Elena e Carlo
Uscendo dalla scuderia in cima alla collina e girandosi dalla parte del bosco che scendeva diritta verso la pianura, vide quell’uomo a cavallo che galoppava di lato sul sentiero. «Ehi, lei… ehi…» gridò.
L’uomo rallentò e alzò la testa. La salutò agitando il frustino e girò il cavallo verso di lei. «Mi scusi» disse. Gridando in quell’immenso vuoto.
«Dove sta andando?»
«Volevo scendere al fiume, mi scusi. Ho tagliato diritto e sono arrivato qua sotto. Mi dispiace…»
Il cavallo non riusciva a stare fermo e il sentiero era stretto.
«Al fiume, ha detto? Dove l’altra notte sono caduti i massi?»
«Sì, volevo andare a vedere…»
«Mi aspetti, scendo anch’io…»
Rientrò nella scuderia e ne usci pochi minuti dopo a cavallo di un baio scuro. Aveva indossato il gilet imbottito e il cap, le redini attorno a un polso, il frustino nell’altra mano.
«Andiamo… Io sono…»
«Lo so chi è lei. Sto cavalcando con una campionessa mondiale…» Ora stava ridendo, al piccolo trotto davanti a lei sul sentiero in discesa.
«Stia attento, qui i cavalli scivolano».
«Me ne sono accorto. Prendiamo la strada in costa?»
«Sì, è più ruvida. Tagli diritto a destra…»
Quando furono accostati, perché la strada si era allargata, Elena gli diede un’occhiata in tralice. «Ma lei chi è?»
«Sono il figlio di Giobatta. Abito nella frazione sotto di voi».
«Ah, ecco. Mi scusi, ma da qui non passa mai nessuno».
«Lo so, è proprietà privata. Speravo di non essere visto, ho tagliato per fare in fretta».
«Niente di grave… ecco il fiume, là sotto. Giriamo dalla parte del bosco, tra i pioppi…»
«Sì, è più sicuro».
Quando arrivarono sui prati allagati, tirarono le redini per fermare i cavalli.
«Che disastro… Il fiume si è mangiato un bel po’ di terra, come faranno quelli che vivono qua attorno?»
«Come hanno fatto sempre, baronessa».
«Mi chiamo Elena». E a un tratto si ricordò di quel ragazzino biondo che aveva fatto la cresima con lei. «E tu?»
«Carlo…» La guardò alzando appena lo sguardo. Perché gli stava dando del tu? Perché era figlio di un contadino?
«Già, scusa… Abbiamo fatto la cresima insieme, te ne ricordi?»
Carlo scosse la testa e arrotolando le redini intorno al polso tenne fermo il cavallo di Elena per consentirle di scendere. Non aveva bisogno di ricordarselo, non l’aveva mai dimenticato. E ora lei era lì e gli dava del tu.
«C’è una specie di bar, le va?»
Le offrì un infuso al bergamotto, specialità della locanda. Si ricordarono del giorno della cresima, che avevano fatto insieme agli altri ragazzi del paese, e della merenda offerta dalla baronessa a Villa Dubeca, in quel salone…
«C’è ancora?»
«Il salone? Certo che c’è ancora, ma non ci andiamo mai. C’era il vescovo, te lo ricordi?»
Carlo scosse la testa. «Non mi ricordo niente, soltanto che volevo tornare in fretta a casa mia».
«Perché? Che cosa ti avevamo fatto?»
«Beh, non avevo mai visto un palazzo come quello…»
Quando risalirono, e fu più facile di quanto fosse stato scendere, si fermarono sullo spiazzo davanti alla scuderia. Avvicinandosi sentirono nitrire altri cavalli all’interno.
«Grazie della gita e dell’infuso. Qui non vediamo mai nessuno».
«Io ci sono. Lavoro, ma se le va di cavalcare qualche volta… io ci sono» ripeté.
«Grazie. Forse la tua vita non è noiosa come la mia. Che cosa fate di sera?»
«Al sabato i ragazzi di qui vanno a ballare giù all’oratorio, oltre il muro di cinta. C’è l’orchestrina, si mangia… C’è mai stata?»
Elena gettò all’indietro la testa, ridendo, in un gesto che le era naturale. «Ma sei pazzo? A ballare, io?»
«Perché no?»
«Ho una protesi alla gamba destra, te ne sei dimenticato o fai finta di non saperlo…»
«Ha mai provato?» Elena scosse la testa. «Vuole provare?»
