Olga e Massimo Gilardi
Allineò la macchina accanto alle altre che erano parcheggiate oltre la cancellata che gli avevano indicato. Mentre apriva la portiera per far scendere Olga, gli venne incontro un ragazzo con un carrello.
«Buongiorno, signore… L’avvocato Gilardi?»
«Sì, sono io. Va bene la macchina qui?
«Sì, sissignore… Di sera chiudiamo la cancellata».
«Le valige…» Aprì il portabagagli e lasciò che il ragazzo prendesse la loro valigia e la borsa di Olga. «Sì, ricordo, la casa è quella».
«È questa, sì» gli rispose un’allegra voce femminile alle loro spalle. «Massimo, benarrivati!»
Gilardi si girò sorridendo. «Io sono Elena». Aprì le braccia e si lasciò abbracciare. «Olga, come sono felice che siate qui, avete fatto buon viaggio? Venite da Napoli?» Baciò e abbracciò Olga. «Sei qui…» Sembrò commossa.
Per vecchia abitudine Olga si girò a guardare il panorama che avevano di fronte. «Salendo dalla pianura non ci si immagina una simile distesa di campi, di colline… sorpresa come la prima volta. È sempre un posto stupendo, peccato che sia poco sfruttato. Che cosa ci coltivate?»
Elena scosse la testa. «Poco o niente, lo stretto necessario. Questi sono gli orti, qualche albero da frutta. Là di fronte poche vigne, ma soltanto per nostro uso e consumo. I contadini sono in basso… queste colline sono nostre, dei miei cavalli».
«Certo, Olga me l’ha detto: cavalca ancora?»
«Ho smesso le gare, per forza. Comunque cavalco ancora, è rimasta la mia passione». Guardò Massimo Gilardi con un certo imbarazzo. «Lei va a cavallo?» Guardò prima l’uno poi l’altra, sperando di sentirsi rispondere di sì.
«Io lo sai, vado per campi a cavallo. Abbiamo una tenuta molto estesa e non voglio motori» le rispose Olga.
«Anch’io so stare in groppa».
Elena li guardò dubbiosa. «Ora sarete stanchi, ma domani…»
«No, non perdiamoci quest’ora sublime» declamò Olga ridendo. Conquistata da quegli spazi che avevano di fronte.
«Davvero? Dite davvero? Allora saliamo, le scuderie sono là sopra… Ci sono stivali che forse vanno bene… Non facciamo niente di spericolato, vi porto a vedere il fiume, è qua sotto».
Quando entrarono in casa era già quasi buio. In anticamera furono accolti da Eleonora, rigorosamente vestita di nero, e da Elisa, eccezionalmente in pantaloni bianchi e maglietta azzurra.
«Vi ricordate di Olga e dell’avvocato Massimo Gilardi» li presentò Elena.
«È un piacere che siate nostri ospiti in questa circostanza… ma dove siete stati?»
«A cavallo, con quella…» disse Elisa, stringendo la mano di Olga con un mezzo sorriso. «È fissata con i cavalli… non le è bastato quello che le è capitato…»
Persero un po’ di tempo a spiegare che era stata una gita fantastica, che il posto era bellissimo e il tramonto una gioia per gli occhi. Domandarono il permesso di andare a cambiarsi e che poi avrebbero gradito un tè, per conoscersi meglio.
In camera Max Gilardi baciò Olga sulla fronte.
«Ce la faremo?»
«Elena è simpatica, mi piace».
Olga approvò con un cenno del capo. «Ricordavo bene, la vecchia invece è pitinfia…»
«Cos’è?»
«Pitinfia, puzza sotto il naso. L’altra è smorfiosa. La più simpatica è Elena, pazza sfrenata».
«Sì, hai ragione, è la più simpatica, infatti si sposa…»
«Vecchietta, ci ha pensato a lungo».
«Ha quarantadue anni, sono informato… Sei pronta?»
Il tè era servito in un salotto in stile veneziano e poltroncine in velluto azzurro polvere. La baronessa si scusò per l’ora, tarda per il tè, ma si giustificò con la necessità di protrarre la cena oltre le otto per aspettare Carlo, lo sposo, che era andato a Como a prendere un testimone.
«Che è vostro amico» aggiunse, senza guardarli.
«Chi è?» domandò Gilardi.
«Sante D’Urso» gli rispose Elena. «Vero che avete lavorato insieme?»
«Certo, ma che cosa ci fa da queste parti?»
«È commissario alla polizia di Como, un pezzo grosso…»
«Ma certo, che stupido: lo sapevo. È vostro amico?»
«Non lo conosciamo» rispose asciutta Eleonora.
«È amico di Carlo… una persona deliziosa».
Max Gilardi sorrise a Elena. «Non avrei saputo descriverlo meglio. Lo saluterò volentieri».
