VENTI
Appena in camera, accese il computer, cercò
la foto e controllò le chiamate sul cellulare, ascoltando
contemporaneamente al di là della porta chiusa i passi e le voci
sommesse delle due sorelle che stavano raggiungendo le rispettive
camere.
Olga capì dal tono che stava inseguendo
un’idea. «Tutto bene?»
«Sì, ti salutano. Domani forse… insomma ti
chiamo».
«Certo. Buonanotte, amore». Sapendo che
probabilmente per Gilardi non sarebbe stata una buona notte.
Salvò la foto che aveva trovato e chiamò
Carlo.
«Sì… sono io. È successo qualcosa?»
«No, sei a letto?»
«In studio, stavo lavorando».
«Possiamo vederci?»
«E come?»
«Vengo da te, aprimi i cancelli. Scendo a
piedi, spero di riuscire a venir fuori da questa prigione, ci sono
più porte e scale che nel castello di Chambord…»
«Lo diceva anche Elena».
Gli parve di capire che stesse sorridendo.
«Vienimi incontro».
«Arrivo…»
Carlo non gli aveva chiesto che cosa ci
fosse di così urgente. Strano.
Si toccò la tasca della giacca, non aveva
dimenticato la pistola.
Nell’atrio incontrò Stefano, il vecchio
maggiordomo.
«Signor avvocato, posso fare…»
«Sì, grazie. Può aprirmi tutte le porte e i
cancelli? Devo uscire».
«Posso fare…»
«Soltanto questo, grazie. Forse può
aspettare il mio ritorno per farmi rientrare».
«Certamente, signor avvocato».
«Come faccio per avvertirla senza svegliare
l’intero palazzo?»
«Suoni qui, signor avvocato». E gli mostrò
un campanello rosso, a lato della porta di servizio. «Questo suona
in cucina, e io sono lì. Sino a tardi, signor avvocato, non si
faccia scrupolo. Per servirla».
«Grazie… Stefano?»
«Stefano, sì. Per servirla».
Trovò Carlo alla fine della scalinata verso
la strada. «Eccoti. Grazie».
«Che cosa succede?»
«Sei preoccupato?» gli chiese
sorridendo.
«No, e di che? Sono sorpreso. Ormai non mi
preoccupo più di niente. Mi scrivono dall’America che la collezione
è andata bene, ottimi ordini, due esclusive… e Elena non c’è
più».
«Coraggio… vediamo di uscirne. Hai
l’ora?»
Carlo allungò il braccio e scoprì al polso
sinistro un Rolex con un cinturino di metallo. «Le dieci e
quarantacinque».
«Grazie».
Entrarono in casa, Carlo aveva lasciato le
luci accese. «Dove vuoi andare?»
«In cucina, così mi fai un caffè».
In cucina Gilardi appoggiò sul tavolo
computer e cellulare, Carlo si avvicinò alla macchinetta del
caffè.
«Come lo vuoi?»
«Che sappia di caffè, per l’amor del cielo.
I vostri caffè sembrano acqua sporca».
«Te lo faccio forte».
«E sentiamolo…»
«Intanto mi dici che cosa ci fai di notte in
giro per il paese?»
«Venivo da te».
«Lo vedo… ecco, prova questo caffè, lì c’è
lo zucchero ma tu non lo metti».
«Per guastarlo?» Un sorso, poi un altro…
«Buono, bravo. Meglio tu della Beppa. Sta dormendo?»
«Sì, da un pezzo. Sta alzata soltanto se io
sto qui. Vuoi anche lei?» Gilardi gli ripose con una smorfia.
Si diressero, come se fosse normale, verso
la veranda. Passando davanti alla camera sigillata di Elena,
Gilardi evitò di guardarla.
Si sedettero entrambi sul divanetto, Gilardi
appoggiò sul tavolino il computer e lo aprì. Aprì la foto, la
ingrandì, poi girò il computer verso Carlo.
«Ti ricordi questa foto?»
Carlo girò la testa e chiuse gli occhi.
«Gesù, sì… me l’hanno mostrata e continuano a farla vedere e
rivedere in televisione… Che cos’ha questa foto?»
«È il tavolino basso che era vicino al letto
di Elena, quella notte. Non è per una questione di arredamento, ma
non era un comodino classico. Questo è un tavolino basso accostato
al letto. Era così?»
