SETTE
«Baronessa… è un brutto momento, lo capisco.
La prego di aiutarci a fare il nostro lavoro. Lei ha conosciuto il
vicecommissario Ilaria Guerci, che mi affianca nelle
indagini».
Eleonora Clerici era seduta dietro un
piccolo scrittoio di fattura settecentesca, al centro di un salotto
tappezzato di tessuto a grandi fiori scuri. Scure anche le tende
alla finestra e il prezioso tappeto cinese. Completamente nero
l’abito di Eleonora, senza un gioiello.
Si sforzò di sorridere e fece cenno ai due
in divisa che potevano sedersi di fronte a lei. Al cameriere che li
aveva accompagnati e che era rimasto sulla porta in attesa, ordinò
qualcosa da bere e tre caffè. «Va bene anche per voi?»
«Non si disturbi, baronessa, grazie».
«Un caffè?» insistette, sfiorandoli appena
con lo sguardo.
«Grazie, va bene il caffè» disse il
vicecommissario Guerci.
«Ha ripensato a quello che le avevo chiesto,
baronessa? Le è venuto in mente un fatto, un discorso che possa
aiutarci a capire che cosa è successo quella notte?»
Eleonora scosse appena la testa, poi
continuò con maggior vigore. «Erano venuti qui, Elena e Carlo…
erano venuti insieme, a salutarci…»
«Erano sereni, tranquilli?…» domandò Ilaria
Guerci.
«Erano felici…» disse a bassa voce Eleonora.
«Erano tornati dall’America, avevano ottenuto un ordine da un
grande magazzino di New York… erano felici. Come si può immaginare
che qualche ora dopo… o era notte, o era già il mattino…
quando?»
«Su questo punto siamo sicuri. L’omicidio è
avvenuto tra la una e le due di notte».
«Tra la una e le due di notte» ripeté
Eleonora. «E lui dov’era?»
Le spiegarono la faccenda delle due camere
da letto, volute da Elena.
«Perché? Non me l’aveva detto».
«Non ne parlava volentieri, immaginava che
fosse una loro cosa privata».
Eleonora fece di sì con la testa,
guardandosi le mani giunte. «Certo… se me lo dite. Quindi non è
stato lui?»
«No, baronessa. Per il momento non abbiamo
elementi per incriminarlo. Elena lo stava aiutando nel suo lavoro,
si amavano, tutti quelli che li frequentavano affermano che erano
felici, con tanti progetti… volevano adottare un bambino africano…
in questo quadro, che tutti confermano, non c’è nessun punto
plausibile per una tragedia come questa».
«Siamo sicuri?»
Si girarono insieme verso la porta perché
stava entrando Elisa in calzoni neri e maglia accollata. Li guardò
come se non conoscesse nessuno, e ripeté: «Siamo sicuri? Siamo
sicuri che lui non la odiasse?»
«Elisa, ti prego… tu hai questa idea in
testa e io non riesco a farti ragionare. Perché avrebbe dovuto
ammazzare la nostra Elena?»
«Per esempio perché ne era geloso. Lei era
brillante, intelligente, più colta di lui… Dica, commissario,
quanti omicidi avvengono per ragioni come queste?»
Si avvicinò al tavolo contemporaneamente al
cameriere che reggeva sul vassoio i caffè e i bicchieri con una
bottiglia di un liquido rosa che si supponeva fresco.
«Mi scusi» disse D’Urso, alzandosi. «Tutto è
possibile, anche la follia. Ma noi dobbiamo attenerci ai fatti
concreti e dimostrabili: tutti quelli che li conoscevano divergono
dalla sua ipotesi. Sino a prova contraria, per noi Carlo Orsi è
vittima, non carnefice». E si rimise a sedere.
Elisa salutò con un cenno del capo il
vicecommissario Guerci e si sedette accanto a D’Urso. «Intanto
Elena è morta e lui è vivo».
«Se posso permettermi, e sino a prova
contraria, vittime tutte e due».
«Se lo dice lei… e la sua fidanzata?»
domandò, volendo decisamente cambiare discorso.
«È ritornata a Londra, ma non è più la mia
fidanzata, non le piaceva il mio lavoro».
«Peccato, era carina». Guardò il cameriere
che era rimasto in piedi accanto alla porta. «Gliel’hai detto?»
domandò. E rivolta a D’Urso, con lo stesso tono, proseguì: «In quei
giorni c’è stato un fatto… diglielo, avanti».
«Quale fatto?» Eleonora sembrò
allarmata.