Soltanto un attimo di esitazione. «Quando?»
«Sabato. Se vuole alle otto passo a prenderla, la conduco giù in macchina, dà un’occhiata. Se le piace si ferma, altrimenti la riporto a casa, non c’è obbligo. Dice che una come lei…»
«Si può fare». Restò un attimo a fissarlo, mai avrebbe potuto dirgli quello che stava pensando. Alle sue sorelle avrebbe detto qualcosa, mai tutta la verità. Alle sue stranezze erano abituate, ma forse andare a ballare all’oratorio con un contadino sarebbe stato troppo. «Va bene, alle otto. E come ci si veste per venire a ballare?»
«Come vuole, nessuno guarda ai vestiti». Lui invece guardò l’orologio che aveva al polso. «Mi scusi, devo andare a lavorare. Penseranno che mi sono perso».
«Certo, scusi lei… davvero passa sabato alle otto?» Ora le sembrava giusto dargli del lei.
Carlo Orsi con due dita si fece una croce sul cuore. «Giuro, alle otto».
«Bene, alle otto».
«Buongiorno…» Esitò prima di riuscire a pronunciare il suo nome. E lo disse a bassa voce, come se parlasse soltanto a se stesso, e ci mise una punta d’orgoglio. «Elena…»
Avrebbe potuto davvero essere un teatro quell’enorme stanzone pieno di gente in piedi e di musica. Sulla parete di fondo, contro un fondale di cartapesta, il palco sul quale si esibivano sei ragazzi con trombe, chitarre e una fisarmonica. Al centro avevano tolto le sedie, ammucchiate verso la parete del bar. Tre o quattro tavolini con poche sedie, già occupate.
All’entrata di Carlo e Elena, due uomini si tolsero il berretto e si alzarono, lasciando libero un tavolo.
«No, per favore… Diglielo, Carlo, non sono venuta qui per…»
«Avanti, si accomodi, altrimenti ci rimangono male». Si sedette accanto a lei e alzò la mano verso il barista, un ragazzo dal ciuffo rosso sulla fronte e il grembiule bianco legato in vita. «Che cosa volete bere?»
«Tu che cosa bevi?» Non le riusciva di dargli del lei, di trattarlo come se non lo conoscesse.
«Di solito birra… vuole una Coca?»
«Sì, voglio una Coca». Lo disse come se non sapesse di che cosa stesse parlando. Girò lo sguardo intorno e si accorse che la musica era cessata, erano rimasti i suoni isolati di una tromba e qualche arpeggio alla fisarmonica. «Che cosa sta succedendo?»
«È per lei, qui non sono abituati a vedere le baronesse…»
«Ma che gli prende… abbiamo giocato insieme all’oratorio…»
«No, non con questi. Questi sono arrivati dopo di noi».
Elena fece una smorfia e si alzò. «Avanti, non hai detto che avremmo ballato?»
«Che musica vuole?»
«Quella che suonano… non so neppure se ci riesco…» Era stizzita, pentita di essere lì, diversa da tutte le altre donne, che erano ragazze con i capelli azzurri, violetti e biondi, con le spalle scoperte, le labbra scarlatte.
‘Che cosa ci faccio, qui?’ pensò. Decisa ad andarsene, anche da sola.
Invece Carlo l’aveva presa alla vita, e ora la stava conducendo a suon di musica in mezzo alla sala, tra altre coppie. «Va bene?»
«Sì» rispose risoluta. Ancora rigida. Ancora irritata. Poi, a poco a poco, la musica lenta, da innamorati, quel braccio forte che la sosteneva alla vita, un buon profumo di uomo sano, la convinsero a muovere i piedi. Ce la faceva. Ce la stava facendo.
Sì, ce la stava facendo.
Scostò la testa per mostrargli il viso: stava sorridendo. «Ehi…» disse piano.
«Ehi…»
«Scusa, non mi riesce di trattarti come se non ti conoscessi… eri un mocciosetto come me».
«Lei era una bambina bellissima».
«Avanti, ci marci?»
Affrontò il secondo ballo allegramente, stupita di riuscire a stare al passo. Al terzo si dimenticò della sua protesi e di quella gente che aveva smesso di guardarla con imbarazzo. Ora ballava tra le braccia sicure di quel giovanotto che si chiamava Carlo.
Chi era?
Glielo disse una sera che l’aveva condotta in macchina al lago. Le raccontò di sé, del suo lavoro, dei suoi progetti. Aveva fermato l’auto davanti alla darsena. Il lago era scuro e faceva paura.
