TREDICI
Imboccata l’autostrada per Como, Gilardi
calcolò sul navigatore che entro un’ora sarebbe arrivato da Carlo.
Lo chiamò al telefono e gli comunicò il suo arrivo.
«Ti aspetto. Nel pomeriggio, con una scusa,
ho chiuso la fabbrica».
«Bene, grazie. Preparami il caffè» aggiunse
sorridendo. Sperava di trovarlo calmo, disposto a collaborare e a
rispondere a domande anche imbarazzanti. Aveva bisogno della sua
totale collaborazione. Aveva bisogno di credergli.
Arrivando, l’aveva trovato davanti al
cancello spalancato.
«Ciao…»
«Ciao… Vai nel secondo cortile, lì nessuno
vede la macchina».
Lentamente superò il secondo cancello: si
ricordava il cortile con le colonne, davanti a quella distesa verde
che scendeva verso un bosco, scuro e fitto. L’assassino era salito
da lì? Una finestra dimenticata aperta, o lasciata aperta? Da
chi?
Domande inutili. Intanto Carlo l’aveva
raggiunto e lo stava abbracciando.
«Siamo soli, c’è soltanto Beppa, ma lei non
parla con nessuno».
«Stiamo qui?» domandò, sedendosi su una
poltroncina di vimini che era sotto il portico. «Mi hai preparato
il caffè?»
«Sì, certo, ora arriva…» Si sedette accanto
a lui e gli appoggiò la mano sul ginocchio. «Grazie, sai… Non
immagini che cosa significhi per me averti qui».
Dalla portafinestra del corridoio era
intanto arrivata Beppa con il vassoio e la caffettiera. Biascicò un
«Buongiorno» senza alzare gli occhi. Carlo avvicinò un tavolino e
Beppa appoggiò vassoio e caffettiera. «Se avete bisogno, io sono di
là».
«Grazie, sì».
Bevvero il caffè in silenzio, in un clima di
attesa che rendeva i loro gesti e i loro sguardi sospesi. Come
quando il cielo si annuvola e sai che tra poco arriverà la
pioggia.
«Le baronesse mi aspettano a cena».
«Mi dispiace, comunque capisco…»
«Vado a dire che non posso occuparmi di
questo caso. Dubito che lo capiranno, ma ho già avvertito il
PM».
«E io?»
«Non sei indagato, al momento non c’è niente
a tuo carico». Non lo sapeva con certezza, a quel punto
dell’indagine tutti erano sospettabili sino a prova contraria, ma
voleva rassicurarlo. Aveva bisogno che Carlo si sentisse fuori
pericolo. Che si percepisse innocente anche agli occhi degli
altri.
Si stupì di sentirlo parlare. Si stupì che
iniziasse a parlare senza aspettare una domanda, come se volesse
confessarsi. «Tu non puoi neppure immaginare che cosa si prova a
perdere in quel modo la donna che ami, non te ne fai una
ragione…»
«Invece purtroppo lo so» gli rispose con
voce grave, guardando al di là delle colonne, verso la valle.
«Anche mia moglie… Io ero a pochi metri da lei e non ho potuto fare
niente, mille volte mi sono domandato perché non sono morto
anch’io».
«Come… Elena mi ha detto che tua moglie è
un’artista… lavora per Tiffany… il nostro regalo di nozze».
«Sto parlando della mia prima moglie, Natj.
Una storia di qualche anno fa, quando ero ancora commissario a
Milano. Lei era nella mia squadra, suo padre italiano, di Trento,
sua madre abissina. Aveva la pelle colore dell’ambra, era
bellissima, era straordinaria. Non si ama mai allo stesso modo due
volte. Io non ho mai amato nessuna donna della mia vita, neppure
Olga, come ho amato lei. Natj mi ha aiutato a capire che dovevo
tornare a Napoli, a casa. Riprendere a essere un avvocato. Ed è
quello che ho fatto, anche senza di lei. Le ha sparato un ragazzo
che lei voleva aiutare. Anche il ragazzo è morto, e non l’ho ucciso
io. Con quel corpo tra le braccia al quale non potevo dare aiuto,
io ho sperato di morire, di non avere un giorno dopo. Natj era
incinta. Ho perduto anche il bambino… Poi la vita prosegue e non ti
chiede eroismi. Paola, l’artista, è arrivata in un momento molto
difficile: mi stavo innamorando di una donna pericolosa. Che è
stata ammazzata in modo atroce perché si era innamorata di me.
Paola era incinta, ci siamo sposati. Se Alice è stata un incidente
di percorso…» un vago sorriso gli schiarì il viso, «che ci ha
trovato felici e consenzienti, il secondo figlio l’abbiamo voluto.
A questo punto, in una storia tiepida e ormai finita, è arrivata
Olga, la calma, la disciplina, la tenerezza. La vita che riprende.
Ho lei e i miei due ragazzi. Paola è un’amica geniale che non fa
domande. Spero che sia felice». Si guardò attorno sorpreso di aver
potuto dire tanto di sé. Si morsicò il labbro inferiore, in quel
gesto che in lui esprimeva disagio e pudore, e gli sorrise.
«Scusa… non dicevo queste cose da tanto
tempo, e fanno ancora male».
