Olga e Massimo Gilardi
Allineò la macchina accanto alle altre che
erano parcheggiate oltre la cancellata che gli avevano indicato.
Mentre apriva la portiera per far scendere Olga, gli venne incontro
un ragazzo con un carrello.
«Buongiorno, signore… L’avvocato
Gilardi?»
«Sì, sono io. Va bene la macchina qui?
«Sì, sissignore… Di sera chiudiamo la
cancellata».
«Le valige…» Aprì il portabagagli e lasciò
che il ragazzo prendesse la loro valigia e la borsa di Olga. «Sì,
ricordo, la casa è quella».
«È questa, sì» gli rispose un’allegra voce
femminile alle loro spalle. «Massimo, benarrivati!»
Gilardi si girò sorridendo. «Io sono Elena».
Aprì le braccia e si lasciò abbracciare. «Olga, come sono felice
che siate qui, avete fatto buon viaggio? Venite da Napoli?» Baciò e
abbracciò Olga. «Sei qui…» Sembrò commossa.
Per vecchia abitudine Olga si girò a
guardare il panorama che avevano di fronte. «Salendo dalla pianura
non ci si immagina una simile distesa di campi, di colline…
sorpresa come la prima volta. È sempre un posto stupendo, peccato
che sia poco sfruttato. Che cosa ci coltivate?»
Elena scosse la testa. «Poco o niente, lo
stretto necessario. Questi sono gli orti, qualche albero da frutta.
Là di fronte poche vigne, ma soltanto per nostro uso e consumo. I
contadini sono in basso… queste colline sono nostre, dei miei
cavalli».
«Certo, Olga me l’ha detto: cavalca
ancora?»
«Ho smesso le gare, per forza. Comunque
cavalco ancora, è rimasta la mia passione». Guardò Massimo Gilardi
con un certo imbarazzo. «Lei va a cavallo?» Guardò prima l’uno poi
l’altra, sperando di sentirsi rispondere di sì.
«Io lo sai, vado per campi a cavallo.
Abbiamo una tenuta molto estesa e non voglio motori» le rispose
Olga.
«Anch’io so stare in groppa».
Elena li guardò dubbiosa. «Ora sarete
stanchi, ma domani…»
«No, non perdiamoci quest’ora sublime»
declamò Olga ridendo. Conquistata da quegli spazi che avevano di
fronte.
«Davvero? Dite davvero? Allora saliamo, le
scuderie sono là sopra… Ci sono stivali che forse vanno bene… Non
facciamo niente di spericolato, vi porto a vedere il fiume, è qua
sotto».
Quando entrarono in casa era già quasi buio.
In anticamera furono accolti da Eleonora, rigorosamente vestita di
nero, e da Elisa, eccezionalmente in pantaloni bianchi e maglietta
azzurra.
«Vi ricordate di Olga e dell’avvocato
Massimo Gilardi» li presentò Elena.
«È un piacere che siate nostri ospiti in
questa circostanza… ma dove siete stati?»
«A cavallo, con quella…» disse Elisa,
stringendo la mano di Olga con un mezzo sorriso. «È fissata con i
cavalli… non le è bastato quello che le è capitato…»
Persero un po’ di tempo a spiegare che era
stata una gita fantastica, che il posto era bellissimo e il
tramonto una gioia per gli occhi. Domandarono il permesso di andare
a cambiarsi e che poi avrebbero gradito un tè, per conoscersi
meglio.
In camera Max Gilardi baciò Olga sulla
fronte.
«Ce la faremo?»
«Elena è simpatica, mi piace».
Olga approvò con un cenno del capo.
«Ricordavo bene, la vecchia invece è pitinfia…»
«Cos’è?»
«Pitinfia,
puzza sotto il naso. L’altra è smorfiosa. La più simpatica è Elena,
pazza sfrenata».
«Sì, hai ragione, è la più simpatica,
infatti si sposa…»
«Vecchietta, ci ha pensato a lungo».
«Ha quarantadue anni, sono informato… Sei
pronta?»
Il tè era servito in un salotto in stile
veneziano e poltroncine in velluto azzurro polvere. La baronessa si
scusò per l’ora, tarda per il tè, ma si giustificò con la necessità
di protrarre la cena oltre le otto per aspettare Carlo, lo sposo,
che era andato a Como a prendere un testimone.
«Che è vostro amico» aggiunse, senza
guardarli.
«Chi è?» domandò Gilardi.
«Sante D’Urso» gli rispose Elena. «Vero che
avete lavorato insieme?»
«Certo, ma che cosa ci fa da queste
parti?»
«È commissario alla polizia di Como, un
pezzo grosso…»
«Ma certo, che stupido: lo sapevo. È vostro
amico?»
«Non lo conosciamo» rispose asciutta
Eleonora.
«È amico di Carlo… una persona
deliziosa».
Max Gilardi sorrise a Elena. «Non avrei
saputo descriverlo meglio. Lo saluterò volentieri».