Intanto D’Urso si era alzato e con il viso
corrucciato stava andando senza fretta verso il cameriere: voleva
collaborazione, non teatrini. «Che cosa c’è?» domandò con un tono
duro.
«Non so se è importante».
«Lo lasci giudicare a noi». Mentre parlava,
cercando una posizione che gli consentisse di guardare diritto in
faccia il cameriere, che ora aveva assunto un’aria scontenta e
reticente.
«Allora?» lo incalzò D’Urso. «Vuole venire
alla Centrale?»
«No, no… Io l’ho detto subito alla baronessa
Elisa… ma non sembrava importante. Dunque…» Tirò un sospiro, come
se gli costasse fatica. «Suona il campanello al citofono di
servizio della portineria. Io vado a vedere e mi trovo davanti un
tipo alto, sui trentacinque anni, con un cappotto lungo e nero, il
bavero tirato su, e non faceva freddo… io dico come mi viene,
scusi…»
«Vai avanti, va bene».
«Un’aria come se fosse arrabbiato. Io non
l’avevo mai visto, non era di qua. In mano ha una cartelletta nera
e mi chiede di un tale Erik Toiler… un nome circa così. Gli
rispondo che questo nome non l’ho mai sentito». Guardò verso Elisa
cercando aiuto. «E allora lui insiste, con quel nome… circa così,
non sono sicuro. Ma era un nome come quello… Toiler… forse. Lui
insiste, si attacca al cancello e lo scuote. Si mette a gridare, e
allora io gli mostro il pugno e attraverso il cancello lui mi
colpisce a una spalla. In quel punto c’è di mezzo il cancello
chiuso, non può entrare. Poiché lui insiste e alza la voce, a me
viene un’idea: prendo il cellulare e gli faccio una foto…»
«Bravo! E dov’è questa foto?»
«Non so farle, ho fatto finta, ma lui c’è
cascato. Mi ha girato le spalle e se ne è andato quasi di
corsa».
«Quindi non abbiamo niente?»
«No, ma mentre lui se ne andava, io sono
rimasto a vedere dove andava. Si è fermato nello spiazzo davanti
alla casa del… Sì, insomma: di Carlo Orsi. L’ho visto entrare…
appena lì, dalla parte della fabbrica. Poi me ne sono andato
anch’io, sono tornato dentro».
«Sa se i signori Orsi erano a casa?»
«No, sono tornati dopo. Anche per quello non
ci ho fatto caso».
D’Urso rimase pensieroso a fissarsi le punte
delle scarpe, con la mano si stava tormentando le labbra, come
quando era ragazzino ed era impegnato con i compiti in classe.
«Bene, grazie…»
«C’è un nesso?» domandò Elisa.
«Credo di no, ma cercheremo di capire chi
era e che cosa voleva davvero: a volte questi sono i trucchi dei
ladri per vedere come sono le serrature, i cancelli, le porte.
Quante persone ci sono, uomini o donne anziane… Spesso i furti
nelle case sono preceduti da visite incomprensibili. Le persone
devono abituarsi a difendersi: intanto a non aprire mai la porta,
se non si è sicuri. Poi l’espediente della foto è buono, magari
riuscendo a fare la foto è meglio». E sorrise all’uomo.
Mentre stavano congedandosi il cellulare di
Eleonora suonò. La sentirono rispondere a monosillabi e quando
sollevò lo sguardo verso D’Urso era arrossita. Disse di sì un paio
di volte e salutò.
«Era il nostro amministratore: Carlo Orsi ha
confermato di rinunciare a tutta l’eredità di Elena, che torna a
noi. Forse può dirgli che…»
«No, mi scusi, baronessa, non tocca a me.
Conosco Carlo e so che non tornerà sulla sua decisione. Forse suo
padre era un contadino, ma Carlo è un uomo buono e onest…»
«Ma è che ognuno deve stare a casa propria»
lo interruppe Elisa. «Un bel gesto, bravo. Ma io ci vedo anche la
voglia di allontanare da sé ogni possibile sospetto. O no?»
D’Urso tenne aperta la porta per far passare
Ilaria Guerci. «Mi dispiace, no».
Un inchino, un saluto breve. Quando furono
sul cancello diede un’occhiata intorno, verso la strada. «Ha
ragione, da qui si vede se qualcuno si ferma davanti all’azienda di
Carlo Orsi. Lo spiazzo… è quello. Torniamoci un momento, magari se
n’è dimenticato».