Quel 21 luglio…
Arrivarono in chiesa alla spicciolata, ben prima dell’ora stabilita per non perdere il posto a sedere e lo spettacolo di quel matrimonio che aveva sollevato molte chiacchiere. La baronessina che sposava un contadino che ora faceva vestiti. Non si era mai vista una cosa simile e difficilmente l’avrebbero vista in futuro, era quindi un’occasione da non perdere.
Tutti con l’abito della festa, gli uomini con la camicia pulita, pochi con il colletto e la cravatta, tutti con la giacca leggera perché faceva decisamente caldo anche se la chiesa era fresca. Le donne, tutte ripulite nei loro abitini di seta, il velo o il pizzo in testa, mentre le giovani avevano gonne che scoprivano il ginocchio e i capelli con le mèches da mostrare. Seduti dietro, perché le file davanti, segnate con i nastri e i fiori da una wedding planner erano per gli invitati e i testimoni degli sposi. Anche l’altare era infiocchettato con grandi vasi di tulipani rosa e rossi, dei quali si diceva che venissero direttamente dall’Olanda. L’inginocchiatoio per gli sposi era ricoperto da un pizzo antico che era servito al barone quando aveva sposato Elisabetta, e a suo padre, prima di lui, e forse anche al nonno. A lato una poltrona con intrecci di legno dorato sul rosso cupo del velluto, per la madrina.
Del gruppo degli invitati, i primi ad arrivare furono i notabili del paese accolti da don Gerolamo davanti al portale che, per l’occasione, aveva fiori e rami intorno all’arco di pietra e due piante fiorite ai lati. Passando o entrando, la gente commentava quello sfarzo: neppure quando era morto il barone la chiesa era stata così addobbata, eppure c’erano sette corone.
Arrivarono per primi il sindaco e signora, seguiti dal farmacista con la famiglia, il direttore dell’unica banca e la responsabile della Posta, il direttore del Gazzettino con un fotografo. I loro posti erano nell’ultimo banco delle file riservate.
Molte chiacchiere, su quell’unico argomento. Tutti conoscevano Carlo, che era uno di loro. Alcuni conoscevano, ma soltanto di vista, la baronessina: e confondevano il nome, che pure era scritto sul giornale, con gli auguri di tutto il paese.
«Questa è l’Elena o l’Eleonora?»
«Semmai l’Elisa, che è la più giovane… Elena, avanti… era scritto anche sul giornale. Elena, quella delle Olimpiadi, che è quella mezzo storpia con la gamba rotta».
«Se la sarebbe presa anche con la gobba, quello, con tutti i soldi che gli porta…»
«Ma lei… una baronessa. Non si vergogna? Le prudeva, forse?»
«Si fa fatica a restare zitella, anche con i quattrini».
«Ma don Gerolamo, non poteva mettersi di mezzo, e dargli un buon consiglio? Ma che matrimonio è? Non si vergognano a mostrarsi in questo modo? Non potevano andare in Comune senza fare tanto chiasso?»
«E fanno anche le cose in grande stile, le tre baronesse… ha visto che tenda hanno tirato sul prato dietro il castello? Per la colazione… per il Vescovo e non si sa quanti altri, hanno invitato tutti… quelli che servono, naturalmente. A noi non toccano neppure i confetti… e che se li tengano, sono confetti del diavolo».
«Brutta storia per la nostra chiesa, don Gerolamo… lei non doveva permetterlo. Doveva opporsi, se non fosse che avranno pagato…»
«Con i soldi quelli si comprano anche il Paradiso… E il principe si rivolta nella tomba, e quella santa di Donna Elisabetta…»
Il parroco stringeva la mano a tutti e sorrideva. «È già arrivato il Vescovo, andate in pace. Abbiamo il Vescovo, è un onore. Questo deve contare, andate… andate e cercate di sedervi, sarà Messa grande… andate e pregate».
Sottofondo alle chiacchiere, il suono dell’organo. Non lo sentivano suonare da anni, da quando era morto il Marcello, l’organista. E ora ne avevano chiamato uno dalla città, che non aveva niente da dividere con loro. Ma sembrava bravo.