«Sì, come sempre».
«Ora guarda che cosa c’è sopra: anche questo
è come sempre?» Ingrandendo le varie parti del tavolino gli
mostrava le due fotografie nelle cornici d’argento, il lavoro con i
tre ferri infilati nelle maglie, la lampada alta e stretta di puro
design moderno, al centro l’orologio, con il bracciale d’oro e
brillanti.
«Tutto normale, come sempre?»
«No, quello no».
«Che cosa, no?»
«L’orologio. Non è di Elena
quell’orologio».
«Scusa…» Gli ingrandì sullo schermo quella
porzione di fotografia dove era inquadrato il solo orologio, posato
al centro, tra il libro e le foto. «Sei sicuro? Hai visto questa
foto decine di volte e non ti sei mai accorto che quello non è
l’orologio di Elena?»
Carlo si portò una mano alla fronte. «Ho
sempre cercato di non guardare quella foto, ti rendi conto? Come
fai a non pensare che erano le ultime cose che ha toccato, che ha
guardato… No, non me ne sono mai accorto e non so di chi sia né
perché fosse lì».
«Prima di sapere di chi è quell’orologio,
cerchiamo quello di Elena. Sai dove potrebbe essere?»
«No, non ci ho mai pensato».
«Allora: che tipo di orologio portava
Elena?»
«Questo» e gli mostrò il Rolex che aveva al
polso.
«Questo era l’orologio di Elena?»
«Sì, portava questo orologio pesante e
maschile quando faceva le gare. È stato il primo regalo che mi ha
fatto. Se l’è tolto dal polso e mi ha obbligato a portarlo.
Qualcosa di me…»
«Elena non aveva un orologio da
polso?»
«Sì, ma non era quello della foto. Lei
portava l’orologio di suo padre. Quello non era da lei, troppo oro,
troppo sofisticato… brillanti al posto delle ore… accidenti!»
esclamò, portandosi una mano alla fronte. «Sto perdendo la
testa».
«Tientela salda, la testa, perché mi serve.
Era lì, quell’orologio, quando sei entrato in camera di
Elena?»
«Sì… l’hanno fotografato quelli della
polizia, era lì».
«Sei sicuro?»
Carlo, che si era completamente piegato con
il busto in avanti, alzò appena la testa per guardarlo. «Mi vuoi
far uscire pazzo? È questo che vuoi? Certo che era lì, l’ha
fotografato la polizia… non penserai che ce l’abbia messo io. Non
l’ho mai visto quell’orologio».
«Non ce l’hai messo tu, su quel
tavolino?»
«Ma no, come te lo devo dire…»
«Pensaci, Carlo: non ce l’hai messo tu, su
quel tavolino?»
«Nooo…»
«Cerca di ricordare, Carlo. Magari era in un
altro posto, l’hai preso e l’hai messo tu su quel tavolino. Dal
principio, prova a ricordare. Sei entrato in camera di Elena con un
fiore…»
«Sì, questo me lo ricordo. Ho visto… e mi
sono inginocchiato urlando, e… sì, ecco». Fu quasi un urlo. «Sì,
quell’orologio era in terra, vicino al letto. L’ho preso e forse
l’ho messo io sul tavolino… Sì, era in terra ma non mi
ricordo…»
«È quello che hai fatto. Quell’orologio che
non era di Elena, l’hai trovato in terra dove ti sei inginocchiato
e l’hai messo a casaccio sul tavolino. È andata così?»
«Sì, è così. Ora mi ricordo, l’ho quasi
gettato sul tavolino. Non è l’orologio di Elena, non è il suo… E
ora il suo dov’è?»
«Credo tra i suoi effetti personali
all’obitorio… Ti sei mai chiesto perché Elena portasse l’orologio
di suo padre?»
«Perché?»
Gilardi si versò del bourbon in un
bicchiere. Ci pensò un attimo prima di dire: «Era lei la terza
sorella».
«Vuoi dire che…»
«Era figlia dello stesso padre ma non della
stessa madre».
«Eppure le sorelle la trattavano come una di
loro, anche con l’eredità».
Gilardi gli porse il bicchiere. «Bevi, ne
hai bisogno».
