi hanno
smesso, lui si è ritirato nelle sue stanze con i suoi libri di
storia, e lì è vissuto sino a quel maledetto giorno dell’incidente.
Lasciandoci orfane e sole. Tre donne… sì, un uomo in casa ci è
mancato davvero. Ora ti guardo tagliare quella carne, con i suoi
gesti… e mi commuovo».
La cameriera che sosteneva il piatto nel
quale Carlo sistemava e sceglieva le fette di carne per Eleonora
gli suggeriva intanto i tagli che la sua padrona preferiva. «Basta
così, per la baronessa. Forse quella cipolla e la carota».
Rimasti nuovamente soli, imbarazzata
Eleonora gli chiese all’improvviso: «Volevate adottare un
bambino?»
Carlo restò a fissarla per un attimo, come
se la domanda richiedesse una risposta che gli era sconosciuta. A
bassa voce disse: «Un bambino africano… ora non me lo affideranno,
manca la mamma».
«Io, non posso?»
«Non credo che bastino un uomo e una donna,
devono essere sposati, vivere insieme… io non sono informato sulla
prassi di queste adozioni, era una faccenda della quale si occupava
Elena. Io ho condiviso il suo desiderio e ho firmato, ma non ne so
molto». Cercò di nasconderlo, ma era inorridito da quella domanda:
io non posso?
Che cosa voleva sottintendere, che non
riusciva a capire?
«Ci saranno delle carte, forse possiamo
esaminarle. Un bambino…»
«Io non potrei occuparmene» la interruppe
deciso.
«Ma io, sì».
Carlo alzò la testa con un gesto brusco. Era
stata lei? Gelosa di quell’uomo che lei rimpiangeva? Gelosa di quel
bambino che lei non avrebbe mai avuto? La guardò cercando di
scorgere il mostro che era in lei, in quella donna precocemente
vecchia con un ciuffo di capelli bianchi, una freccia da un lato
sulla fronte, con quelle mani grandi, pallide e affusolate, gli
occhi chiari come se fossero ciechi. Quella donna… E abbassò
nuovamente la testa. «Scusa…» mormorò.
«Non fraintendermi, Carlo, mi faresti torto.
Non voglio diventare tua moglie, mi chiedevo soltanto se fosse
possibile con un espediente legale realizzare il sogno di Elena.
Posso chiedere al nostro avvocato?»
«Naturalmente…»
Dopo fu difficile a entrambi trovare ancora
qualcosa da dirsi, come se quella domanda avesse segnato un solco
tra di loro, impossibile da rimarginare.
Nuovamente in salotto, con la tazzina del
caffè in mano, Carlo ritornò sui suoi pensieri. Odiandosi per quel
dubbio atroce, senza riuscire a liberarsene.
«Che cosa voleva fare Elena con quei ferri
che le hai dato… perché glieli hai dati tu, vero?»
«Sì, io… se si potesse leggere il futuro!
Quel commissario ha cercato di sollevarmi dal mio senso di colpa.
Chi l’ha uccisa non aveva bisogno di quel ferro… ma io non mi do
pace. A che cosa le serviva? A lavorare in rotondo e senza giunte
un collo alto, da infilare dalla testa come se fosse una sciarpa su
misura. L’aveva visto in America, voleva provare…»
«Sì, capisco…» Di sfuggita diede un’occhiata
all’orologio che aveva al polso. «Io, purtroppo, devo tornare in
studio per collegarmi con l’America… Abbiamo due nostri
rappresentanti laggiù con la collezione e ci sono sei ore di fuso
orario».
«Certo, certo. Sono contenta che tu abbia
accettato di venire qui a cena, spero che tu voglia farlo ancora, a
noi fa piacere…» Si erano alzati, uno di fronte all’altra.
«Ricorda, Carlo: questa è anche casa tua».
«Grazie… abbiate pazienza con me».
«Certo. Ti prego, torna: Elena è anche
qui».