«L’avranno fatto venire da Milano… con i soldi, si sa».
Nessuno di quelli che stavano entrando in chiesa capiva che cosa quell’uomo con la gran testa di capelli bianchi e l’abito nero stesse suonando, ma era bella musica. Sottovoce. Una musica che riconciliava.
A un certo punto quelli che erano rimasti indecisi sul sagrato videro arrivare la carrozza del castello. La conoscevano, con i due cavalli bai, lo stemma sui fianchi, e il conducente in abito nero con la mantella leggera e gli alamari d’oro.
Scese prima Elisa, nel suo bell’abito attillato, con la gonna a raggiera e il busto sottile, di quel colore che era il colore dei suoi occhi. In testa un piccolo tocco di raso dello stesso colore con un grande fiore tra l’azzurro e il viola che scendeva ad accarezzarle il viso. Qualcuno applaudì e gli altri le sorrisero. L’atmosfera si irrigidì quando scese Eleonora, la baronessa. Lo stesso colore dell’abito, ma con una leggera mantella plissettata e un grande cappello in testa, che le nascondeva i capelli ormai grigi e le profonde rughe della fronte.
Tutti chinarono il capo. E lei sorrise, accettando con compiacenza la loro devozione. Con un gesto li invitò a entrare.
«Ora arrivano gli sposi» disse sottovoce. Sapendo che tutti l’avrebbero ascoltata.
L’avvocato Massimo Gilardi, che con gli altri testimoni era già arrivato e aveva atteso in sacrestia il momento di essere utile, le offrì il braccio, per accompagnarla sulla passatoia rossa dal portone alla sua poltrona di madrina. Lo stesso compito, con Elisa, toccò a D’Urso. Queste due sole coppie, su quella passatoia, mentre la musica prendeva forza: e tutti quelli che erano già seduti in chiesa si alzarono, per rispetto.
Sorridevano, le due sorelle, chinando appena il capo a destra e a sinistra, per salutare e ringraziare. Da vere baronesse, pensarono in molti. Loro sì. Zitelle, piuttosto di un matrimonio come quello al quale avrebbero assistito tra poco, malmostosi e scontenti.
Olga, con una lunga tunica di cady su pantaloni di seta nel colore che aveva scelto Elena per il proprio seguito, era seduta in prima fila accanto a Bruna Serra, la fidanzata di D’Urso, una graziosa ragazza con un gaio vestito a fiorellini, corto, vaporoso, senza maniche. A coprirle le spalle, uno scialle di seta blu che aveva fissato sulla spalla con una rosa. Era carina, vivace, spiritosa, pensò Olga: l’opposto del suo serioso fidanzato commissario.
A poco a poco la chiesa si era riempita. Ora sarebbero arrivati gli sposi.
«Chi accompagna Elena all’altare?» domandò il dottore, che la conosceva da quando era ragazzina.
Nessuno gli rispose e Eleonora, dalla sua poltrona di madrina, abbassò il capo, muovendo appena le labbra.
Come se pregasse.
Sorrise a se stessa guardandosi nello specchio. Non era bella, non della bellezza ostentata in televisione anche da donne mature, meno giovani di lei. Non era giovane, appunto. Aveva una protesi. Eppure quel giorno, davanti a quello specchio con il suo abito da sposa, si sentì irresistibile.
Era felice e spaventata.
Era felice.
La sarta che era venuta ad aiutarla stava allacciandole l’abito sulla schiena e le sorrideva: l’effetto di quell’abito su di lei era straordinario.
«Si piace, baronessa?»
«Molto, sì. È l’abito che io avrei disegnato per me stessa, se ne fossi capace».
«Un po’ insolito, ma è molto bello anche il colore. Diverso da tutti».
«Un bianco perla tra il grigio, il rosa e l’azzurro. Mia sorella mi ha regalato la collana di perle di nostra madre, che è dello stesso colore. Sarà l’unico gioiello, davvero prezioso».