«È il testimone di Carlo».
«Ma guarda… Santino. Era il mio vice quando ero commissario a Milano. S’è sposato?»
Elena scosse appena il capo e di sfuggita diede un’occhiata a Elisa, che abbassò lo sguardo sulla sua tazza bianca e azzurra di Meissen.
Eleonora chiese a Olga, con molta prudenza, della sua tenuta in Toscana. «So che è molto vasta e che i vostri vini sono eccellenti».
«Sì, anche quest’anno è stata una buona annata. Li assaggerete, ve ne abbiamo spedite alcune casse per il matrimonio».
«Non ne siamo state ancora informate, mi dispiace».
A quel punto entrarono Carlo e Santino, e il tè si animò delle loro voci, delle risate, delle esclamazioni di sorpresa. Dei racconti, che si intrecciavano ai progetti.
Fu prima di entrare nella sala da pranzo, che Elena e Carlo presero in disparte Max e Olga. «Volevamo ringraziarvi per lo splendido regalo di nozze. Straordinario come quel cristallo e i suoi colori si adattino alla nostra nuova casa. È di Paola Gretel, vero?»
«Sì, sono i lavori che Paola fa a Parigi. È piaciuto anche a noi».
«Grazie». Elena si avvicinò loro e baciò entrambi sulla guancia. «Che gioia avervi qui» aggiunse in fretta. E se non ci fosse stata poca luce, si sarebbero accorti che Carlo era persino arrossito.
Fu Olga a proporlo, e sembrò naturale dirle di sì. Erano seduti tutti insieme al tavolo della prima colazione in una delle verande sopra la valle, c’erano anche Carlo e Santino che era suo ospite. «Perché non ci mostrate la vostra nuova casa?» domandò, guardando Elena.
«Mi piacerebbe, non l’hanno ancora vista neppure le mie sorelle».
Max Gilardi fece scorrere la sedia all’indietro e si alzò. «Ma come! Poi domani vi sposate e noi ce ne ripartiamo… Non è una regola, vero?» aggiunse, temendo che si trattasse davvero di una sciocca scaramanzia.
«Ma no… è che le mie sorelline hanno le loro idee… Lasciateci andare avanti ad aprire un po’ di finestre e… diciamo tra un’ora? Va bene tra un’ora?» ripeté, guardando Eleonora.
«Va bene, vai… tra un’ora, scendiamo. Vai, ora …»
Un’ora trascorsa davanti ai ritratti di famiglia esposti nel salone centrale della villa. Eleonora indicava ora uno ora l’altro, dicendo nomi e parentela.
«Quella era nostra nonna Esterina… e quello il fratello del nonno…»
«Perché avete tutte e tre un nome che inizia con la lettera E?» chiese Olga.
Elisa guardò Eleonora che le fece di sì con il capo. «Perché nonna Esterina aveva un gran corredo che aveva passato a nostra madre, Elisabetta. E nostra madre pensò che avrebbe potuto servire anche a noi. I corredi di una volta erano cifrati, anche con la corona. Certamente Elena avrà scelto cose più moderne…»
«Non ha voluto neanche un fazzoletto, di quel corredo» la interruppe Eleonora. «Che cosa ci vogliamo fare, quella è fatta così…»
Guardò l’ora alla pendola del salone e raggiunse la porta, che era rimasta spalancata verso la scala dell’uscita principale.
«Certo che le scale non vi mancano» le disse Gilardi, offrendole il braccio. «Ma come fate?»
«Caro avvocato, facciamo… Voi avete una casa tutta su di un piano? E voi come fate?»
Ora stavano ridendo, mentre scendevano verso la casa di Carlo per quella strada, l’unica al centro del paese, tra ville e cancelli ermeticamente chiusi. Una strada che ora percorrevano in discesa, camminando in fila indiana sulle due strisce lastricate al centro, evitando i sassi.
«Queste ville, sono disabitate?»
«Non tutte. Villa Nava sta andando in rovina, ed è un peccato: dietro, verso la strada di sotto, ha un grande parco. D’estate ci stavano dei villeggianti e d’inverno ci abitavano due o tre famiglie… se ne sono andati tutti, la villa sta cadendo a pezzi. Un peccato. Dei vecchi non è rimasto più nessuno».
«Delle vecchie famiglie siamo rimaste soltanto noi» aggiunse Elisa, a denti stretti.
Sul cancello spalancato verso un viale di fitta ghiaietta bianca che attraverso due file di pioppi conduceva a un altro cancello antico e più grande, trovarono Carlo e Santino.
«Eccovi… benvenuti a casa nostra… Elena sta preparando per ricevervi come si deve… entrate, oltre il cancello…»
«E qui?» chiese Gilardi, dando un’occhiata alla costruzione che, da un lato del viale, oltre i pioppi, si sviluppava su due piani.