«E sono innamorato di te».
«Sei pazzo… Sono vecchia e ho una gamba sola… che te ne fai di una donna come me?»
«Come faccio a dirti che donna sei? Mi manca il respiro solo a guardarti. Io ti amo, tutto il resto sono stupidaggini. Io sono figlio di contadini e tu sei la principessa…»
«Carlo, io non posso scherzare su queste cose, lo capisci, vero?»
«Non sto scherzando. Da quando ti ho incontrata, quel giorno a cavallo, da quando ti ho sentita ridere… sono come impazzito. Non ragiono più… Ti amo, Elena. Ho paura, a chiedertelo. Ho paura che tu mi dica di non volermi più vedere… Ti prego, sposami!» Gli era uscito di bocca quasi come un urlo sottovoce. «Ti prego… non ridere, ti prego».
«Anch’io sto bene con te. Non mi sono chiesta che cosa fosse. Quando non ci sei, mi manchi… Nessuno mi ha mai amata e protetta come fai tu. Io non ho molta esperienza, come puoi immaginare. Prima l’equitazione, le gare, i concorsi… poi la gamba. Sono sempre stata sola e isolata. Non so che cosa sia, ma ti amo anch’io». Scosse la testa, come se si fosse pentita. «Quello che credo che sia amore… è questo».
Si baciarono e in modo goffo e un po’ primitivo si resero conto che tra loro si era acceso un fuoco che li rendeva spavaldi. Carlo le scoprì il seno, e si chinò a baciarle il capezzolo scuro, l’ascella, il collo… «Divento pazzo» mormorò. Si passò la mano sulla bocca, con l’altra avvicinò i due lembi della camicetta. «Ti riaccompagno, scusa… quanto ci mettiamo a sposarci?»
«Domani sera vengo da te».
«Perché?»
«Perché voglio…» Riuscì a ridere. «Voglio che tu veda la merce che stai acquistando…»
«Non dire sciocchezze, mi offendi».
«Se non vuoi vedere come sono, tu offendi me».
E fu così che la sera seguente quella gita al lago, Carlo e Elena si unirono per sempre. Lei sfoggiò con malagrazia la sua protesi, Carlo si chinò a baciarle il tronco di gamba, come se fosse una reliquia. Risero e piansero insieme. Verso l’alba avevano deciso: si sarebbero sposati il 21 luglio, tre mesi dopo quella notte.
«Che fretta hai?» le chiese sua sorella Eleonora, all’annuncio di quelle nozze.
«Ho quarantadue anni, ho perduto molto tempo».
«Che non puoi certo recuperare…»
«E chi te l’ha detto?»
«E lui, chi è? Uno di qua? Un contadino?»
Elena la fulminò con lo sguardo.
«Guai a te, se mai ti venisse voglia di trattarlo come se fosse un contadino. Carlo è l’uomo che amo e che sposerò. D’ora in avanti sarà Carlo anche per voi due. Vi ho avvertite».
Quando l’annuncio si sparse per il paese – era stato don Gerolamo a dirlo in chiesa, con la benedizione della Santissima Gemma, presenti i due fidanzati – ci fu un gran parlare. I vecchi erano scandalizzati, mai uno di loro aveva osato guardare quelli del castello. Che non era un castello, neppure nelle intenzioni, ma uno strano palazzo a strati, sospeso tra scale e balconate.
Il padre delle baronesse raccontava che quel palazzo l’aveva acquistato il loro nonno da una nobile russa sfuggita alla rivoluzione. A ogni piano aveva nascosto un uomo, o amante che fosse, salvato dalla steppa o dalle tigri. Quando erano morti tutti, la bella aveva venduto Villa Dubeca, dal nome di un villaggio russo che era stato distrutto dalle fiamme, e se n’era partita per Parigi. Nessuno l’aveva mai rivista, mai incontrata. Era come sparita nel nulla da cui era venuta.
«Mi sono spiegata?»
«Va bene, non ti scaldare, abbiamo capito. Ce lo farai conoscere».
«Certo, quando sarò sicura che sarete pronte a trattarlo come se fosse un re».
Scoppiarono a ridere. «Tu sei pazza…» Eleonora la strinse tra le braccia. «Ma sei la nostra sorellina… Vero, Elisa?»
«Ma certo… certo che sì. E quando vi sposate?»