Una delle due lavoranti, venute con la sarta, si chinò per allacciarle i sandali a tacco basso, dello stesso colore dell’abito, le sistemò il fermaglio della collana di perle su un lato della scollatura, le spalmò un po’ di crema sulle mani, perché fossero perfette, e appena due gocce del suo profumo La Panthère di Cartier, che usava da anni.
«Sembra una regina…»
«Sì, grazie. Tutto perfetto, lo dica ad Armani». S’incamminò con loro verso il salotto dove Carlo era rimasto ad aspettarla.
Dalla finestra spalancata stava guardando quelle colline, dall’inutile bellezza sotto il sole. Pochi alberi. Intere zone già bruciate dal sole. Sullo spiazzo dietro la villa, che tra poco sarebbe stato in ombra, avevano sistemato le tende per il pranzo in un andare e venire di uomini e donne, di carrelli, di fiori, di fiocchi.
Per il suo matrimonio.
Tra poco lui sarebbe stato il marito di quella donna straordinaria, che si era innamorata di lui. E che lui avrebbe amato, anche con coraggio, sino all’ultimo giorno della loro vita insieme.
Sentì aprirsi la porta alle sue spalle e si girò, restando immobile e stordito di fronte a quella donna, vestita da sposa.
«Amore, sono senza fiato… sei bellissima!» Rideva impacciato. «Ma sei sicura di voler sposare uno come me?»
«Anch’io sono senza fiato e sono felice». Un gesto scherzoso con la mano. «E ora che abbiamo stabilito di essere innamorati come due scemi, possiamo andare a sposarci?»
«E il velo?»
«No, niente velo. La signora ci segue, mi sistemo prima di entrare in chiesa. La carrozza è già pronta». Lo baciò su una guancia. «Grazie, amore. Sono felice».
«Io sono completamente pazzo… sono pazzo di te». Si accostò per baciarla ma Elena si ritrasse ridendo. «Mi sciupi il trucco… un po’ di contegno, amore. Avremo tempo…»
Entrarono in chiesa a braccetto, a passi lenti e la testa alta verso l’altare. Elena aveva voluto e ottenuto di andare all’altare al braccio dell’uomo che avrebbe sposato, da soli: lei con quel cappello a larga tesa, rigido e morbido insieme perché a ogni passo l’ala vibrava come per un refolo di vento. Lui elegante e perfetto nel mezzo tight, con i gelsomini rosa alla boutonnière, uguale a quelle dei loro testimoni che rigidi e sorridenti li stavano aspettando davanti all’altare. Per quel breve tragitto, a scandire i loro passi lenti e solenni, non li aveva accompagnati il suono dell’organo ma un violino con il brano scelto da Elena: le variazioni di L’ultima rosa d’estate, di Henri Vieuxtemps. Aveva chiesto soltanto quel brano, tenero, malinconico, virtuoso, che non aveva niente della marcia nuziale, niente di eroico. Soltanto quel brano per accompagnarla all’altare, accanto all’uomo che amava. Poi si era affidata all’esecutore, organista di fama, venuto da Vienna per lei. Il violinista si sarebbe esibito durante la colazione, con altri brani scelti da Elena.
Ecco, ora tutti gli attori erano in scena, il Vescovo alzò le braccia benedicente, lo spettacolo poteva cominciare.
E fu uno spettacolo che nessuno di quelli che erano presenti avrebbe mai dimenticato.
Il Vescovo fu pomposo e magnificante. Don Gerolamo, umile ma sorridente, perché «Questi due io li conosco da quando erano ragazzini… mai avrei potuto immaginare che un giorno li avrei trovati davanti a questo altare della Santissima Gemma e li avrei uniti nel sacro vincolo del matrimonio. Le vie del Signore sono infinite, sia lode al Signore…»
Nella chiesa risuonò un Amen detto indistintamente a voce alta e convinta da tutti i presenti.
In fondo non c’era niente di strano, si amavano e si sposavano. Erano nati diversi e lei era zoppa, ma l’amore faceva miracoli. E se lei amava uno di loro, in fondo la classe degli operai e dei contadini ne usciva bene, come se avesse vinto.
