DICIOTTO
«Non è la macchina di Elisa, quella?» Carlo
fece di sì, con la testa. «Che ore sono? Mi aspettano a
cena».
«Le cinque e tre quarti…»
«Dove va?»
«Elisa? A Como, qualche volta a Milano… Io
credo che se la faccia con Sante».
Gilardi spense il motore e uscì dalla
macchina. «Stai scherzando, vero?»
«No… un mio amico, che loro non conoscono,
mi ha detto che ogni tanto li vede insieme a teatro, al ristorante…
anche a casa di lui, Sante abita in centro ed è facile vederli
entrare e uscire dal portone. Ma che male c’è? Sono liberi tutt’e
due».
«Certo. Ciao… domani prima di partire
ripasso: ti trovo?»
«E dove vuoi che vada?»
«A domani, ora mi aspetta Eleonora e poi
faccio un salto a Como, prima di cena. Mi ha invitato Ricetti, il
procuratore. Gli ho detto che ero da queste parti». Risalì in
macchina e accese il motore. «Dove abita Sante?»
Carlo gli diede l’indirizzo. «Vero che non
l’hai avuto da me?»
«Ciao, tranquillo: a domani».
Eleonora gli andò incontro a braccia tese.
«Che piacere, Massimo. Grazie di essere venuto».
Gilardi la baciò sulle guance e si sedette
di fronte a lei. «Dovrai scusarmi, ma bevo una tazza di tè e scappo
a Como, vuole vedermi Ricetti».
«Il procuratore? Ci sono novità?»
«Non credo, lo saprei. Gli ho detto che
venivo a trovarvi e vuole salutarmi. Ti ho avvertito perché
ceneremo un po’ più tardi».
«Non importa, Massimo. Anche Elisa è a Como
per un tè a casa di una nostra amica».
«Vedete Sante D’Urso? Vi tiene al
corrente?»
Eleonora alzò lo sguardo dalla tazza dove
stava versando il tè. Perché gli sembrò che fosse arrossita? «Lo
vede ogni tanto Elisa. Un paio di volte l’ha invitata a teatro,
credo che lui abbia i posti che spettano alle autorità… Non è mai
venuto qui».
Terminato il tè e dopo essersi informato
sulla loro salute, Gilardi si alzò.
«Sono certo che mi perdonerai, ma mi sembra
interessante. Va bene alle otto e mezzo?»
«Certo, Massimo. Ti aspetto, non ti
preoccupare».
Durante quei pochi momenti che avevano
trascorso insieme, Eleonora gli aveva chiesto notizie di Olga e dei
bambini. «Grazie, anche Olga ti saluta. Credo di avere in valigia
una piccola cosa per voi».
«Oh, ma certo, la valigia: dove ho la
testa?»
«L’ho data al cameriere, è tutto a posto. A
più tardi, cara…»
Fece la strada sino a Como speditamente, non
c’era traffico di trebbiatrici e di altri mezzi pesanti sulla
strada che arrivava dai campi. Sul navigatore aveva segnato
l’indirizzo di Sante e fermò la macchina davanti al portone,
dall’altro lato della strada di via Mazzini 18.
Vide uscire Elisa, a passo svelto. Più
avanti, nel posteggio privato della casa, riconobbe la sua Jaguar
verde. Le diciannove e dieci: tornava a casa per la cena.
Attraversò la strada e si trovò faccia a
faccia con Sante, che stava uscendo di fretta, passandosi le mani
tra i capelli per rassettarli.
«Oh, avvocato… come mai?»
«È così che lavori, mascalzone?» gli disse
ridendo. «Ho visto Elisa uscire di corsa».
«Sì… voleva notizie, senza rendersi conto
che non potrei dargliene».
«Ed è per chiederti notizie che ti ha
lasciato uno sbaffo di rossetto sul colletto della camicia?»
Sante D’Urso si portò istintivamente la mano
al colletto. Capì di aver fatto una sciocchezza e arrossì. «No, per
favore…»
«Andiamo, rubacuori… non hai nessuno sbaffo
sulla camicia, ma ci sei cascato come un principiante. Andiamo, mi
aspetta Ricetti».
«La prego, non pensi…»
«L’ultima cosa alla quale ho voglia di
pensare, è con chi te la fai. Chiuso l’argomento. Tuttavia stacci
attento».
«Sì, certo. Lei è sola in quel paese, con la
sorella che piange e biascica preghiere dalla mattina alla sera…
quando ho i posti a teatro, la invito. Credo che lei
vorrebbe…»
Gilardi gli appoggiò una mano sulla spalla.
«Affari tuoi, Santino. Sei grande abbastanza per sapere quello che
devi fare. Invece parlami di Ricetti, lo conosco poco».
«Uno duro, molto attento. Intransigente,
direi…»
Entrarono, salutando a destra e a sinistra
ragazzi in divisa che scattavano sull’attenti, e si fermarono
davanti all’ascensore.
«Commissario capo, a che piano?»
«Terzo, dottor Ricetti».
Il procuratore intransigente era un ometto
piccolo e grasso, con una corona di capelli grigi che gli segnava
la testa sul collo da un orecchio all’altro. Vestito regolarmente
di nero.