«Ecco, brava. Parliamo di cose serie. Ci sposiamo il 21 luglio».
«Di quest’anno?»
«Sì, Elisa, di quest’anno. La tua sorellina ha fretta».
«Aspetti…?»
«Ma va’!»
«E lui com’è?»
«Lui è Carlo, l’uomo che amo. Vi piacerà, ne sono sicura. Non ci volevo credere, ma sono pazza di lui».
«Bene, parliamone domani, ora è tardi».
Elena guardò quella sua sorella maggiore e cercò di immaginare che cosa stesse pensando di lei. Ma certo: che era pazza. Che stava sbagliando, che quel matrimonio non avrebbe prodotto niente di buono.
Eleonora, infatti, salendo le scale verso la propria camera scosse la testa scontenta. Mai una Clerici avrebbe potuto essere felice con un contadino… e lui che cosa faceva? E com’era? Magari la sposava per la villa, per i soldi… doveva parlare con l’amministratore, metterlo in guardia. Elena era sempre stata bizzarra, ma ora erano in gioco anche i loro soldi, le loro proprietà, i loro ricordi.
Non le avrebbe permesso di portare un contadino in casa loro.
‘Villa Dubeca’ pensò con orgoglio. E alzò gli occhi a quello stemma, tra frasche e spade, che dominava la larga scala centrale sotto la cupola di vetri policromi in un bizzarro volo d’angeli.
‘Ne parleremo’ pensò. Sicura che l’avrebbe fatta desistere da quella sciocchezza. Un rapido segno della croce e aprì la porta della propria camera.
Amen.
«Questo mobile lo vuole qui, baronessa?»
Elena reclinò la testa da un lato per valutare meglio l’angolo che l’uomo stava indicandole, e disse di sì.
«Allora il frigo lo mettiamo di fianco».
«Perfetto, sì… e il tavolo lungo qui di fronte. Le sembra che vada bene?»
«Mi sembra razionale, sì…»
Elena gli girò le spalle. L’aveva già stupita, mentre sistemavano le altre stanze, la proprietà di linguaggio di quell’uomo con i capelli grigi, lunghi sul collo, la tuta irreprensibile, le belle mani affusolate, responsabile della cucina avveniristica che avevano ordinato. Si chiamava… Restò a pensarci un attimo, poi alzò le spalle e raggiunse Carlo in veranda: se quello stava montando la cucina, e ormai avrebbe continuato da solo con la sua squadra, questi insieme a Carlo stavano sistemando la veranda con le belle poltrone in rattan, i cuscini, i tavoli bassi e le tende di canapa chiara a tutta altezza.
«Amore, ti piace?»
«Sì, molto. È proprio come l’avevamo immaginato. In terra possiamo metterci quel tappeto chiaro che mi ha dato Eleonora».
«Non sarà troppo?»
«Loro lo tenevano arrotolato in soffitta, almeno noi lo usiamo. È un tappeto persiano dell’Ottocento, quindi abbastanza moderno. Poi è chiaro, si intona bene con la stanza».
«Baronessa, scusi…»
Si girò, ancora il responsabile della cucina. «Sì?»
«Dovrebbe venire, per favore. Non sono sicuro del lavello, caso mai possiamo spostare le tubature: può venire?»
Stavano camminando uno di fianco all’altra, nel lungo corridoio che dalla veranda conduceva alla cucina. L’uomo era alto, più alto di Carlo. E aveva un profilo duro, segnato.
«Qual è il problema?»
«Poco spazio tra il frigo e il lavello… Sembrano accatastati».
«Vediamo». Sulla porta della cucina si voltò a guardarlo. «Lei come si chiama?»
«Mi chiamo Matteo».
Elena sorrise. «Il nome di mio padre».
L’altro non rispose, le tenne la porta aperta per farla entrare e la seguì.
Quell’uomo la imbarazzava. Sempre pronto a darle ragione, quando l’aveva. A sostenerla nelle rare discussioni con Carlo sull’arredamento delle varie stanze. A suggerirle una soluzione, sempre appropriata e intelligente.
Da uno degli operai della squadra aveva saputo che aveva studiato architettura ma al quarto anno aveva dovuto lasciare l’università. E aveva comperato quella fabbrica di mobili un po’ antiquata che aveva rivoluzionato, votandola al moderno di classe, firmato da architetti famosi. Ora stava andando bene, una delle poche aziende non soltanto della zona che in quel settore stava galleggiando in buone acque, come le disse l’incaricata dei tessuti e dei tendaggi, tale Maricla, che Elena suppose legata sentimentalmente al capo e padrone.