Anche la colazione sotto la tenda nel prato dietro il castello era stata un successo. L’organizzazione, gli addobbi e il catering perfetti. La torta non a tre piani, all’americana, e senza sposi di cartapesta in cima: Elena si era opposta.
«Metteteci un fiore, la peonia è il mio preferito». E così era stato, tre torte tutte uguali con tre peonie di diverso colore: una novità che avevano accettato e compatito, si sapeva che lei era strana.
Anche i posti a tavola li aveva scelti lei, secondo un proprio criterio che non ammetteva repliche. L’organizzatrice, non riuscendo a far rispettare i valori della consuetudine e della mondanità, si era arresa.
Non aveva voluto tavolate, ma piccoli tavoli accostati. Al centro gli sposi con Massimo Gilardi e Olga. Il Vescovo accanto a Eleonora, della quale benediceva senza reticenze la generosità e le preghiere. Elisa con il sindaco e famiglia: sapeva che sarebbe mancato D’Urso con la fidanzata. Tutti gli ospiti seguirono questo criterio molto personale e indisciplinato: perché fosse una colazione affettuosa e divertente. Alzando il bicchiere, all’inizio del pranzo, fu questo che Elena disse per giustificare le stranezze, e tutti applaudirono. Poi la musica fece il resto. Il brindisi toccò a Massimo Gilardi. Poche parole e il calice alzato verso gli sposi. «A voi due» concluse tra gli applausi. Ed era emozionato come di qualcosa che riguardasse il suo amore per Olga. Come se quelle frasi le avesse dette a lei.
Gli toccò anche il ballo con Elena, stupito di sentirla leggera tra le sue braccia.
«Non sono un gran ballerino» le disse ridendo.
«Io, sì». Il labbro inferiore stretto tra i denti: non era il momento di piangere.
Due ragazzi del laboratorio, che erano scesi a dare una mano per i bagagli, depositarono borse e valige sotto il portico.
«E queste?» chiese uno dei due alludendo alle borse con il marchio dell’azienda, che erano rimaste nel bagagliaio.
Carlo Orsi fece di sì con la testa. «In laboratorio, io ho l’elenco dei capi che mancano, li vediamo domani. Grazie».
«E di che? Fatto buon viaggio?»
«Sì, grazie… domani».
Sulla porta trovarono Beppa. Con il grembiule stirato e la testa bassa verso i bagagli. «Siete tornati?»
«Direi di sì… Tutto a posto?»
«E che cosa volevi trovare?» Continuava a dargli del tu come aveva sempre fatto e non c’era matrimonio che potesse farle cambiare idea.
«Funziona tutto?»
«Certo che funziona tutto, che ti credevi?» E fissando le valige aggiunse: «In camera o in guardaroba?»
«Ci pensiamo domani, Beppa. Ora siamo stanchi. Una tisana?»
«Va bene la tisana, arrivo subito». Stava uscendo e rimise dentro la testa. «Per lei è arrivato uno specchio, l’hanno piazzato nella sua camera».
«Uno specchio?» domandò Carlo.
Elena fece di sì con il capo. «Credo di sapere da dove arriva, andiamo a vedere». Prese sottobraccio Carlo, stava ridendo.
In camera, nella parete oltre la finestra perché ne ricevesse la luce un po’ diffusa di traverso, era stata sistemata una specchiera veneziana a tutta altezza, con la cornice scolpita tra lucido e opaco in un gioco antico di immagini: un corpo di donna nudo, foglie e fiori, qualche farfalla.
«Ma è bello?» domandò Carlo che non lo capiva.
«Bellissimo, direi».
«E da dove arriva?»
«Credo di saperlo. È il regalo di nozze dell’azienda che ci ha fornito mobili e consulenza…» Allungò la mano e prese il biglietto che era infilato tra lo specchio e la cornice. Lo lesse sorridendo. «Ecco, sì. Con i migliori auguri, Matteo Rosi – La Contemporanea di Lugano».