«Caro avvocato, come sono contento di
conoscerla, finalmente». Gli stringeva la mano alzando goffamente
la testa verso di lui. «Venga, si accomodi… insomma, questo è il
mio ufficio, venga». Li precedette in uno studio che sembrava la
riproduzione esatta di tutti gli studi di tutti i procuratori che
Gilardi aveva incontrato nella sua carriera: pensò divertito che ci
doveva essere uno schema al quale tutti i procuratori, in ogni
tribunale del mondo, dovevano attenersi. La libreria carica di
libri e di faldoni. La scrivania ordinatissima, come se non ci
lavorasse nessuno, la solita lampada verde, le sedie con
l’imbottitura nello schienale, tre piante davanti a una finestra
con le tapparelle abbassate.
Si sedettero tutti e tre dalla stessa parte,
davanti alla scrivania, e dopo aver rifiutato caffè e altre
bevande, Gilardi pose la domanda che si aspettavano: «Ci sono
novità?»
«No, caro avvocato. Ci muoviamo in un vicolo
cieco. Tutte le prove sono negative. E purtroppo tutto quello che
abbiamo ci riporta al marito, l’unico che fosse in casa a
quell’ora. A meno che…»
«A meno che?» domandarono quasi assieme
Gilardi e D’Urso.
«Non accettiamo l’idea del dottor Antonello
Servi, PM in questo caso».
«Che sarebbe, se può dircelo?»
«Non impossibile, avvocato. Che un ladro o
un estraneo sia entrato di sera, fin tanto che le porte e le
finestre erano aperte, si sia nascosto e sia uscito dal
nascondiglio per compiere il delitto quando il marito è salito
nella sua camera».
Sante D’Urso guardò Gilardi. Capì,
dall’atteggiamento dell’avvocato, che ora avrebbe distrutto il
procuratore e il PM in un colpo solo, conosceva quell’espressione.
Ed ebbe ragione.
«Stravagante, come ipotesi» disse con il
tono leggero di chi stia scherzando. «Uno si nasconde dalle sette
di sera all’una di notte, entra in una camera dove due hanno fatto
l’amore, lascia che il marito salga in camera sua, ammazza una
donna usando un’arma impropria, comunque trovata sul luogo e per
caso, e se ne va uscendo non si sa da dove e senza rubare neppure
l’orologio d’oro, di gran marca, che era sul tavolino accanto al
letto. Uno così vorrei conoscerlo, doveva avere ragioni molto
serie. Sappiamo quali? E non era certamente un ladro».
«Comunque l’ipotesi regge, se decidiamo che
non si tratta di un ladro».
«Bene, concordo. Non è un ladro».
«Stiamo lavorando sulle conoscenze del padre
delle tre donne. Lei sa che il padre non era uno stinco di santo.
Qualche vendetta…»
Gilardi fece un gesto d’impazienza muovendo
le mani. «Se non ricordo male, il padre è morto da tempo. Ci
pensano ora a vendicarsi? E perché su Elena: dare fuoco al castello
non sarebbe stato più facile?»
«Troppa gente… ci abbiamo pensato. Ci sono
cani e servitù. Poi c’è quella storia della sorella che non sarebbe
sorella… la conosce?»
«Mi sembra una gran minchiata, caro
procuratore. Una faccenda di quarant’anni fa, ci rendiamo conto?
Sappiamo se la sorella a metà era davvero Elena?» Il procuratore
scosse la testa. «Allora, perché lei? Perché era sposata e felice?
Comunque la ringrazio ma non è affare mio, io sono qui soltanto in
visita. Ero in Toscana e ho pensato di venire a salutare Carlo. Il
suo invito mi ha fatto piacere, ma la faccenda mi riguarda soltanto
affettivamente. Se ci sarà un processo e se me lo chiederanno, farò
assistere le due sorelle dal mio studio come parte civile. Sono
completamente estraneo a tutta la faccenda e mi sembra una gran
brutta storia».
Stava alzandosi, ma il procuratore lo
trattenne con un gesto. «Lei ha detto che Elena era innamorata e
felice: lei attribuisce molta importanza al fatto che fosse
innamorata e felice?»
Gilardi abbassò lo sguardo verso il
procuratore e si fermò un attimo a osservarlo. Quando decise che
poteva farlo, rispose: «Sì, per me dovreste tenerne conto. È
qualcosa che riguardava soltanto lei… Io non perderei tempo con
ladri occasionali o con vendette vecchie di anni. Volevano colpire
proprio lei».
«Perché era felice e innamorata» concluse il
procuratore con il tono di una sentenza.
A questo punto si alzarono e si strinsero la
mano.
«Mi ha fatto piacere conoscerla, avvocato:
lei è esattamente come me l’avevano descritta».
«Anche lei, signor procuratore. Buon
lavoro».
«Se avessi bisogno di fare ancora due
chiacchiere con lei?»
Gilardi gli porse un biglietto con il suo
nome. «Qui c’è tutto».
«Grazie, avvocato. Mi saluti la baronessa,
ci conosciamo».