All’inizio, Elena lo interpellava chiamandolo architetto. Brusco le aveva detto di non essere architetto, borbottando tra i denti il proprio cognome, sotto i baffi spioventi che lo invecchiavano. Dietro le lenti i suoi occhi erano chiari, attenti e vivacissimi. Quando sorrideva, il sorriso iniziava da lì, dagli occhi: dietro quelle lenti sfumate che un po’ li nascondevano.
Aveva dimenticato il cognome, ora sapeva il suo nome.
«Matteo, pensa che un tappeto persiano stia bene con questi mobili?»
«Se non è cinese o troppo antico».
«Possiamo vederlo, è quello» gli rispose, indicandoglielo arrotolato contro la parete.
«Mettiamolo in terra e vediamo… No, baronessa, lasci. Chiamo qualcuno degli operai» la prevenne.
Fecero la prova, stava bene. Era chiaro e ammorbidiva le linee semplici delle poltrone di rattan. Matteo fece osservare che i colori del tappeto riprendevano i colori delle tende e dei cuscini. «Ma certo» rise Elena. «Come se l’avessimo fatto apposta».
Matteo le diede un’occhiata. «L’abbiamo fatto apposta. Maricla ha scelto i tessuti in base al tappeto, avevamo previsto che fosse per questa stanza».
‘Io quest’uomo lo odio’ pensò Elena ridendo dentro di sé. «Geniali» disse. E non era un complimento.
Quando la casa fu pronta, Matteo fece un giro per le varie stanze con Elena: per eventuali dettagli, disse. E con un gesto brusco allontanò Maricla che voleva accodarsi: quel sopralluogo voleva farlo da solo con lei.
Nel primo salotto di fronte alla cucina, dove era stato previsto un tavolo per la colazione al massimo di quattro persone, Matteo le domandò se fosse sufficiente.
«Certo. Per noi e per quando verranno qualche volta le mie sorelle. Se avremo ospiti, useremo la sala da pranzo, il tavolo può essere allungato. Altrimenti la veranda, con i carrelli. Questa stanza per noi due mi piace molto. Anche il camino».
«Ha visto come funziona?»
«Sì, grazie. Ho capito, l’accensione è elettrica». Rise, guardandolo. «E non sono architetto».
«Per arredare una casa non è necessario essere architetti. Ci vuole talento, e lei ne ha».
«Già… amore e talento».
Elena rimase a fissarlo per un attimo, poi scosse il capo, come a cancellare un pensiero. «Il bagno…»
«Perché la sua camera da letto è così imprecisa? Non vuole sistemarla?»
«No, va bene così…»
«Non dormirà con suo marito?» Gli sembrò una domanda indiscreta e mormorò un ‘mi scusi’ frettoloso a fior di labbra.
«No, dormirò sola. Abbiamo orari diversi. La sistemerò abituandomi. Per il resto va bene così, grazie».
«Come vuole. Noi… l’azienda, come regalo di nozze, ha pensato a una specchiera veneziana, per la sua camera mi sembra appropriata: spero che sia di suo gradimento».
«Grazie, è un pensiero molto gentile… è un oggetto prezioso, grazie».
«Va bene, è tutto. Domani la liberiamo di attrezzi e impalcature, in giardino. Invece per la piscina, sono d’accordo con il signor Orsi che ci rivediamo al vostro ritorno. Intanto ho il tempo di informarmi sui vari preventivi e le diverse funzioni. Lui vuole il meglio».
«Ne sono sicura, grazie. Il punto del prato che avremmo scelto la convince?»
«Mi sembra l’unico adatto, ha il sole sino alle sei di pomeriggio, in estate. Spero che non abbia fretta, baronessa, perché voglio darvi un prodotto che non crei problemi. Comunque, per qualsiasi cosa, modifica o intervento, ci consideri sempre a sua disposizione. Abbiamo lavorato bene e siamo contenti che il risultato sia buono anche per voi».
«Sì, Matteo. Siete stati bravi e puntuali. Ci sposiamo tra due settimane».
Matteo sorrise, forse era la prima volta che lo vedeva sorridere in tutto quel tempo che avevano condiviso, lavorando insieme. «Auguri, baronessa».
«Grazie, Matteo. Di tutto».
Girò le spalle: le stava facendo la corte? Perché la sua presenza la imbarazzava?