«Che cosa c’entra con i nostri mobili?»
«Soltanto un pensiero gentile». Baciò il marito su una guancia. «Con tutti i soldi che gli abbiamo dato… comunque gentile, lo ringrazierò».
Nel pomeriggio del giorno seguente, infatti, stava chiamandolo sul numero privato che aveva trovato stampato sul biglietto da visita.
«Matteo?»
Al mattino, all’ora di colazione, a Eleonora che era venuta a salutarla aveva mostrato quella specchiera.
«Bellissima» era arrossita. «Non ti ricordi? Ne aveva una simile in camera la nostra mamma, ed è sparita».
«Non me ne ricordo, sai che io ho sempre badato poco a queste cose…»
E ora stava chiamando Matteo Rosi per ringraziarlo di un regalo che non sapeva apprezzare.
«Matteo? Sono Elena Orsi, grazie per la specchiera, magnifica. Mia sorella dice che ne aveva in camera una simile la nostra mamma… quindi doppiamente cara, grazie».
«Va bene dove l’ho posizionata?»
«Sì, grazie. Perfetto».
«Per la piscina quando possiamo incontrarci?»
«Ho visto che avete fatto il tracciato, ma ora direi di aspettare. Tra una settimana è settembre».
«Un mese magnifico per la piscina…» Stava ridendo.
«No, non abbiamo tempo. A marzo, direi».
«Come vuole. Posso passare a farle vedere il progetto?»
«Sì, certo. Giovedì prossimo alle cinque va bene per lei?»
«D’accordo, signora. Giovedì prossimo alle cinque, grazie».
Un giovedì pieno di sole. Seduti ai piedi del castagno che allargava rami e ombra su una buona parte del prato, due bottigliette di aranciata accanto da bere a canna. A terra, steso, il foglio con i disegni e le proporzioni della piscina. E a parte lo schizzo della piscina ultimata.
«La misura totale è questa che abbiamo segnato sul prato».
«Bene, direi, almeno da farci qualche bracciata».
«Sì, ho immaginato che non voleste una piscina soltanto per starci in piedi a rinfrescarvi».
Elena accolse la battuta con una risata. «Però la rimandiamo, ora non avrei neppure tempo di occuparmene».
«Va bene, quando vorrà. Tenga presente che è un lavoro che occuperà oltre un mese. Quindi deve decidere per quando la vuole pronta e funzionante».
«D’accordo, ci sentiamo!»
Matteo Rosi allungò il braccio verso di lei e l’aiutò ad alzarsi. «Va ancora a cavallo?»
«Tutte le mattine, i miei cavalli hanno bisogno di muoversi, e il ragazzo che se ne occupa fa quello che può. Lei cavalca?»
«Ora raramente».
«Se qualche volta viene da queste parti…»
«No, grazie. Sono sull’altra riva del Lago di Lugano…»
«Capisco». Lo guardò impacciata come se si sentisse giudicata. «Allora… d’accordo. Se mi vuole chiamare lei quando le sembrerà il momento giusto per iniziare i lavori, ne riparliamo». Si guardò attorno come se dovesse riconoscere quei luoghi. «Dove ha lasciato la macchina?»
«Qua sotto, sulla strada bassa».
«È una bella arrampicata… dovremo metterci un recinto, altrimenti ci troveremo gente estranea in casa».
Matteo Rosi le sorrise. «Ci vogliono gambe buone e soprattutto bisogna conoscere la strada. Stia tranquilla…» Le strinse la mano, sorridendo ma senza guardarla. Girò le spalle e alzando un braccio per salutarla cominciò a scendere a balzi, da un sasso a un grumo d’erba e di terra, finché scomparve inghiottito dal vuoto che la collina nascondeva.
Elena lo seguì con lo sguardo, finché riuscì a vederlo saltellare da un punto all’altro. Poi si girò verso la casa e iniziò a risalire faticosamente.
‘Ecco che cosa gli dirò di fare’ pensò, ‘una serie di gradini per salire e scendere da casa’. Approvò quel proposito con un cenno della testa ed entrò in casa.