«Questa è la mia fabbrica… dopo se vuole gliela faccio visitare, oggi e sino a lunedì siamo in vacanza». Sorrise impacciato. «Sotto abbiamo il magazzino e il reparto confezioni. Sopra il laboratorio… L’entrata è di fianco al primo cancello. Gli operai non entrano da qui».
Mentre parlavano avevano superato anche il secondo cancello ed erano arrivati in un cortile per tre quarti chiuso da un colonnato a sostegno del palazzo su due piani.
«Questa è la vostra casa?» domandò Elisa. «E che ci dovete fare?»
«La parte verso la valle è una veranda chiusa. E nel prato là sotto faremo la piscina che vuole Elena… Il nostro appartamento è su questi due lati, sotto e sopra. Sotto è per noi, e sopra c’è l’appartamentino di Beppa, lavanderia e stireria, e due camere per gli ospiti. Una l’ha appena inaugurata Sante». E girò il capo verso di lui, ridendo.
«Grande» disse Eleonora. «E lei dov’è?»
«Sono qua… venite». Sotto il portico, davanti a una portafinestra spalancata, Elena si strinse a Carlo passandogli un braccio intorno alla vita. «Ben arrivati a casa nostra». E si fecero di lato per farli passare, impacciati e sorpresi, come se aspettassero di doversi giustificare perché erano felici.
La porta ad arco immetteva in un lungo corridoio al centro della casa. In fila indiana, stanza dopo stanza, tra commenti, spiegazioni, domande.
«E questa è la famosa cucina» disse Elena davanti alla porta che avevano di fronte.
Beppa fece un piccolo inchino a testa bassa e si appiattì contro il mobile a tutta parete che nascondeva elettrodomestici e scaffali. Elena apriva e richiudeva gli sportelli ridendo. «Qui c’è tutto, per cuocere, tagliare, sminuzzare, friggere e lavare».
«E quello?»
«Il frigorifero… sputa anche il ghiaccio».
«Ma tu sei pazza» e per la prima volta videro ridere Elisa.
Su un lungo tavolo di fronte erano allineati altri piccoli elettrodomestici e alcune alzatine e piatti coperti.
Quella cucina da fantascienza li aveva messi di buonumore: ora ridevano, canzonando Elena.
«Ma se tu non sai cuocere un uovo».
«Ci sarà qualcuno che lo saprà fare per me… intanto ho la cucina fantascientifica, poi magari imparo».
Dalle finestre aperte delle stanze che attraversavano appena dando un’occhiata saliva un profumo dolciastro, carezzevole.
«Olea fragrans?» domandò Olga.
«Brava, sì. Le abbiamo piantate da poco e non siamo sicuri se resisteranno a questo clima. Tu le conosci?»
«Mi piace questo profumo d’albicocca matura… e sono bellissime con i loro fiori giallo-rosa o bianchi. Ne abbiamo anche noi, vicino alla casa. Temono il freddo, ma qui mi sembrano riparate…»
«E le camere?» domandò Elisa.
«Da quella parte, oltre la veranda».
Fece strada, sempre accanto a Carlo. Aprì una porta verso una stanza non molto grande, con i soffitti alti e un’ampia portafinestra verso il prato.
«Questa è la camera» disse in fretta.
Un letto matrimoniale con trapunta bianca ornata di pizzi antichi, regalo personale di Eleonora. Una piccola libreria e una poltrona. Su un tavolo basso, la grande scultura di cristallo rosso e oro di Paola Gretel. Un altro tavolo più piccolo accanto al letto.
Richiuse in fretta e guidò il gruppo verso la veranda che avevano appena attraversato. «Vi ho preparato una specie di brunch all’italiana…» Rinfrancata, ora stava ridendo: come se avesse superato un momento difficile.
Malgrado le proteste di Eleonora, che non approvava le ‘americanate’ della sorella, fu un’ottima colazione persino allegra, servita da Beppa e da suo nipote Ciro, che faceva il cameriere in un albergo-ristorante della zona.
«Potremo sempre contare su di lui, all’occorrenza» spiegò Elena.
«Ti sei sistemata bene» le disse Elisa, mentre bevevano il caffè accanto alla vetrata. «Avete fatto in fretta…»
«Sì, Carlo mi ha molto aiutata».
«Non dormite insieme?»
Elena capì di essere arrossita e girò la testa verso la finestra. «Sì… Carlo ha anche una camera di sopra, se deve lavorare… Non abbiamo gli stessi orari».
Prima di tornare tutti a Villa Dubeca, Elisa volle vedere la famosa vasca con idromassaggio.
«Posso venire a farla anch’io?»
«Ma certo, sorellina. Sapone e spugna, creme e massaggi: servizio completo».