«È il testimone di Carlo».
«Ma guarda… Santino. Era il mio vice quando
ero commissario a Milano. S’è sposato?»
Elena scosse appena il capo e di sfuggita
diede un’occhiata a Elisa, che abbassò lo sguardo sulla sua tazza
bianca e azzurra di Meissen.
Eleonora chiese a Olga, con molta prudenza,
della sua tenuta in Toscana. «So che è molto vasta e che i vostri
vini sono eccellenti».
«Sì, anche quest’anno è stata una buona
annata. Li assaggerete, ve ne abbiamo spedite alcune casse per il
matrimonio».
«Non ne siamo state ancora informate, mi
dispiace».
A quel punto entrarono Carlo e Santino, e il
tè si animò delle loro voci, delle risate, delle esclamazioni di
sorpresa. Dei racconti, che si intrecciavano ai progetti.
Fu prima di entrare nella sala da pranzo,
che Elena e Carlo presero in disparte Max e Olga. «Volevamo
ringraziarvi per lo splendido regalo di nozze. Straordinario come
quel cristallo e i suoi colori si adattino alla nostra nuova casa.
È di Paola Gretel, vero?»
«Sì, sono i lavori che Paola fa a Parigi. È
piaciuto anche a noi».
«Grazie». Elena si avvicinò loro e baciò
entrambi sulla guancia. «Che gioia avervi qui» aggiunse in fretta.
E se non ci fosse stata poca luce, si sarebbero accorti che Carlo
era persino arrossito.
Fu Olga a proporlo, e sembrò naturale dirle
di sì. Erano seduti tutti insieme al tavolo della prima colazione
in una delle verande sopra la valle, c’erano anche Carlo e Santino
che era suo ospite. «Perché non ci mostrate la vostra nuova casa?»
domandò, guardando Elena.
«Mi piacerebbe, non l’hanno ancora vista
neppure le mie sorelle».
Max Gilardi fece scorrere la sedia
all’indietro e si alzò. «Ma come! Poi domani vi sposate e noi ce ne
ripartiamo… Non è una regola, vero?» aggiunse, temendo che si
trattasse davvero di una sciocca scaramanzia.
«Ma no… è che le mie sorelline hanno le loro
idee… Lasciateci andare avanti ad aprire un po’ di finestre e…
diciamo tra un’ora? Va bene tra un’ora?» ripeté, guardando
Eleonora.
«Va bene, vai… tra un’ora, scendiamo. Vai,
ora …»
Un’ora trascorsa davanti ai ritratti di
famiglia esposti nel salone centrale della villa. Eleonora indicava
ora uno ora l’altro, dicendo nomi e parentela.
«Quella era nostra nonna Esterina… e quello
il fratello del nonno…»
«Perché avete tutte e tre un nome che inizia
con la lettera E?» chiese
Olga.
Elisa guardò Eleonora che le fece di sì con
il capo. «Perché nonna Esterina aveva un gran corredo che aveva
passato a nostra madre, Elisabetta. E nostra madre pensò che
avrebbe potuto servire anche a noi. I corredi di una volta erano
cifrati, anche con la corona. Certamente Elena avrà scelto cose più
moderne…»
«Non ha voluto neanche un fazzoletto, di
quel corredo» la interruppe Eleonora. «Che cosa ci vogliamo fare,
quella è fatta così…»
Guardò l’ora alla pendola del salone e
raggiunse la porta, che era rimasta spalancata verso la scala
dell’uscita principale.
«Certo che le scale non vi mancano» le disse
Gilardi, offrendole il braccio. «Ma come fate?»
«Caro avvocato, facciamo… Voi avete una casa
tutta su di un piano? E voi come fate?»
Ora stavano ridendo, mentre scendevano verso
la casa di Carlo per quella strada, l’unica al centro del paese,
tra ville e cancelli ermeticamente chiusi. Una strada che ora
percorrevano in discesa, camminando in fila indiana sulle due
strisce lastricate al centro, evitando i sassi.
«Queste ville, sono disabitate?»
«Non tutte. Villa Nava sta andando in
rovina, ed è un peccato: dietro, verso la strada di sotto, ha un
grande parco. D’estate ci stavano dei villeggianti e d’inverno ci
abitavano due o tre famiglie… se ne sono andati tutti, la villa sta
cadendo a pezzi. Un peccato. Dei vecchi non è rimasto più
nessuno».
«Delle vecchie famiglie siamo rimaste
soltanto noi» aggiunse Elisa, a denti stretti.
Sul cancello spalancato verso un viale di
fitta ghiaietta bianca che attraverso due file di pioppi conduceva
a un altro cancello antico e più grande, trovarono Carlo e
Santino.
«Eccovi… benvenuti a casa nostra… Elena sta
preparando per ricevervi come si deve… entrate, oltre il
cancello…»
«E qui?» chiese Gilardi, dando un’occhiata
alla costruzione che, da un lato del viale, oltre i pioppi, si
sviluppava su due piani.