Carlo si alzò, stirando le braccia. «Non sai
quante volte hanno pubblicato e trasmesso quelle foto, sono senza
vergogna. Ma tu come hai fatto?»
«Fortuna». Alzò leggermente il bicchiere
verso di lui. «E ora il mestiere più difficile, prendere
l’assassino. Ma questo è un mestiere che lascio alla
polizia».
«Dio mio, scusami… ti ho odiato, pensavo che
volessi incastrarmi, che mi ritenessi colpevole».
«Non sono così pazzo» e gli sorrise. «Bevi,
ne hai bisogno. Ora mi riaccompagni al castello e io chiamo la
polizia. Un po’ d’aria ti farà bene».
«Credi a quello che ti ho detto, vero? Non
me lo ricordavo quel gesto, ero talmente fuori di me, stavo
urlando. Sì, ora me lo ricordo. Era proprio in terra di fianco al
letto, mentre non sapevo come prenderla, volevo abbracciarla… ho
preso quell’oggetto senza pensarci… non mi sono chiesto che cosa
fosse, l’ho preso e l’ho messo a casaccio sul tavolino. Non mi sono
fatto domande, non ci ho pensato. E ogni volta che ho rivisto
quelle foto non ho mai pensato di essere stato io a mettere
quell’orologio in mezzo a quegli oggetti. Ho dovuto resistere alla
tentazione di togliere quel ferro dalla sua gola, non l’ho toccato,
ho capito che era morta. Non hanno trovato impronte, com’è
possibile? Ci vogliono due mani e molta forza. Neppure
sull’orologio, eppure l’ho preso con tutta la mano».
«Hanno dato per scontato che fosse stato
messo lì da Elena».
Carlo andò alla finestra e socchiuse le
tapparelle. «È notte» disse. «Come fai a sapere che era lei la
terza sorella? Non lo sa nessuno».
«Nessuno ha una collaboratrice paziente e
scrupolosa come ce l’ho io. Si chiama Laura Licasi, avvocato. Mi ha
scritto: ‘è Elena’. E so che ha ragione, io d’istinto l’ho sempre
saputo».
Non volle coinvolgere Matteo Rosi. Da quando
era venuto a conoscenza di quella storia, l’aveva sempre
sospettato. Sempre saputo.
«Come fate a esserne così sicuri? Non ci
sono documenti, niente. E le due sorelle l’hanno sempre trattata
come una di loro. Le hanno assegnato una terza parte di tutto, sono
io che non ho voluto niente. Io ho amato Elena come non riuscirò
mai ad amare una persona in questo mondo. Lei è morta, ma io non
sono più vivo».
«Mi servi vivo e lucido, invece. Poiché non
ci sono testimoni né indizi precisi, non dovremo permettergli di
vincere. Hai un’arma?»
«Addirittura? Certo che ho un’arma, sono un
cacciatore. Ma ho anche una rivoltella e un regolare porto
d’armi».
«Bene, tienitela a portata di mano».
«E tu?»
Gilardi gli mostrò la pistola che aveva in
tasca. «Prendo anche la mia e ti accompagno».
Mentre camminavano lentamente verso il
castello, sentirono i rintocchi al campanile della chiesa: era
mezzanotte.
Gilardi premette il campanello rosso, sentì
lo scatto della porta, i passi. Poi la figura del maggiordomo sul
cancello.
«Signor avvocato».
«Mi dispiace, Stefano: ho fatto
tardi».
«Non vado mai a letto prima, signor
avvocato. Dormono tutti».
«Grazie». Si girò verso Carlo e gli batté
una mano sulla spalla. «Ce la fai a dormire un po’ anche tu?»
«No, ma non è importante. Questa sera per la
prima volta ho sentito che lei era lì, con noi. La terza sorella».
Si girò e gli sorrise. «Quanto l’ho amata…»
Si salutarono sui primi gradini della scala
e Gilardi lo guardò ridiscendere per la strada che lo riportava a
casa.
Appena in camera chiamò D’Urso. Poche
parole, in fretta. Tra di loro era facile capirsi. «Sì, sto
guardando sul mio tablet… Dio mio, ha ragione… l’abbiamo analizzata
da ogni parte… avverto il procuratore e arrivo».
«Non è necessario fare riferimento a
me».
«Grazie. Arrivo».