Tornati a Villa Dubeca, Eleonora si impose, come disse lei, per rimettere le cose al loro posto. «Ora sediamoci come Dio comanda e beviamoci un tè… io con queste diavolerie moderne ci perdo la testa». Con questo voleva significare che le belle poltroncine in autentico rattan della veranda di Elena non le erano piaciute e le aveva trovate scomode. «Quella» aggiunse, riferendosi a Elena che era rimasta in disparte con Olga, «ha l’America in testa… Sorella mia, datti pace, sei in Brianza e qui siamo rimasti all’antica. Comunque» proseguì a testa bassa e con le mani giunte, come se stesse pregando, in un improvviso silenzio da sacrestia, «questo è anche il pensiero di Elisa: la tua futura casa, molto diversa da questa dove siamo cresciute, è bella, moderna e ci piace. Tu sei una pazzerella, ma ora hai chi pensa a te. Sono contenta del tuo matrimonio, perché sposi una brava persona e perché saremo ancora vicine. Con le tue stranezze ci saresti mancata molto. Dio ti benedica, sorella».
«Amen» dissero insieme Elena e Elisa.
«Bene, e ora il tè… e facciamolo all’antica».
Era rimasta in piedi davanti alla finestra con la tazza del tè in mano, osservava la bella stanza che aveva di fronte e i due gruppi, separati: Max, Carlo e Santino che commentavano un processo in corso contro un sospettato d’omicidio della zona, e le tre sorelle insieme, Elena in piedi e le altre due sedute, che chiacchieravano ridendo eccitate dal momento e dalla situazione.
Quella stanza e quelle voci le ricordarono la sua casa in Toscana. Più taciturna, ora, dopo la recente morte di suo padre.
In rapida sequenza rivide la sua casa, le sue sorelle, sua madre, la campagna, le colline, le vigne e le stalle. Girò le spalle e si appoggiò al davanzale: non era il momento di piangere.
Sentì quel braccio sulla schiena e non si girò: aveva riconosciuto il profumo di caprifoglio.
«Che cosa c’è?»
«Niente, scusa… È morto da poco mio padre e tutta l’azienda è ora sulle mie spalle. Sarà difficile che io possa stare tanto tempo a Napoli con Max». Alzò la testa e le sorrise. «Difficile fare programmi quando ci si ama».
«Sono sicura che troverete il modo… Max ti adora».
Olga fece di sì, con il capo. E le consegnò la tazza vuota. «Andiamo fuori?»
«Stavo per chiederti la stessa cosa, devo andare dai cavalli: vieni?»
«Volentieri, sì… il tramonto è l’ora più bella del giorno».
«Io preferisco l’alba, quando i colori incerti del mattino prendono consistenza… È come passarci sopra la mano e vederli cambiare».
Erano uscite senza dirlo agli altri, e ora si stavano incamminando verso la parte alta della collina, verso un cielo ancora liquido.
«Ti è piaciuta davvero la nostra casa?»
«Molto, sì…»
«Qualcosa non va? Ti vedo incerta, guarda che puoi dirmelo, di te mi fido».
«No, la casa è molto moderna, raffinata, intelligente… Non ho capito la tua camera da letto: dormi da sola?»
«Accidenti, ma era così evidente? Se ne è accorta anche Elisa».
«Molto femminile, direi».
«Già… con questa gamba non voglio dormire con Carlo, forse tu mi capisci».
«Sinceramente, no. Carlo ti ama, ama te, la donna meravigliosa che sei… la tua gamba è parte di te: che cosa c’entra?»
Elena alzò la testa verso la scuderia che si stagliava scura e massiccia in cima alla collina contro il cielo che stava cambiando. Notò che era spuntata la prima stella.
«Ecco Venere» disse piano. Poi scosse la testa. «A te posso dirlo. Sono stata già a letto con Carlo».
«Dovrei scandalizzarmi o stupirmi? Io sono andata a letto con Max dopo due ore che lo conoscevo e ho faticato a resistere tanto…» Ridendo le raccontò la storia dell’accappatoio. «Ti rendi conto? L’avevo appena conosciuto, ma mi sarei dannata pur di andare a letto con lui».
«Sapevo che tu avresti capito. Con questa gamba…»
«Scusa se ti interrompo, ma vorrei che la smettessi di far entrare la tua protesi in tutto quello che ti riguarda. Sei una donna magnifica, allegra, intelligente, spiritosa… Come può entrarci la tua protesi in una unione come la vostra? Carlo è semplicemente pazzo di te, e non lo nasconde. Che cosa c’entra la tua protesi?»
«Hai ragione, sono una stupida. Se non avessi avuto questa gamba mai avrei avuto questa felicità, non avrei mai conosciuto Carlo».