«Questa è la mia fabbrica… dopo se vuole
gliela faccio visitare, oggi e sino a lunedì siamo in vacanza».
Sorrise impacciato. «Sotto abbiamo il magazzino e il reparto
confezioni. Sopra il laboratorio… L’entrata è di fianco al primo
cancello. Gli operai non entrano da qui».
Mentre parlavano avevano superato anche il
secondo cancello ed erano arrivati in un cortile per tre quarti
chiuso da un colonnato a sostegno del palazzo su due piani.
«Questa è la vostra casa?» domandò Elisa. «E
che ci dovete fare?»
«La parte verso la valle è una veranda
chiusa. E nel prato là sotto faremo la piscina che vuole Elena… Il
nostro appartamento è su questi due lati, sotto e sopra. Sotto è
per noi, e sopra c’è l’appartamentino di Beppa, lavanderia e
stireria, e due camere per gli ospiti. Una l’ha appena inaugurata
Sante». E girò il capo verso di lui, ridendo.
«Grande» disse Eleonora. «E lei
dov’è?»
«Sono qua… venite». Sotto il portico,
davanti a una portafinestra spalancata, Elena si strinse a Carlo
passandogli un braccio intorno alla vita. «Ben arrivati a casa
nostra». E si fecero di lato per farli passare, impacciati e
sorpresi, come se aspettassero di doversi giustificare perché erano
felici.
La porta ad arco immetteva in un lungo
corridoio al centro della casa. In fila indiana, stanza dopo
stanza, tra commenti, spiegazioni, domande.
«E questa è la famosa cucina» disse Elena
davanti alla porta che avevano di fronte.
Beppa fece un piccolo inchino a testa bassa
e si appiattì contro il mobile a tutta parete che nascondeva
elettrodomestici e scaffali. Elena apriva e richiudeva gli
sportelli ridendo. «Qui c’è tutto, per cuocere, tagliare,
sminuzzare, friggere e lavare».
«E quello?»
«Il frigorifero… sputa anche il
ghiaccio».
«Ma tu sei pazza» e per la prima volta
videro ridere Elisa.
Su un lungo tavolo di fronte erano allineati
altri piccoli elettrodomestici e alcune alzatine e piatti
coperti.
Quella cucina da fantascienza li aveva messi
di buonumore: ora ridevano, canzonando Elena.
«Ma se tu non sai cuocere un uovo».
«Ci sarà qualcuno che lo saprà fare per me…
intanto ho la cucina fantascientifica, poi magari imparo».
Dalle finestre aperte delle stanze che
attraversavano appena dando un’occhiata saliva un profumo
dolciastro, carezzevole.
«Olea
fragrans?» domandò Olga.
«Brava, sì. Le abbiamo piantate da poco e
non siamo sicuri se resisteranno a questo clima. Tu le
conosci?»
«Mi piace questo profumo d’albicocca matura…
e sono bellissime con i loro fiori giallo-rosa o bianchi. Ne
abbiamo anche noi, vicino alla casa. Temono il freddo, ma qui mi
sembrano riparate…»
«E le camere?» domandò Elisa.
«Da quella parte, oltre la veranda».
Fece strada, sempre accanto a Carlo. Aprì
una porta verso una stanza non molto grande, con i soffitti alti e
un’ampia portafinestra verso il prato.
«Questa è la camera» disse in fretta.
Un letto matrimoniale con trapunta bianca
ornata di pizzi antichi, regalo personale di Eleonora. Una piccola
libreria e una poltrona. Su un tavolo basso, la grande scultura di
cristallo rosso e oro di Paola Gretel. Un altro tavolo più piccolo
accanto al letto.
Richiuse in fretta e guidò il gruppo verso
la veranda che avevano appena attraversato. «Vi ho preparato una
specie di brunch all’italiana…» Rinfrancata, ora stava ridendo:
come se avesse superato un momento difficile.
Malgrado le proteste di Eleonora, che non
approvava le ‘americanate’ della sorella, fu un’ottima colazione
persino allegra, servita da Beppa e da suo nipote Ciro, che faceva
il cameriere in un albergo-ristorante della zona.
«Potremo sempre contare su di lui,
all’occorrenza» spiegò Elena.
«Ti sei sistemata bene» le disse Elisa,
mentre bevevano il caffè accanto alla vetrata. «Avete fatto in
fretta…»
«Sì, Carlo mi ha molto aiutata».
«Non dormite insieme?»
Elena capì di essere arrossita e girò la
testa verso la finestra. «Sì… Carlo ha anche una camera di sopra,
se deve lavorare… Non abbiamo gli stessi orari».
Prima di tornare tutti a Villa Dubeca, Elisa
volle vedere la famosa vasca con idromassaggio.
«Posso venire a farla anch’io?»
«Ma certo, sorellina. Sapone e spugna, creme
e massaggi: servizio completo».
