CINQUE
Liciuzza, che stava passando l’aspirapolvere sul tappeto in anticamera, lo guardò entrare come se avesse sbagliato porta.
«Che successe? Non sono neppure le dieci».
«La signora?»
«Ancora in bagno, si lavò i capelli… sta asciugandoli».
Gilardi fece scorrere quattro dita della mano sulla porta e la socchiuse. «Posso, amore?»
«Che ti sei dimenticato?» Gli mostrò i capelli spettinati e rise. «Sono indomabili, accidenti».
«Come te?» Glieli accarezzò e si chinò a darle un bacio leggero sulle labbra.
«Come mai a casa?»
«Hai fatto colazione?»
«Ancora no».
«Insieme?»
«Certo, ma che vizi sono? Mi devo preoccupare?»
«Purtroppo sì, ma non si tratta di me». E affinché non si preoccupasse per qualcuno della sua famiglia, aggiunse in fretta: «Elena…»
«Cosa è successo a Elena? Mi ha telefonato giovedì».
Gilardi trasse un lungo respiro prima di rispondere: «È morta...»
«No, ma come? Di che cosa?»
«Temevo che ascoltassi la televisione o la radio, ne stanno parlando e straparlando al solito. Volevo essere io a dirtelo prima che venissi a saperlo da loro. L’hanno uccisa con un fer…»
«Noo! Chi l’ha uccisa? Non Carlo, vero? Chi… con un ferro… Mi diceva che voleva venire a Napoli, a trovarci. Che era felice, che stava bene… capisci? Chi poteva odiare una donna come Elena? Buona, generosa, intelligente, allegra… chi, dimmelo!»
«Tesoro, non ho risposte. Nessuno ne ha. Sappiamo soltanto che è stata ammazzata con un ferro da calza in gola. Ti dico queste cose perché ora le sentirai in televisione, sino alla nausea. Tutti ci diranno come e perché… e intanto lei è morta e in giro c’è un mascalzone farabutto che l’ha uccisa. Perché?»
Erano arrivati in soggiorno, davanti alla tavola preparata per la colazione. Olga allungò una mano e scosse la testa. «Non ho voglia, neppure del caffè…»
«Bevi due sorsi di spremuta… Ecco, questa ti aiuta».
Bevvero in silenzio, poi Olga si sedette sul divano e si prese la testa tra le mani per rendersi conto di avere ancora i capelli umidi. Fece una smorfia.
«Siamo sicuri che Carlo non c’entri?»
«Direi di sì. Ma per essere sicuri, bisogna trovare un assassino, e se non si trova, potrebbe essere incriminato».
«Lo difenderai?»
«Sì, se me lo chiede».
«E se fosse colpevole?»
«Non sono io che devo giudicarlo, non è un mio compito: io non sono Dio. Ma non parliamo di questo, amore. Siamo ancora lontani da un eventuale processo. In tribunale stamattina invece io ho un processo contorto per Nicola Tuono, devo andare. Volevo essere io a dirti di Elena, ma purtroppo devo lasciarti, non posso farmi sostituire perché Ricky ha un’udienza preliminare piuttosto tortuosa. Ci vado con Aziz». Le sorrise, carezzandola sotto il mento. «In studio c’è Laura, se vuoi».
«Grazie, ma non ti preoccupare per me. Sono stordita e ancora incapace di crederci. Ma reagirò. Anch’io non credo alla colpevolezza di Carlo e sono contenta che sarai tu ad assisterlo: Elena…» S’interruppe e si asciugò gli occhi con le mani. Max Gilardi le offrì il suo fazzoletto di batista di lino e cercò qualcosa da dirle per farla sorridere. «Pare che io sia l’unico uomo rimasto che usa ancora i fazzoletti di lino… approfittane amore, siamo una razza in declino».
«A me basti tu…» Si strinse a lui, abbracciandolo, e finalmente riuscì a piangere.
Meno di mezz’ora più tardi, ancora confuso, era in macchina, stava guidando Aziz.
«Hai chiara la situazione?» gli domandò.
«Sì, avvocato. Soprattutto perché il PM ha sbagliato l’analisi di questo imbroglio, si è sconfitto da solo».
Gli sorrise, quel ragazzo gli piaceva. «Non ci contare, Aziz. Non ci contare mai. Ma se sei convinto su questa linea, ti seguo». Gilardi si fidava del suo assistente.
Aziz strinse il volante tra le mani e disse di sì.