Erano arrivate alle scuderie, e Elena allungò la mano a carezzare il muso della sua Nerina, il cavallo baio, compagno delle sue cavalcate solitarie.
«Quando sono a letto con lui, io non ci penso… lui è fantastico, gentile, generoso… sono davvero felice. Ma di notte io tolgo la protesi, e allora mi vergogno. Non voglio che mi veda… siamo d’accordo. Stiamo a letto insieme, poi quando dobbiamo dormire lui sale al piano superiore e io resto giù. Più libera, senza il pensiero della mia gamba… Carlo è d’accordo».
«Sarebbe d’accordo anche se tu gli dicessi che ora è pieno giorno. Comunque è una cosa che puoi decidere soltanto tu…»
«Vorrei che non ci avesse badato nessuno… le mie sorelle… queste sono cose intime, non ne puoi parlare con chiunque».
«Ti amano molto le tue sorelle, così diverse da te e pure così legate a te. Eleonora è la più severa, la più intransigente…»
«Ci ha fatto da madre a tutte e due». Accarezzò nuovamente Nerina, poi chiuse lo spazio aperto e lo sprangò. «Vorrei che anche Elisa si sposasse» disse, mentre chiudeva le altre porte. «Quel Santino, com’è?»
«Non lo conosco, ma so che Max lo stima molto. Mi diceva che è di ottima famiglia, laureato in Legge, ha preferito la carriera nella polizia ai tribunali».
«Sai se è fidanzato o qualcosa di simile?» Olga scosse la testa. «Magari lo invitiamo a casa nostra e invito anche Elisa. Senza Eleonora sulla testa, forse… che cosa dici?»
«Tu hai avuto qualcuno che ti abbia aiutato a scegliere Carlo? O io con Max?»
«Ma lei è sempre qui, chiusa in casa con i suoi pennelli e i fiori che dipinge, non conosce nessuno. Una spintarella possiamo dargliela…»
Ora stava ridendo, era tornata la donna che aveva conosciuto, quella che davanti a una cucina supertecnologica aveva detto: poi magari imparo… Sapendo che mai avrebbe cucinato un uovo. Per principio.
Elena era diversa dalle sorelle, pensò Olga mentre stavano tornando verso la casa. Mai avrebbe potuto considerare una disgrazia quella sua protesi. Abbracciandola, davanti alle scuderie, Olga le aveva sentito dire: Se non avessi avuto questa gamba mai avrei avuto questa felicità… non avrei mai conosciuto Carlo.
E ripensò a se stessa, alla sua vita. Se non fosse stato per la tragica morte dello zio, mai avrebbe incontrato Max.
Gilla Dorfles non sarebbe mai guarita, ma sua figlia Carolina la chiamava ‘zia’ con lo stesso amore con cui l’avrebbe chiamata mamma. Anche i figli di Max la chiamavano ‘zia Olga’ e l’abbracciavano e giocavano con lei.
Ora che aveva questa nuova grande famiglia, le mancava suo padre.
D’Urso si alzò, seguito da Massimo Gilardi.
«Scusate… vorrei scendere a Como con l’avvocato Gilardi perché veda dove lavoro. A che ora la cena?»
«Alle sette e mezzo» gli rispose Elisa, guardandolo. Cercò di essere spiritosa aggiungendo: «Puntuali, altrimenti rimarrete senza cena».
«Saremo puntuali».
Mentre in auto scendevano verso la valle, sotto un cielo che stava scurendo, Gilardi domandò: «Ti sei fatto un’idea di queste tre?»
«Se ne raccontano… era la famiglia più ricca e potente della zona, da qui sino quasi a Como era tutta roba loro, del nonno. Anche lui…»
«Che tipo era?» E poiché si accorse che stava esitando, gli mise una mano sulla spalla. «Se si può raccontare».
«Quello del quale si parla e si sparla è il padre di queste, Matteo Clerici. Il nonno era ricco e potente. Una brava persona, così si racconta. Aiutava la gente, dava lavoro… Rispettava anche i poveri. Il figlio, qui lo chiamavano il principe. Io non l’ho conosciuto, quando sono arrivato era già morto in un incidente in Francia…»
«Che cosa faceva di così strano questo principe?»
«Donne, soprattutto. E affari».
«Ma che storie sono? Era ricco e qui aveva una moglie…»
«Sì, io non l’ho conosciuta. Dicono che fosse malaticcia. Si racconta che il marito aveva vissuto qualche tempo all’estero, comunque fuori di casa. Due delle tre figlie sono sicuramente della moglie, ma una no…»
Max Gilardi riuscì a ridere. Intanto la macchina si era fermata davanti a un gran palazzo, il palazzo della questura. «Siamo arrivati» disse D’Urso, spegnendo il motore.