Tornati a Villa Dubeca, Eleonora si impose,
come disse lei, per rimettere le cose al loro posto. «Ora sediamoci
come Dio comanda e beviamoci un tè… io con queste diavolerie
moderne ci perdo la testa». Con questo voleva significare che le
belle poltroncine in autentico rattan della veranda di Elena non le
erano piaciute e le aveva trovate scomode. «Quella» aggiunse,
riferendosi a Elena che era rimasta in disparte con Olga, «ha
l’America in testa… Sorella mia, datti pace, sei in Brianza e qui
siamo rimasti all’antica. Comunque» proseguì a testa bassa e con le
mani giunte, come se stesse pregando, in un improvviso silenzio da
sacrestia, «questo è anche il pensiero di Elisa: la tua futura
casa, molto diversa da questa dove siamo cresciute, è bella,
moderna e ci piace. Tu sei una pazzerella, ma ora hai chi pensa a
te. Sono contenta del tuo matrimonio, perché sposi una brava
persona e perché saremo ancora vicine. Con le tue stranezze ci
saresti mancata molto. Dio ti benedica, sorella».
«Amen»
dissero insieme Elena e Elisa.
«Bene, e ora il tè… e facciamolo
all’antica».
Era rimasta in piedi davanti alla finestra
con la tazza del tè in mano, osservava la bella stanza che aveva di
fronte e i due gruppi, separati: Max, Carlo e Santino che
commentavano un processo in corso contro un sospettato d’omicidio
della zona, e le tre sorelle insieme, Elena in piedi e le altre due
sedute, che chiacchieravano ridendo eccitate dal momento e dalla
situazione.
Quella stanza e quelle voci le ricordarono
la sua casa in Toscana. Più taciturna, ora, dopo la recente morte
di suo padre.
In rapida sequenza rivide la sua casa, le
sue sorelle, sua madre, la campagna, le colline, le vigne e le
stalle. Girò le spalle e si appoggiò al davanzale: non era il
momento di piangere.
Sentì quel braccio sulla schiena e non si
girò: aveva riconosciuto il profumo di caprifoglio.
«Che cosa c’è?»
«Niente, scusa… È morto da poco mio padre e
tutta l’azienda è ora sulle mie spalle. Sarà difficile che io possa
stare tanto tempo a Napoli con Max». Alzò la testa e le sorrise.
«Difficile fare programmi quando ci si ama».
«Sono sicura che troverete il modo… Max ti
adora».
Olga fece di sì, con il capo. E le consegnò
la tazza vuota. «Andiamo fuori?»
«Stavo per chiederti la stessa cosa, devo
andare dai cavalli: vieni?»
«Volentieri, sì… il tramonto è l’ora più
bella del giorno».
«Io preferisco l’alba, quando i colori
incerti del mattino prendono consistenza… È come passarci sopra la
mano e vederli cambiare».
Erano uscite senza dirlo agli altri, e ora
si stavano incamminando verso la parte alta della collina, verso un
cielo ancora liquido.
«Ti è piaciuta davvero la nostra
casa?»
«Molto, sì…»
«Qualcosa non va? Ti vedo incerta, guarda
che puoi dirmelo, di te mi fido».
«No, la casa è molto moderna, raffinata,
intelligente… Non ho capito la tua camera da letto: dormi da
sola?»
«Accidenti, ma era così evidente? Se ne è
accorta anche Elisa».
«Molto femminile, direi».
«Già… con questa gamba non voglio dormire
con Carlo, forse tu mi capisci».
«Sinceramente, no. Carlo ti ama, ama te, la
donna meravigliosa che sei… la tua gamba è parte di te: che cosa
c’entra?»
Elena alzò la testa verso la scuderia che si
stagliava scura e massiccia in cima alla collina contro il cielo
che stava cambiando. Notò che era spuntata la prima stella.
«Ecco Venere» disse piano. Poi scosse la
testa. «A te posso dirlo. Sono stata già a letto con Carlo».
«Dovrei scandalizzarmi o stupirmi? Io sono
andata a letto con Max dopo due ore che lo conoscevo e ho faticato
a resistere tanto…» Ridendo le raccontò la storia dell’accappatoio.
«Ti rendi conto? L’avevo appena conosciuto, ma mi sarei dannata pur
di andare a letto con lui».
«Sapevo che tu avresti capito. Con questa
gamba…»
«Scusa se ti interrompo, ma vorrei che la
smettessi di far entrare la tua protesi in tutto quello che ti
riguarda. Sei una donna magnifica, allegra, intelligente,
spiritosa… Come può entrarci la tua protesi in una unione come la
vostra? Carlo è semplicemente pazzo di te, e non lo nasconde. Che
cosa c’entra la tua protesi?»
«Hai ragione, sono una stupida. Se non
avessi avuto questa gamba mai avrei avuto questa felicità, non
avrei mai conosciuto Carlo».
