SEDICI
Tornarono sotto il portico. Max Gilardi si
rimise a sedere sulla poltrona e allungò le gambe.
«Mi trovi il numero di quel tale che vi ha
sistemato la casa?»
«L’aveva già finita da un pezzo, lui che
cosa c’entra?»
«Fallo giudicare a me. Vi ha rifatto le
porte e le serrature?»
«Sì, sono serrature tedesche, hanno un
numero di matricola, non si possono contraffare o replicare».
«Bene, fammelo spiegare da lui: mi dai
questo numero?»
«Sì, aspetta…» Manovrò il suo cellulare e
fece scorrere i numeri della rubrica. «Eccolo, l’ho chiamato quando
ho saldato le fatture. Si chiama Matteo Rosi… 004191…»
«Che razza di numero sarebbe?»
«Lugano, la ditta è di quelle parti, noi ci
siamo capitati grazie a una pubblicità che abbiamo trovato nella
cassetta delle lettere. A Elena erano piaciuti alcuni mobili
fotografati… Tutto molto per caso… E questo è il numero, hai
scritto?»
Fece di sì, con il capo: stava già
chiamando.
«Matteo Rosi? Sono l’avvocato Massimo
Gilardi».
«Sì, avvocato».
«Sarebbe possibile incontrarla e
parlarle?»
«Se è per la casa Orsi che abbiamo sistemato
mi hanno già interrogato per le chiavi. Ho potuto dimostrare che il
numero delle chiavi immatricolate…»
«Sì, immagino che sia tutto regolare… volevo
fare due chiacchiere con lei, se fosse possibile. Sono a casa Orsi,
al massimo posso raggiungerla io quando…»
«Io sono a Como in casa del dottor De
Vincenzi. Se preferisce posso salire, tra meno di un’ora posso
essere lì, qui ho quasi terminato».
«Grazie, è gentile. L’aspetto. Io sono
Massimo Gilardi, l’avvocato…»
«Sì, so chi è lei. A tra poco». E chiuse la
comunicazione.
Sapeva chi era. Come mai sapeva che era
l’avvocato che si stava occupando di Carlo Orsi per l’assassinio di
sua moglie Elena? Come mai era così informato?
‘Ecco una cosa che vorrei proprio sapere’
pensò.
E che gli domandò, appena l’ebbe di fronte
con il suo viso severo, il ciuffo di capelli castani e grigi sulla
fronte, la bella giacca di camoscio: che domandò il permesso di
togliersi.
«Prego». Una stretta di mano, poi seduti
insieme uno di fronte all’altro davanti al tavolo della veranda
dove Carlo Orsi li aveva lasciati soli.
«Il paese è piccolo e questa è stata una
tragedia che ha toccato tutti. Qui non è mai capitato niente di
così tremendo. Sapevo che mi avreste interrogato sulle chiavi. È la
prima cosa alla quale si pensa quando si presume che un estraneo
sia entrato in casa. Queste sono chiavi a numero chiuso,
immatricolate. Per la signora, su sua richiesta, ne ho fatte
immatricolare due a nome loro e una a nome ‘Eleonora’, la sorella
credo. Sono serrature inviolabili e sono state installate da
personale dell’azienda: quindi nessun estraneo poteva avere quelle
chiavi e nessuno poteva entrare senza quelle chiavi».
«Chiarissimo. Come mai ha regalato alla
signora una specchiera considerata preziosa dalla baronessa, che se
ne intendeva? Non le è sembrato un regalo eccessivo?»
Matteo Rosi fissò Gilardi a lungo prima di
rispondergli. Con un’altra domanda: «C’è qualcosa di sbagliato in
un regalo che mi sembrava adatto alla signora e al mondo dal quale
veniva?»
«Ho detto eccessivo». E gli sorrise. «La
domanda allora è un’altra: Elena Orsi le piaceva?»
Matteo Rosi alzò la testa con un gesto
rapido e improvviso. «Mi sta chiedendo se le facevo la corte? Se
ero innamorato di lei? È questa la domanda, avvocato?»
«Per esempio…»
«E l’avrei uccisa perché non potevo averla?»
Stava ridendo a labbra strette. Scosse appena la testa e guardò la
bottiglia di cognac e i due bicchieri che erano rimasti sul tavolo.
«Mi scusi, posso averne due dita? Ne avrò bisogno».
«Aspetti… i bicchieri sono in quel mobile».
Fece l’atto di alzarsi, ma Matteo Rosi lo fermò con un gesto. «Non
importa, va bene anche qui». Versò due dita di cognac nei due
bicchieri con un gesto sicuro: non gli tremava la mano, notò
Gilardi. Che prese il bicchiere, lo sollevò appena e bevve un
sorso. Si stupì di pensare che gli piaceva quell’uomo che aveva di
fronte, come se lo conoscesse da sempre. Come se l’avesse visto in
un altro posto. E lo avesse visto ridere.
Aspettò che Matteo Rosi posasse il
bicchiere. Aspettò che facesse una smorfia, poi un sorriso.
«Io amavo Elena… era mia sorella».
«Come ha detto?»
«Mi ha sentito, e so che questa storia la
conosce anche lei. Elena era la mia gemella».
«Elena lo sapeva?»
«No... Perché avrei dovuto portare
confusione nella sua vita, parlarle di un’altra madre, la nostra,
di questo fratello che un po’ le somiglia e che somiglia anche a
suo padre?»