E ora che si sarebbero sposati… Carlo fu invitato a cena, al castello.
«Se vuole venire... così ci conosciamo».
«Ma se ci conosciamo da quando andavamo a catechismo… Io ero più grande, perché ero sempre in viaggio con nostro padre. Come diceva il prete, io facevo la cresima in età da marito».
«Forse tu, che non sei mai stata al tuo posto e nostro padre che te le dava tutte vinte. Noi, mai conosciuto». Guardò Elisa, la sorella minore, che fece di no con la testa. «Erano contadini, che avevano da dividere con noi? Ora s’è fatto industriale, vuole sposarti e se a te sta bene, deve star bene anche a noi. Invitalo a cena per domani sera e ci facciamo due chiacchiere. Ti rendi conto che diventeremo parenti con quello?»
«D’accordo, parenti… e niente soufflé o altre diavolerie culinarie. Facciamolo mangiare in santa pace».
«Anche quello gli devi insegnare?» domandò Elisa, che di solito, con un pennello in mano e un foglio di carta, s’estraniava da tutto per dedicarsi agli acquarelli con cui da anni imbrattava la casa.
«Beata te che sei nata imparata. Ma l’amore fa miracoli, stai tranquilla sorellina».
Carlo arrivò puntuale, con la giacca blu e la cravatta chiara. Baciò Elena sulla guancia, poi si inchinò appena davanti a Eleonora.
«Baronessa…»
«Finalmente ci incontriamo» disse Eleonora. «Siamo stati tutti molto occupati… lei conosce nostra sorella Elisa?»
Altro inchino, al quale lei rispose con un sorriso. «Ottima cacciatrice, la signorina» si ricordò.
«Soltanto fortuna». Le due sorelle maggiori si sorpresero di vederla ridere. E si ricordarono che per due anni consecutivi Elisa aveva vinto una gara di tiro al piattello.
«Bene, a tavola». Eleonora con un cenno della mano indicò a Carlo il posto accanto a Elena, di fronte alle due sorelle.
Durante la cena parlarono del tempo, del raccolto, del fiume che non era più lo stesso di una volta. Finsero di non accorgersi che Carlo si era impacciato con le posate per la trota, né che Elena ogni tanto rideva a sproposito per coprire l’imbarazzo di un gesto sbagliato.
«Che studi ha fatto… posso chiamarla Carlo?»
«Certo, baronessa… Mio padre mi voleva ragioniere, chissà su che cosa dovevo ragionare, con tutta la terra che si era comperato».
«I suoi genitori?»
«Sono morti da anni» intervenne Elisa. «Non ti ricordi? Siamo andate ai loro funerali, almeno una decina d’anni fa».
«Grazie, sì… Morti loro, ho cambiato idea. Da contadino a industriale… La fabbrica è piccola ma va bene, i nostri modelli sono riconosciuti e venduti anche all’estero. Avevamo pensato di ingrandirci, ma piccoli è meglio».
«Ha dei soci?» E prima che Carlo rispondesse, Eleonora fece di no scuotendo le mani. «Mi scusi, non vorrei sembrarle invadente, ma è solo per conoscerla meglio».
«Certo, chieda pure, baronessa. No, non ho soci. Soli è meglio…» Le sorrise. «Meglio sbagliare da soli».
«Certo, certo… E la sua casa?»
«È pronta, dovete venirla a vedere» s’intromise Elena.
«Non ci hai chiesto niente, ma tu sai che qui è anche roba tua. Tutto quello che vuoi, che ti serve… i nostri mobili sono di antiquariato e tu sai che valgono. Lo sai, vero? È anche cosa tua, l’amministratore te l’ha detto. Tutto quello che ti serve, glielo dica anche lei, Carlo».
Elena scosse la testa e allineò le due posate del pesce al centro del piatto. Carlo la imitò con un gesto che gli venne naturale.
«Abbiamo voluto una casa tutta moderna, non avete idea di come sia facile e bella. Una cucina supertecnologica, dove non vedi niente e puoi fare di tutto… e pensa, Eleonora, ho una vasca da bagno con idromassaggio che è grande come tutta la mia stanza da bagno qui…»
«E che ci devi fare?»
«Il bagno, che ci devo fare? Ora stiamo pensando anche alla piscina, in fondo al prato. Insomma, se dobbiamo vivere in campagna, almeno starci comodi».
«E qui non stavi comoda?»