Erano arrivate alle scuderie, e Elena
allungò la mano a carezzare il muso della sua Nerina, il cavallo
baio, compagno delle sue cavalcate solitarie.
«Quando sono a letto con lui, io non ci
penso… lui è fantastico, gentile, generoso… sono davvero felice. Ma
di notte io tolgo la protesi, e allora mi vergogno. Non voglio che
mi veda… siamo d’accordo. Stiamo a letto insieme, poi quando
dobbiamo dormire lui sale al piano superiore e io resto giù. Più
libera, senza il pensiero della mia gamba… Carlo è
d’accordo».
«Sarebbe d’accordo anche se tu gli dicessi
che ora è pieno giorno. Comunque è una cosa che puoi decidere
soltanto tu…»
«Vorrei che non ci avesse badato nessuno… le
mie sorelle… queste sono cose intime, non ne puoi parlare con
chiunque».
«Ti amano molto le tue sorelle, così diverse
da te e pure così legate a te. Eleonora è la più severa, la più
intransigente…»
«Ci ha fatto da madre a tutte e due».
Accarezzò nuovamente Nerina, poi chiuse lo spazio aperto e lo
sprangò. «Vorrei che anche Elisa si sposasse» disse, mentre
chiudeva le altre porte. «Quel Santino, com’è?»
«Non lo conosco, ma so che Max lo stima
molto. Mi diceva che è di ottima famiglia, laureato in Legge, ha
preferito la carriera nella polizia ai tribunali».
«Sai se è fidanzato o qualcosa di simile?»
Olga scosse la testa. «Magari lo invitiamo a casa nostra e invito
anche Elisa. Senza Eleonora sulla testa, forse… che cosa
dici?»
«Tu hai avuto qualcuno che ti abbia aiutato
a scegliere Carlo? O io con Max?»
«Ma lei è sempre qui, chiusa in casa con i
suoi pennelli e i fiori che dipinge, non conosce nessuno. Una
spintarella possiamo dargliela…»
Ora stava ridendo, era tornata la donna che
aveva conosciuto, quella che davanti a una cucina supertecnologica
aveva detto: poi magari imparo…
Sapendo che mai avrebbe cucinato un uovo. Per principio.
Elena era diversa dalle sorelle, pensò Olga
mentre stavano tornando verso la casa. Mai avrebbe potuto
considerare una disgrazia quella sua protesi. Abbracciandola,
davanti alle scuderie, Olga le aveva sentito dire: Se non avessi avuto questa gamba mai avrei avuto
questa felicità… non avrei mai conosciuto Carlo.
E ripensò a se stessa, alla sua vita. Se non
fosse stato per la tragica morte dello zio, mai avrebbe incontrato
Max.
Gilla Dorfles non sarebbe mai guarita, ma
sua figlia Carolina la chiamava ‘zia’ con lo stesso amore con cui
l’avrebbe chiamata mamma. Anche i figli di Max la chiamavano ‘zia
Olga’ e l’abbracciavano e giocavano con lei.
Ora che aveva questa nuova grande famiglia,
le mancava suo padre.
D’Urso si alzò, seguito da Massimo
Gilardi.
«Scusate… vorrei scendere a Como con
l’avvocato Gilardi perché veda dove lavoro. A che ora la
cena?»
«Alle sette e mezzo» gli rispose Elisa,
guardandolo. Cercò di essere spiritosa aggiungendo: «Puntuali,
altrimenti rimarrete senza cena».
«Saremo puntuali».
Mentre in auto scendevano verso la valle,
sotto un cielo che stava scurendo, Gilardi domandò: «Ti sei fatto
un’idea di queste tre?»
«Se ne raccontano… era la famiglia più ricca
e potente della zona, da qui sino quasi a Como era tutta roba loro,
del nonno. Anche lui…»
«Che tipo era?» E poiché si accorse che
stava esitando, gli mise una mano sulla spalla. «Se si può
raccontare».
«Quello del quale si parla e si sparla è il
padre di queste, Matteo Clerici. Il nonno era ricco e potente. Una
brava persona, così si racconta. Aiutava la gente, dava lavoro…
Rispettava anche i poveri. Il figlio, qui lo chiamavano il
principe. Io non l’ho conosciuto, quando sono arrivato era già
morto in un incidente in Francia…»
«Che cosa faceva di così strano questo
principe?»
«Donne, soprattutto. E affari».
«Ma che storie sono? Era ricco e qui aveva
una moglie…»
«Sì, io non l’ho conosciuta. Dicono che
fosse malaticcia. Si racconta che il marito aveva vissuto qualche
tempo all’estero, comunque fuori di casa. Due delle tre figlie sono
sicuramente della moglie, ma una no…»
Max Gilardi riuscì a ridere. Intanto la
macchina si era fermata davanti a un gran palazzo, il palazzo della
questura. «Siamo arrivati» disse D’Urso, spegnendo il motore.