«Forse Elena avrebbe voluto saperlo».
«Perché? Era felice. Somigliava molto a
nostra madre». Dalla tasca interna della giacca trasse una busta
trasparente e dalla busta una fotografia in bianco e nero di una
donna giovane e bellissima in una risata che esprimeva felicità e
intelligenza.
«Questa era mia madre».
«Infatti somiglia a Elena. Ora che la guardo
meglio, anche lei me la ricorda».
«Rosi è il cognome di mia madre, l’unica
cosa che nostro padre le ha chiesto. Per il resto è stato generoso,
in soldi, case, gioielli. Amava mia madre. Io ho potuto studiare e
comperare questa azienda con quello che mi ha lasciato lui. ‘Il mio
unico figlio’ mi diceva. Penso che intendesse maschio, perché amava
le sue ragazze. Io ho continuato a seguire Elena di nascosto. Le
gare, le medaglie, la caduta… il matrimonio con Carlo Orsi e io
pronto a rifarle la casa, come l’abbiamo voluta noi due, insieme.
Sì, io ho amato Elena. Mia sorella». Alzò la testa verso Gilardi.
«Posso averla uccisa io? C’è una sola ragione plausibile per un
gesto simile?»
«Di solito non cerchiamo gesti plausibili.
L’ha uccisa lei?»
«No, avvocato. Non avevo nessuna ragione al
mondo per farlo, ma quella notte io ero a Londra e non ero solo».
Dalla tasca posteriore dei calzoni prese il portafogli di cuoio
naturale ed estrasse un foglietto ripiegato, un conto d’albergo. Lo
aprì e lo mise steso davanti a Gilardi. «Ecco… ero a Londra per
lavoro e questa nota mi serve per l’amministrazione».
«Lo tenga stretto, glielo chiederanno. È
quasi normale pensare a lei che ha rifatto le serrature e conosceva
la casa. Ha deciso di dire anche alle sorelle e a Carlo la sua
verità?»
«Elena, ringraziandomi per la specchiera, mi
ha detto che Eleonora l’ha trovata bella e preziosa, come quella
che era in camera della loro madre. Era quella. L’aveva regalata
lui a mia madre perché potesse specchiarsi, lei bellissima in uno
specchio prezioso. Mio padre aveva di queste idee. Amava mia madre
e ha amato, a modo suo, anche me. Dubito fortemente che Eleonora
non conosca questa verità. Sono sicuro che sua madre gliel’abbia
detto. Magari soltanto per creare un solco tra lei e Elena, che era
figlia soltanto a metà».
«Si amavano molto».
Matteo Rosi fece di sì, con la testa,
alzandosi. «Difficile non amare una donna come Elena… difficile, ma
a volte… Mi scusi, avvocato, c’è altro che vuole sapere da
me?»
«No, grazie». Si era alzato. «Chi era sua
madre?»
«Una puttana… lo dico con orgoglio e senza
imbarazzo. Quando ha incontrato Matteo Clerici aveva ventidue anni.
Lui se ne è innamorato, le ha costruito una casa e una vita
decorosa intorno. Ne ha fatto una donna felice, sì… anche
rispettabile. Al funerale di mia madre c’era l’intero paese e noi
due, lui e io. E abbiamo pianto insieme. Il principe e
l’architetto: lui che non era principe e io che non ero architetto.
Dopo ho smesso di mentire. Mio padre si è rinchiuso in casa, io ho
iniziato a lavorare. Non ci siamo più rivisti, ma al suo funerale
io c’ero. Credo di averle detto tutto».
Ora erano in piedi, uno di fronte
all’altro.
«Perché non gliel’ha mai detto?»
«Non ero sicuro che per lei non fosse una
complicazione… In un paese come questo, una storia come questa…»
Gli sorrise.
«Guardi che sulla stranezza di questa terza
sorella qui ne hanno parlato tutti. Sono sicuro che Elena sarebbe
stata felice di avere un fratello come lei!»
«Anch’io… Una cosa così all’improvviso,
inaspettata… Si rende conto di che cosa ho provato quando l’ho
avuta di fronte… la voglia di dirle ‘ciao’… Semplicemente ‘ciao’,
come fanno i bambini. E ricominciare, ridendo insieme, questa
storia, che era la nostra. Mia e sua. Io ho sempre saputo chi era.
Mia madre aveva sue fotografie in tutta la casa, le ritagliava dai
giornali. Quando ho saputo che si sposava, ho avuto voglia di
incontrarla: le ho messo nella cassetta della posta a più riprese i
nostri dépliant. Ero sicuro… non mi chieda perché, ma ero sicuro
che i miei mobili le sarebbero piaciuti. Dovevamo per forza avere
gusti uguali, siamo gemelli…»
Lo guardò, stava ridendo. «O no? Continuerò
a volerle bene. Continuerà a mancarmi». Fece una pausa breve.
«Vado, grazie». Era commosso e non se ne vergognò.
Si strinsero la mano. «Immagino che lei
conosca la strada».
«Sì, grazie. Scendo dal parco, ho lasciato
la macchina qua sotto. Buonasera, avvocato».
Quasi di corsa, muovendo alte le braccia
infilò la giacca e attraversò il prato in discesa che conduceva al
punto in cui avrebbe dovuto esserci la piscina. Saltellando tra
sassi e rovi, da un punto all’altro, Matteo Rosi scomparve.
Come quel giorno.