«No, Elisa. Con la mia gamba su e giù per quelle scale… ci sono stata bene perché è casa nostra e ci siete voi. Ma la mia casa sarà quella, come l’ho voluta e come Carlo mi ha lasciato fare. Ora stiamo sistemando le tende, nelle camere, poi vi invito a venire a vederla…» Una risata. «Il primo tè sarà per le mie sorelline».
«Certo, certo… Non c’è niente qui che vuoi per te? Tu sai che è anche roba tua».
«No, Eleonora, grazie». Ci pensò un attimo, con il cucchiaino della crema sospeso davanti alla bocca. «Forse sì… mi piacerebbe quel quadro della Madonna con Bambino che è in camera mia… se possiamo toglierlo dall’elenco dei beni…»
«Ma certo, ne parlo con l’amministratore. Davvero ti piace? Il professor Cerchi ci ha detto che non è un Saraceni, te lo ricordi?»
«Non m’importa il valore, mi piace. Quel Bambino è un po’ figlio mio, io che di figli non ne avrò».
«E chi può saperlo?» Eleonora era arrossita e si passò il tovagliolo sulle labbra, quasi vergognandosi. «Come nostro regalo di nozze, a parte il dovuto della divisione, Elisa e io abbiamo pensato di regalarvi la cassettiera con il servizio di posate d’argento di famiglia».
Elena si mise a ridere. «Avanti, Eleonora, ma ti rendi conto? Ci sono settantadue forchette… e a chi dobbiamo dare da mangiare? Sei cassetti di posate...»
«Con lo stemma e il monogramma di famiglia, lo sai. Era nel testamento, alla prima di noi tre che si fosse sposata. Sei tu, tocca a te. Glielo dica, Carlo».
Elisa servì a loro le tisane e a Carlo un liquore scuro in un bicchiere alto e stretto di cristallo. «Lo facciamo noi» mormorò in fretta. «Altrimenti c’è del cognac».
«Va bene questo, grazie». Tanto l’avrebbe soltanto assaggiato. E le sorrise.
«Se Carlo è d’accordo, voi due fate quello che vi fa piacere. Io vado a stare bene, non mi mancherà niente, e saremo così vicine… ti rendi conto? Vado a vivere qua sotto, così vicine che ogni giorno possiamo farci visita. Qui vi lascio i cavalli, se non vi danno disturbo».
«Ci mancherebbe. Carlo, glielo dica anche lei: questa è ancora casa tua. Ti sposi, te ne vai qua sotto, ma questa rimane in parte ancora casa tua… sono sicura che te ne ricorderai». E rivolta a Carlo, aggiunse, quasi sottovoce: «Siamo sempre state molto unite, siamo impreparate a questo matrimonio».
«Lo capisco, ma sarete ancora vicine. Io sono occupato tutto il giorno, mi toccherà viaggiare… credo che tra voi le cose cambieranno di poco. La vita cambia soprattutto per me».
«Amen…» bisbigliò Eleonora.
Seduti in quel salotto dai divani di velluto verde malva, parlarono della cerimonia.
«Sono stata a Milano e ho ordinato il mio abito da Armani, lo considero un genio».
«Armani non è adatto a un abito da sposa» disse Elisa, risoluta: lei che dipingeva e di queste cose ne capiva.
«Invece mi ha scelto un abito stupendo, proprio come lo volevo io. E anche alla madrina…»
«Chi è?» domandò Elisa.
«Come, chi è? Eleonora… non ve lo siete ancora detto?»
«Non ne ero sicura» si giustificò Eleonora. E sembrò, da quell’imbarazzo, che non fosse ancora sicura del matrimonio. «Sì, ha chiesto a me di fare da madrina. E l’abito è molto bello… mi piace il colore, azzurro polvere… sembra un mare in calma. Noi che il mare lo abbiamo sempre visto poco».
«E io?» domandò Elisa.
«Devi scegliere il modello, ma tessuto e colore saranno gli stessi. Ti accompagno io, così vedi anche il mio vestito e mi dici se ti piace».
«I testimoni?»
«L’ho chiesto all’avvocato Massimo Gilardi, che ha accettato».
«Sarebbe?» chiese Elisa.
«Il… marito di Olga, la mia amica dell’università. Sono stati qui insieme l’anno scorso».
«Quello lungo lungo, che fa l’avvocato a Napoli? Ma sono sposati?»