«Un momento, non vorrai lasciarmi con il
racconto a questo punto. Come sarebbe che una delle tre non è
figlia di sua madre… Di solito è il padre incerto…»
«E questa volta no. Il padre è arrivato a
casa con la bambina appena nata, non ancora battezzata… gliel’ha
messa tra le braccia e le ha detto che era figlia sua. Di lui.
Infatti le tre sorelle si somigliano, lei si sarebbe accorto
guardandole ora se una è diversa dalle altre?»
«Alla luce di questa storia, Elena, direi.
Era anche la più amata dal padre».
«Può darsi, ma qui nessuno lo sa con
certezza. La bambina è stata battezzata e iscritta all’anagrafe
come le sorelle. Quale delle tre? Qualcuno dei vecchi si confonde
sulle date di quando hanno visto la madre incinta. La storia se la
raccontano, qualcuno dice la seconda, qualcuno dice la terza,
ognuno dice la sua… ma nessuno sa niente di preciso, la madre stava
sempre chiusa in casa. La carrozzina era sempre la stessa, fatta
venire da Londra. Anche i bavaglini e i vestitini, con quella
E uguale per tutte e tre.
Battezzate in chiesa, la madre sempre malaticcia e sofferente. Il
dottore che l’aveva in cura fu trasferito a star meglio in una
clinica vicino a Roma, e questo gli ha chiuso la bocca, sino alla
morte».
«Ma ha dovuto dichiarare il parto, l’ora, il
luogo…»
«Sui registri è tutto regolare. Non so altro
e qui non c’è nessuno che ne sappia di più. Qualche vecchio si
ricorda di averne sentito parlare, ma cambiano discorso come se
temessero il malocchio. Anche di questo si parla».
«Di malocchio? Ma sono pazzi?»
«Quelli che hanno voluto saperne di più, in
un modo o nell’altro sono morti. Il dottore più anziano, che ora ha
novant’anni, dice che sono tutte sciocchezze, lui ha visto nascere
tutte e tre le sorelle. Madre e padre gli stessi. Ma altri vecchi
raccontano di un’improvvisa agiatezza di questo dottore, che si è
ritirato dall’ospedale ed è passato… a vita privata. Non so
altro».
Scesi dalla macchina, si avviarono a passo
svelto verso il portone che un agente stava chiudendo. Il
giovanotto scattò sull’attenti.
«Riposo… c’è ancora qualcuno?»
«Sì, signor commissario. Ci sono i due
avvocati per quel Lazzarini con il vicecommissario Ambrosio… devo
avvertirli?»
«No, grazie. Salgo nel mio studio».
Altro scatto sull’attenti, un cenno di
saluto e si avviarono verso gli ascensori. «Una bella sede»
commentò Gilardi. Dalle finestre del corridoio, alle spalle del
massiccio caseggiato, in quella luce del giorno che stava morendo,
si indovinavano alberi e case basse con le finestre illuminate.
«Molto diversa dalla nostra sede di Trissera, ma te la
ricordi?»
«Me la ricordo sì, avvocato. E quella
signorina… Olga, quella che è morta ammazzata, l’ultimo nostro caso
insieme».
«Che poi non era stata ammazzata da nessuno
e ci ha preso in giro tutti quanti, per mesi…»
«Ma se la ricorda? Sa che spesso ripenso a
quegli anni? Io ero un pivello, ma lei è stato un grande esempio
per noi».
Erano al centro dello studio di Sante
D’Urso, commissario. «Smettila, avanti». Guardò l’ora. «Andiamo,
altrimenti quelle tre ci lasciano davvero senza cena, peggio di una
caserma… Sai che ogni tanto ripenso a Natj, a che moglie
straordinaria sia stata, anche per così poco tempo. Ancora non mi
rassegno alla sua morte, mi sembra di non aver fatto abbastanza per
proteggerla. A volte mi manca, era una presenza nella mia vita e
nel mio lavoro che ha inciso molto su di me, sul mio carattere. I
ricordi fanno star male ma non sono mai inutili».
Avevano guardato la stanza di Santino
D’Urso, il suo ordine meticoloso, i quadri alle pareti, i grafici,
le foto segnaletiche, i computer… Il ragazzo di allora che si era
fatto uomo, senza rinunciare al carattere e alle sue manie. Stavano
ridendo, mentre ritornavano verso gli ascensori.
«Quindi il tuo lavoro ti piace sempre».
Santino gli disse di sì, mentre si faceva da parte per lasciarlo
passare. «E non pensi a sposarti?» Una lancia in favore di Elisa.
Che D’Urso gli spezzò di colpo con la sua risposta.
«Domani la conoscerà, è tornata ieri sera da
Londra e mi ha chiesto un giorno per riprendersi dal fuso orario.
Domattina ve la presenterò. Forse ci sposiamo in autunno».
«Inglese?» Santino continuava a
stupirlo.