«Un momento, non vorrai lasciarmi con il racconto a questo punto. Come sarebbe che una delle tre non è figlia di sua madre… Di solito è il padre incerto…»
«E questa volta no. Il padre è arrivato a casa con la bambina appena nata, non ancora battezzata… gliel’ha messa tra le braccia e le ha detto che era figlia sua. Di lui. Infatti le tre sorelle si somigliano, lei si sarebbe accorto guardandole ora se una è diversa dalle altre?»
«Alla luce di questa storia, Elena, direi. Era anche la più amata dal padre».
«Può darsi, ma qui nessuno lo sa con certezza. La bambina è stata battezzata e iscritta all’anagrafe come le sorelle. Quale delle tre? Qualcuno dei vecchi si confonde sulle date di quando hanno visto la madre incinta. La storia se la raccontano, qualcuno dice la seconda, qualcuno dice la terza, ognuno dice la sua… ma nessuno sa niente di preciso, la madre stava sempre chiusa in casa. La carrozzina era sempre la stessa, fatta venire da Londra. Anche i bavaglini e i vestitini, con quella E uguale per tutte e tre. Battezzate in chiesa, la madre sempre malaticcia e sofferente. Il dottore che l’aveva in cura fu trasferito a star meglio in una clinica vicino a Roma, e questo gli ha chiuso la bocca, sino alla morte».
«Ma ha dovuto dichiarare il parto, l’ora, il luogo…»
«Sui registri è tutto regolare. Non so altro e qui non c’è nessuno che ne sappia di più. Qualche vecchio si ricorda di averne sentito parlare, ma cambiano discorso come se temessero il malocchio. Anche di questo si parla».
«Di malocchio? Ma sono pazzi?»
«Quelli che hanno voluto saperne di più, in un modo o nell’altro sono morti. Il dottore più anziano, che ora ha novant’anni, dice che sono tutte sciocchezze, lui ha visto nascere tutte e tre le sorelle. Madre e padre gli stessi. Ma altri vecchi raccontano di un’improvvisa agiatezza di questo dottore, che si è ritirato dall’ospedale ed è passato… a vita privata. Non so altro».
Scesi dalla macchina, si avviarono a passo svelto verso il portone che un agente stava chiudendo. Il giovanotto scattò sull’attenti.
«Riposo… c’è ancora qualcuno?»
«Sì, signor commissario. Ci sono i due avvocati per quel Lazzarini con il vicecommissario Ambrosio… devo avvertirli?»
«No, grazie. Salgo nel mio studio».
Altro scatto sull’attenti, un cenno di saluto e si avviarono verso gli ascensori. «Una bella sede» commentò Gilardi. Dalle finestre del corridoio, alle spalle del massiccio caseggiato, in quella luce del giorno che stava morendo, si indovinavano alberi e case basse con le finestre illuminate. «Molto diversa dalla nostra sede di Trissera, ma te la ricordi?»
«Me la ricordo sì, avvocato. E quella signorina… Olga, quella che è morta ammazzata, l’ultimo nostro caso insieme».
«Che poi non era stata ammazzata da nessuno e ci ha preso in giro tutti quanti, per mesi…»
«Ma se la ricorda? Sa che spesso ripenso a quegli anni? Io ero un pivello, ma lei è stato un grande esempio per noi».
Erano al centro dello studio di Sante D’Urso, commissario. «Smettila, avanti». Guardò l’ora. «Andiamo, altrimenti quelle tre ci lasciano davvero senza cena, peggio di una caserma… Sai che ogni tanto ripenso a Natj, a che moglie straordinaria sia stata, anche per così poco tempo. Ancora non mi rassegno alla sua morte, mi sembra di non aver fatto abbastanza per proteggerla. A volte mi manca, era una presenza nella mia vita e nel mio lavoro che ha inciso molto su di me, sul mio carattere. I ricordi fanno star male ma non sono mai inutili».
Avevano guardato la stanza di Santino D’Urso, il suo ordine meticoloso, i quadri alle pareti, i grafici, le foto segnaletiche, i computer… Il ragazzo di allora che si era fatto uomo, senza rinunciare al carattere e alle sue manie. Stavano ridendo, mentre ritornavano verso gli ascensori.
«Quindi il tuo lavoro ti piace sempre». Santino gli disse di sì, mentre si faceva da parte per lasciarlo passare. «E non pensi a sposarti?» Una lancia in favore di Elisa. Che D’Urso gli spezzò di colpo con la sua risposta.
«Domani la conoscerà, è tornata ieri sera da Londra e mi ha chiesto un giorno per riprendersi dal fuso orario. Domattina ve la presenterò. Forse ci sposiamo in autunno».
«Inglese?» Santino continuava a stupirlo.