«Avanti, siamo nel duemila, sorellina. Olga ha accettato il colore del tessuto che ho scelto, ma l’abito se lo farà fare a Siena, dove vive e ha la tenuta…»
«Che razza di pasticcio è? Lei vive a Siena e lui a Napoli?»
«Sua moglie è Paola Gretel, quella dei gioielli di Tiffany. Olga mi ha raccontato tutta la storia, che vi importa?»
«E lui in mezzo tight, glielo hai detto?» tagliò corto Eleonora.
«Sì, ma lui queste cose le sa… Figurati a quanti matrimoni sarà andato… Sono contenta che mi abbia risposto di sì, è bellissimo: ve lo ricordate?»
«Ehi, signorina» rise Eleonora. «Stai per sposarti, che discorsi sono?»
Si alzarono dal divano e dalle poltrone ridendo. L’avrebbero ricordata come una serata serena, di avvicinamento. Elena accompagnò Carlo sulla scala esterna, sino al cancello.
«Non prendere freddo».
«Non fa freddo».
«Come è andata, secondo te?»
«Dovrò difenderti con le unghie…» Stava ridendo e lo baciò sul collo. «Le hai conquistate le due sorelline… Anche Elisa, che è la più timida. ’Notte, amore».
«Quando arriva domani? Ho già voglia di te…»
«Ehi, calma… tra poco saremo sempre insieme. Buonanotte, amore».
Si girò di colpo, con un brivido. «Hai visto?»
«No, che cosa?»
«Una figura nera, in fondo al giardino… è sparita. Non c’è nessuno a quest’ora...»
«Vado a vedere. Vai dentro, arrivo sino al portico, vai…»
Tornò indietro di corsa. «No, amore, non c’era nessuno. Forse è stato un ramo che si è mosso. Ho sentito tua sorella che richiamava i cani dalla finestra della veranda…»
«Sì, i piccoli, perché i dobermann li lasciano liberi tra poco». Lo baciò nuovamente sulla bocca. «Anche noi avremo un cane, vero?»
«Quanti ne vorrai. Sarai protetta, amore mio».
Quando Elena tornò in salotto, trovò le due sorelle sedute composte ai loro posti, come se fossero rimaste immobili ad aspettarla.
«Brava persona» disse Eleonora. «Gentile… credo che ti voglia bene davvero».
«Certo non lo fa per il mio patrimonio». Si sedette di fronte a loro, immaginando che la faccenda non fosse finita.
«Perché? Tu sei ricca». Lo sapeva. In quei giorni aveva firmato un mucchio di carte che l’amministratore le aveva sottoposto, ogni volta sottolineando che quello era suo, l’altro anche, e questo pure…
«Anche lui, Elisa. Ma soprattutto a noi importa poco di quello che abbiamo, ci importa quello che sapremo darci reciprocamente. Amore».
«Ma non essere ridicola, alla vostra età».
«Aspetta, sorellina. Quando ti capiterà, saprai che l’amore è bello anche a questa età. Io non me li sento proprio i miei anni, sono felice come una ragazzina».
«Ridicola… sempre esagerata. E insegnagli a usare le posate del pesce, per fortuna che eravamo sole».
«Ce la farò, anche se non mi sembra la cosa più importante del mondo». Si alzò per andare a coricarsi. «Grazie, Eleonora. Tutto perfetto al solito».
«Chi sono i suoi testimoni? Te l’ha detto?»
«Sì, naturalmente. L’amministratore delegato della sua azienda, che ho conosciuto: tale dottor Franco Lamberti, persona distinta di ottima famiglia romana, e il commissario Sante d’Urso della polizia di Como. È amico di Carlo da quando è stato trasferito qui da Milano. E pensa la combinazione, questo D’Urso era vice a Milano quando Massimo Gilardi era commissario. Si conoscono da anni».
«Già, a proposito: questo Gilardi che è l’amante di Olga, e noi avremo ospite il Vescovo…»
«Amante… ormai si dice convivente. E poi non ce l’hanno scritto in fronte di non essere sposati… E non dimenticatevi che anche il padre di Olga era barone…»
«E lui avvocato. La presenteremo a tutti come la moglie».
«La presenteremo a tutti come Olga».
«Buonanotte… Com’è questo commissario, l’hai visto?»
«No, ma Carlo dice che è molto in gamba, di ottima famiglia. E poi ha lavorato con Massimo Gilardi, si conoscono. Fatti bella sorellina, è scapolo!»
«Sciocca, tu sola hai questi grilli per la testa».