«No, romana. Ma sta laureandosi in Diritto
internazionale a Londra. Non so come abbia fatto a innamorarsi di
me». Gli mostrò una fotografia sul cellulare.
«Bella davvero» commentò Gilardi, mentre
D’Urso faceva scorrere altre foto con bacio finale. «Ti suggerisco
di dirlo, alle tre sorelle, che domani arriva la tua
fidanzata…»
«No, non importa. Non ci fermiamo a
colazione. Partiamo subito dopo la cerimonia».
Gilardi sorrideva a fior di labbra mentre
prendeva posto in macchina. Gli sembrava di aver intuito che Elena
volesse far nascere una storia tra D’Urso e sua sorella Elisa. Che
a parte la ricchezza non aveva molte altre attrattive. Non per un
ragazzo ambizioso come Santino. Che ora, guardandolo di profilo
mentre guidava, gli sembrava persino più giovane di Elisa e
sicuramente più interessante.
«Come ti sembrano le tre sorelle?»
D’Urso scosse appena il capo. «Ricche. La
migliore è senza dubbio Elena… ma con quella gamba, Dio mio. Ma ci
pensa, avvocato: averla a letto con quella gamba… Non so come
faccia Carlo».
«L’amore, Santino. L’amore».
«Forse io non ce la farei… Non mi sarei mai
innamorato di una donna così. Certo, Carlo ora sta facendo progetti
per ingrandire la sua azienda, mette molto fieno in cascina con
questo matrimonio…»
«Ma è innamorato di Elena» lo interruppe,
scontento di quei commenti che non condivideva.
«Certo, ma credo che molto abbiano fatto i
milioni di famiglia. Le due sorelle che non si sposano, è tutta
roba di Elena. Lei crede davvero che non abbia influito sulle
decisioni di Carlo?»
«Sinceramente credo di no».
«Perché lei non conosce la gente di qui… non
ci sono idealisti e disinteressati, qui i loro padri hanno patito
la fame. Lo vede anche lei». Erano arrivati e D’Urso stava
parcheggiando davanti alla casa di Carlo. «Tranne Villa Dubeca, qui
ci sono solo ville andate in malora. E sono sparite le catapecchie
dei contadini, qualcosa vorrà significare».
«Secondo te?»
«Padroni poco accorti che si sono fatti
fregare. Guardi Carlo, figlio di un boscaiolo ignorante e avaro,
ora si sposa la più ricca di tutta la zona. Tra una o due
generazioni…»
«Ma Elena ha quarantadue anni, che figli
avrà?»
«Ma Carlo sì… si ricordi la storia del
padre. Le storie si ripetono… le storie si ripetono, avvocato». Ora
stava ridendo e Gilardi si accorse che Santino non gli era più così
simpatico come quando era giovane e aveva ideali da
condividere.
«Auguri» disse a denti stretti. Spinse il
cancello e iniziò a salire le scale.
Al termine della cena, mentre stavano
trasferendosi in salotto, Massimo Gilardi mise una mano sulla
spalla di Santino. «Domani il nostro commissario ci presenterà la
sua fidanzata, appena arrivata da Londra».
«Oh, ma perché…» Era chiaro quello che
avrebbe voluto dire Eleonora, che invece si ingarbugliò.
«Perché non è venuta a cena? Ci dispiace…»
intervenne Elena.
«È appena arrivata da Londra, era stanca.
Naturalmente verrà domattina alla cerimonia, poi ripartiremo subito
dopo per Roma. Io avevo avvertito Carlo che non ci saremmo fermati
a colazione…»
«Londra?» domandò Elisa. E rivolta a Carlo,
al quale non riusciva ancora a dare del tu: «Poteva dircelo… ci
dispiace».
Santino si inchinò un po’ goffamente davanti
a Eleonora. «Grazie, baronessa».
«La conosceremo domani e sarà un piacere…»
Per dire che la questione, che considerava cosa di poco conto,
finiva lì.
Mentre stavano coricandosi in quel letto
massiccio come un altare, Gilardi le fece la domanda che aveva
rimandato per tutta la sera.
«Ti sembrano sorelle, queste tre?»
Olga scosse la testa. «Che domanda è?»
Le raccontò i discorsi di Santino. «Quale
delle tre, secondo te?»
Olga sprimacciò i cuscini di piuma e se li
accomodò dietro la testa. «Io non credo a questa storia, ma se
fosse vera, e ne dubito, direi Elena. È sicuramente diversa dalle
altre. Ma se il padre è lo stesso, dubito fortemente che ci siano
differenze tali da distinguerle. Hai visto il ritratto di famiglia
nel salone, somigliano tutte e tre al padre e al nonno. Hanno la
cosiddetta impronta di famiglia. Io somiglio a mio padre e le mie
sorelle a mia madre. Tu hai preso dal tuo nonno materno, dalle foto
sei tale e quale a lui: alto, biondo, bello. Non riesco ad avere
dubbi su queste tre. Comunque la migliore… è sicuramente Elena. Ma
è soprattutto quella che ha avuto una vita diversa: le gare, i
viaggi, un mondo là fuori da questo castello decrepito. Ha
vissuto…»
«Sempre con suo padre. Ti chiedi come
mai?»