«No, romana. Ma sta laureandosi in Diritto internazionale a Londra. Non so come abbia fatto a innamorarsi di me». Gli mostrò una fotografia sul cellulare.
«Bella davvero» commentò Gilardi, mentre D’Urso faceva scorrere altre foto con bacio finale. «Ti suggerisco di dirlo, alle tre sorelle, che domani arriva la tua fidanzata…»
«No, non importa. Non ci fermiamo a colazione. Partiamo subito dopo la cerimonia».
Gilardi sorrideva a fior di labbra mentre prendeva posto in macchina. Gli sembrava di aver intuito che Elena volesse far nascere una storia tra D’Urso e sua sorella Elisa. Che a parte la ricchezza non aveva molte altre attrattive. Non per un ragazzo ambizioso come Santino. Che ora, guardandolo di profilo mentre guidava, gli sembrava persino più giovane di Elisa e sicuramente più interessante.
«Come ti sembrano le tre sorelle?»
D’Urso scosse appena il capo. «Ricche. La migliore è senza dubbio Elena… ma con quella gamba, Dio mio. Ma ci pensa, avvocato: averla a letto con quella gamba… Non so come faccia Carlo».
«L’amore, Santino. L’amore».
«Forse io non ce la farei… Non mi sarei mai innamorato di una donna così. Certo, Carlo ora sta facendo progetti per ingrandire la sua azienda, mette molto fieno in cascina con questo matrimonio…»
«Ma è innamorato di Elena» lo interruppe, scontento di quei commenti che non condivideva.
«Certo, ma credo che molto abbiano fatto i milioni di famiglia. Le due sorelle che non si sposano, è tutta roba di Elena. Lei crede davvero che non abbia influito sulle decisioni di Carlo?»
«Sinceramente credo di no».
«Perché lei non conosce la gente di qui… non ci sono idealisti e disinteressati, qui i loro padri hanno patito la fame. Lo vede anche lei». Erano arrivati e D’Urso stava parcheggiando davanti alla casa di Carlo. «Tranne Villa Dubeca, qui ci sono solo ville andate in malora. E sono sparite le catapecchie dei contadini, qualcosa vorrà significare».
«Secondo te?»
«Padroni poco accorti che si sono fatti fregare. Guardi Carlo, figlio di un boscaiolo ignorante e avaro, ora si sposa la più ricca di tutta la zona. Tra una o due generazioni…»
«Ma Elena ha quarantadue anni, che figli avrà?»
«Ma Carlo sì… si ricordi la storia del padre. Le storie si ripetono… le storie si ripetono, avvocato». Ora stava ridendo e Gilardi si accorse che Santino non gli era più così simpatico come quando era giovane e aveva ideali da condividere.
«Auguri» disse a denti stretti. Spinse il cancello e iniziò a salire le scale.
Al termine della cena, mentre stavano trasferendosi in salotto, Massimo Gilardi mise una mano sulla spalla di Santino. «Domani il nostro commissario ci presenterà la sua fidanzata, appena arrivata da Londra».
«Oh, ma perché…» Era chiaro quello che avrebbe voluto dire Eleonora, che invece si ingarbugliò.
«Perché non è venuta a cena? Ci dispiace…» intervenne Elena.
«È appena arrivata da Londra, era stanca. Naturalmente verrà domattina alla cerimonia, poi ripartiremo subito dopo per Roma. Io avevo avvertito Carlo che non ci saremmo fermati a colazione…»
«Londra?» domandò Elisa. E rivolta a Carlo, al quale non riusciva ancora a dare del tu: «Poteva dircelo… ci dispiace».
Santino si inchinò un po’ goffamente davanti a Eleonora. «Grazie, baronessa».
«La conosceremo domani e sarà un piacere…» Per dire che la questione, che considerava cosa di poco conto, finiva lì.
Mentre stavano coricandosi in quel letto massiccio come un altare, Gilardi le fece la domanda che aveva rimandato per tutta la sera.
«Ti sembrano sorelle, queste tre?»
Olga scosse la testa. «Che domanda è?»
Le raccontò i discorsi di Santino. «Quale delle tre, secondo te?»
Olga sprimacciò i cuscini di piuma e se li accomodò dietro la testa. «Io non credo a questa storia, ma se fosse vera, e ne dubito, direi Elena. È sicuramente diversa dalle altre. Ma se il padre è lo stesso, dubito fortemente che ci siano differenze tali da distinguerle. Hai visto il ritratto di famiglia nel salone, somigliano tutte e tre al padre e al nonno. Hanno la cosiddetta impronta di famiglia. Io somiglio a mio padre e le mie sorelle a mia madre. Tu hai preso dal tuo nonno materno, dalle foto sei tale e quale a lui: alto, biondo, bello. Non riesco ad avere dubbi su queste tre. Comunque la migliore… è sicuramente Elena. Ma è soprattutto quella che ha avuto una vita diversa: le gare, i viaggi, un mondo là fuori da questo castello decrepito. Ha vissuto…»
«Sempre con suo padre. Ti chiedi come mai?»