«Non immaginavo… grazie. Cercherò anch’io di
farmi coraggio».
«Ne avrai bisogno. Dovrai essere chiaro e
lucido, rispondere a tutte le domande. Più tu sarai puntuale e
preciso, e più in fretta gli inquirenti arriveranno
all’assassino».
«Ma io non so niente. Non so a quali domande
potrei ancora rispondere… Abbiamo fatto l’amore, poi sono andato a
letto. L’ho lasciata felice e sorridente. Mi ha detto che voleva
lavorare un paio di ferri che le mancavano, per finire quel lavoro…
Eleonora ha cercato di spiegarmi che cosa stava facendo, una specie
di girocollo per ragazzi da indossare invece delle sciarpe… Io quel
lavoro me lo ricordo, era sul tavolino accanto al letto. Con il suo
libro e la lampada. Avevamo riso, era felice…»
«Che ore erano?»
«Sicuramente dopo la una».
Si alzò. «Ti dispiace se do un’occhiata alla
stanza?»
«È sigillata».
«Farò in modo che non se ne accorgano.
Comunque lo dirò a D’Urso».
Con l’esperienza che non gli mancava, staccò
i sigilli e i nastri. Con un fazzoletto in mano aprì la porta e
diede un’occhiata alla stanza. «La luce?» domandò a Carlo, che era
rimasto fuori.
«Lì a destra…»
«Capisco quello che provi, ma vorrei che
entrassi anche tu… soltanto per dirmi se è tutto come quella
notte».
Carlo mise dentro soltanto la testa. Aprì
gli occhi e li richiuse. «Sì… mi pare di sì. L’ho detto anche a
quelli che sono venuti a rilevare le impronte… Mi pare di
sì».
«Vorrei che ne fossi sicuro».
«Sì… il tavolino… le pantofole… No, un
momento: le sue pantofole non erano lì, accanto al letto».
«Di solito quello è il posto delle
pantofole, quando ci si corica. O no?»
«Sì… ma quella sera io l’avevo presa in
braccio e l’avevo messa a letto. In salotto era a piedi scalzi, me
lo ricordo… come ho fatto a non vederlo?»
«Perché eri agitato. Ricapitoliamo. In
salotto era a piedi scalzi e le pantofole o le scarpe
dov’erano?»
«In salotto, sul tappeto. Perché sono lì,
adesso?»
«Facciamo un’ipotesi. Quando tu sei andato a
letto, Elena è andata in salotto, ha preso le pantofole, ed è
tornata a letto. Potrebbe essere possibile?»
«Potrebbe, certo. Un po’ stravagante, ma non
impossibile. Oppure…»
«Oppure?»
«Ha voluto andare a prendere qualcosa,
magari in frigorifero… scalza è passata dal salotto, si è infilata
le pantofole e tornando a letto le ha lasciate dove sono ora. Non
si era ancora tolta la protesi. Potrebbe essere…»
«Potrebbe, certo. E se qualcuno avesse
suonato alla porta?»
Carlo lo guardò sbarrando gli occhi.
«All’una di notte?»
«Magari uno scherzo, la madre dei fessi è
sempre gravida, sai come si dice».
«Non sarebbe andata ad aprire, mi avrebbe
chiamato».
«E come?»
«Aveva un telefono per le emergenze, è in
mano alla polizia: era sul cuscino, lo teneva sempre acceso. Non
c’era nessuna chiamata, questo mi hanno detto. Era un’ipotesi che
avevano fatto anche loro… che fosse andata ad aprire a
qualcuno».
«Certo, poteva essere probabile». Diede una
rapida occhiata alla stanza, alle finestre ancora sigillate, alla
scultura di vetro di Paola che le avevano regalato per il
matrimonio, a quelle pantofole.
«Sei sicuro che non le avesse ai piedi
quando l’hai portata a letto?»
«Sì, sono sicuro. Mentre l’avevo in braccio
le vedevo il piede della protesi, me ne ricordo».
Alzò gli occhi alla parete. «E questo
specchio?»
«Gliel’ha regalato quello che ci ha fatto la
casa. Un regalo di nozze».
«Accidenti, non ne capisco ma mi sembra
prezioso».
«È quello che ha detto anche Eleonora.
Esagerato per uno che ci ha venduto i mobili e ristrutturato la
casa. Ora avrebbe dovuto iniziare la piscina».
«Chi è?»
Una smorfia. «Si chiama Matteo Rosi…
l’indirizzo l’ho nelle fatture che abbiamo pagato. Con Elena
andavano d’accordo».
«Bene, spegni… Farò due chiacchiere anche
con lui».
«Ma no… Elena sapeva farsi voler bene da
tutti. Niente di più…»
Uscirono dalla stanza e Gilardi richiuse la
porta, rimettendo a posto i nastri e i sigilli. «Lo dirò a D’Urso,
so che capirà».
Nel corridoio che conduceva alla cucina
prese Carlo sottobraccio. «Vorrei parlare con Beppa, dici che mi
risponderà se le faccio qualche domanda?»
Carlo sorrise. «Come dite voi? È
mulacchiuna…»
«No, questo lo direbbe Montalbano» e fece
una risata. «Da noi si dice spruòccola, o sprucida, un rametto ruvido, difficile da
prendere… E vediamo ’sta spruòccola».