«Perché era la figlia dell’amore?» lo
canzonò Olga. «Più semplicemente perché amava i cavalli e vinceva
le gare. Oltre all’amore mettici l’orgoglio paterno, non mi sembra
strano».
«Certo, sono ragioni più che sufficienti per
riconoscersi in una figlia».
«Vuoi dire che mio padre mi amava perché
sapevo mungere le mucche? Ha molto amato anche le mie sorelle, così
diverse da me. Era orgoglioso di noi, di tutte e tre. Credo che la
stessa cosa sia stata per Elena. Erano tutte e tre figlie sue, se
la storia è vera. Perché avrebbe dovuto amare Elena più delle altre
due?»
«Perché era la figlia dell’amore. Forse ha
amato sua madre più di Elisabetta».
«Forse in un romanzo di Liala. Dubito che un
uomo come quello, così come ce l’hanno descritto, sia stato capace
di amori violenti e duraturi. Elena, delle tre, è stata la figlia
che gli somigliava di più, e quella che ha pagato molto cara la
propria passione. L’ha amata anche per quello, non è così difficile
da immaginare. Comunque io non credo a questa storia. Ma ti rendi
conto? In un paese di seicento anime, una storia così sarebbe
scritta sui muri. I documenti, i medici, gli addetti comunali… li
ha fatti tacere tutti? E la Elisabetta che se ne andava in giro…
almeno in chiesa la domenica, senza pancia, e poi in una notte ti
sforna una bimba forte e grassottella, piovuta dal cielo. Avanti,
Max: Santino è proprio il tipo al quale garbano queste storie un
po’ oscure, lui ci campa».
«Ma c’è dell’altro… Elena ha quarantadue
anni, me l’ha detto Aurora quando mi ha convinto a venire qui per
fare da testimone. Eleonora ne ha quarantacinque e Elisa
trentasette… Sai che cosa significa?»
«No, francamente».
«Se Elena è la figlia diversa, una bambina
di tre anni non è in grado di accorgersi che sua madre non ha la
pancia, che non l’allatta…»
«Mentre se la figlia diversa fosse Elisa, a
otto anni Eleonora potrebbe aver notato qualche stranezza, sfuggita
invece a Elena che aveva tre anni. Magari l’arrivo di una balia.
Magari che il padre carica in macchina la moglie e la figlia e le
conduce al mare o in un altro posto qualsiasi per rendere
plausibile quella nascita… Insomma, a sei anni forse certe cose si
capiscono. Questo ragionamento lo condividi? Ti sembra
plausibile?»
«Direi di sì, ma con tutti questi numeri mi
stai confondendo. Sembra una delle tue partite di scacchi: la
famosa mossa del cavallo, che va bene avanti o indietro. Questo
ragionamento fa supporre che la figlia diversa sia Elena. Che a me
non dovrebbe sembrare tanto strano, se guardo casa mia… Le gemelle
sono bionde e esili come canne, io sono bruna e forte come mio
padre. E a casa nostra non ci sono dubbi, siamo tutte figlie degli
stessi genitori, io mia madre con la pancia me la ricordo, eccome…
Ma non saranno tutte fantasie del tuo amico Santino?»
Gilardi si aggiustò i cuscini e si coprì le
spalle con la coperta. Non faceva caldo. «E la fidanzata arrivata
da Londra?» domandò, con quel sorriso un po’ beffardo che Olga
conosceva.
«Anche questa è proprio da lui. E mentre tu
stavi raccontando alla famiglia questa bella sorpresa, ti è
sfuggito lo sguardo tra Elena ed Eleonora… credo che si fossero
messe in testa di far frequentare Santino a Elisa. La fidanzata chi
è? Come nasce?»
«Come nasce non lo so, è di Roma e sta
laureandosi a Londra in Diritto internazionale».
«Scoprirai che suo padre è un onorevole o un
deputato del partito al governo».
«Insomma, Santino non ti piace».
«Sì, invece. Perché ti ammira e ti è
riconoscente. Ma è ambizioso e un po’ stronzetto…»
Ora stavano ridendo, tenendosi stretti sotto
le coperte.
«Elena va a letto con Carlo».
«Te l’ha detto lei?»
«Sì… ma mi ha detto che dormirà da sola
perché si vergogna della sua protesi».
«Fanno l’amore, poi lei dorme da sola perché
si vergogna della protesi o della sua gamba amputata… Forse lei
russa ed è di questo che si vergogna, lo capirei di più… Ehi,
signora…» Le mise una mano sul seno e l’accarezzò adagio,
sfiorandola con le labbra. «Non abbiamo mai fatto l’amore in un
letto come questo».
«Dici che…»