«Perché era la figlia dell’amore?» lo canzonò Olga. «Più semplicemente perché amava i cavalli e vinceva le gare. Oltre all’amore mettici l’orgoglio paterno, non mi sembra strano».
«Certo, sono ragioni più che sufficienti per riconoscersi in una figlia».
«Vuoi dire che mio padre mi amava perché sapevo mungere le mucche? Ha molto amato anche le mie sorelle, così diverse da me. Era orgoglioso di noi, di tutte e tre. Credo che la stessa cosa sia stata per Elena. Erano tutte e tre figlie sue, se la storia è vera. Perché avrebbe dovuto amare Elena più delle altre due?»
«Perché era la figlia dell’amore. Forse ha amato sua madre più di Elisabetta».
«Forse in un romanzo di Liala. Dubito che un uomo come quello, così come ce l’hanno descritto, sia stato capace di amori violenti e duraturi. Elena, delle tre, è stata la figlia che gli somigliava di più, e quella che ha pagato molto cara la propria passione. L’ha amata anche per quello, non è così difficile da immaginare. Comunque io non credo a questa storia. Ma ti rendi conto? In un paese di seicento anime, una storia così sarebbe scritta sui muri. I documenti, i medici, gli addetti comunali… li ha fatti tacere tutti? E la Elisabetta che se ne andava in giro… almeno in chiesa la domenica, senza pancia, e poi in una notte ti sforna una bimba forte e grassottella, piovuta dal cielo. Avanti, Max: Santino è proprio il tipo al quale garbano queste storie un po’ oscure, lui ci campa».
«Ma c’è dell’altro… Elena ha quarantadue anni, me l’ha detto Aurora quando mi ha convinto a venire qui per fare da testimone. Eleonora ne ha quarantacinque e Elisa trentasette… Sai che cosa significa?»
«No, francamente».
«Se Elena è la figlia diversa, una bambina di tre anni non è in grado di accorgersi che sua madre non ha la pancia, che non l’allatta…»
«Mentre se la figlia diversa fosse Elisa, a otto anni Eleonora potrebbe aver notato qualche stranezza, sfuggita invece a Elena che aveva tre anni. Magari l’arrivo di una balia. Magari che il padre carica in macchina la moglie e la figlia e le conduce al mare o in un altro posto qualsiasi per rendere plausibile quella nascita… Insomma, a sei anni forse certe cose si capiscono. Questo ragionamento lo condividi? Ti sembra plausibile?»
«Direi di sì, ma con tutti questi numeri mi stai confondendo. Sembra una delle tue partite di scacchi: la famosa mossa del cavallo, che va bene avanti o indietro. Questo ragionamento fa supporre che la figlia diversa sia Elena. Che a me non dovrebbe sembrare tanto strano, se guardo casa mia… Le gemelle sono bionde e esili come canne, io sono bruna e forte come mio padre. E a casa nostra non ci sono dubbi, siamo tutte figlie degli stessi genitori, io mia madre con la pancia me la ricordo, eccome… Ma non saranno tutte fantasie del tuo amico Santino?»
Gilardi si aggiustò i cuscini e si coprì le spalle con la coperta. Non faceva caldo. «E la fidanzata arrivata da Londra?» domandò, con quel sorriso un po’ beffardo che Olga conosceva.
«Anche questa è proprio da lui. E mentre tu stavi raccontando alla famiglia questa bella sorpresa, ti è sfuggito lo sguardo tra Elena ed Eleonora… credo che si fossero messe in testa di far frequentare Santino a Elisa. La fidanzata chi è? Come nasce?»
«Come nasce non lo so, è di Roma e sta laureandosi a Londra in Diritto internazionale».
«Scoprirai che suo padre è un onorevole o un deputato del partito al governo».
«Insomma, Santino non ti piace».
«Sì, invece. Perché ti ammira e ti è riconoscente. Ma è ambizioso e un po’ stronzetto…»
Ora stavano ridendo, tenendosi stretti sotto le coperte.
«Elena va a letto con Carlo».
«Te l’ha detto lei?»
«Sì… ma mi ha detto che dormirà da sola perché si vergogna della sua protesi».
«Fanno l’amore, poi lei dorme da sola perché si vergogna della protesi o della sua gamba amputata… Forse lei russa ed è di questo che si vergogna, lo capirei di più… Ehi, signora…» Le mise una mano sul seno e l’accarezzò adagio, sfiorandola con le labbra. «Non abbiamo mai fatto l’amore in un letto come questo».
«Dici che…»