STORIA DI LUISA VIII
Ma perché spesso le cose sembravano dar ragione alle sue fobie, quelle di cui alla fine pure lui sembrava essersi un po’ vergognato, se non ne parlava quasi più... Talvolta, pensando a suo padre e a sua madre – e, con una piccola morsa al cuore, a sé stessa – Luisa immaginava come dovevano essersi sentiti Adamo ed Eva e i loro discendenti usciti dall’Eden, faticosamente avviati a errare, a desiderarsi e fuggirsi, amarsi e ferirsi. Era forse quello il peccato originale – ma compiuto da chi, se i progenitori si erano amati anche quando insieme avevano trasgredito, come diceva il Midrash? Chi e che cosa aveva condannato gli uomini e le donne, quasi tutti, a non conoscere quell’Eden dell’amore, quell’esistenza condivisa, e a vagare così spesso soli anche quando camminavano insieme? Gli amanti, lo vedi, non sanno – ripeteva fra sé quel verso fatale di Rilke – che un bacio distrugge l’incanto, che allora incomincia l’inganno. E pure quel bacio era anche ogni volta l’incanto – così era stato alcune poche volte per lei, storie diverse che col tempo sfumavano una nell’altra come le estati negli anni.
Il bacio, i corpi felici e per qualche attimo indistinguibili; talora addormentarsi insieme ancora allacciati e compenetrati l’uno nell’altro, era felice di assopirsi subito dopo sentendolo ancora dentro di lei fremere e attutirsi a poco a poco ma non del tutto, almeno non prima che entrambi si lasciassero andare a un breve sonno felice in cui l’amore continuava dolce e tenero dopo la dolce e tenera violenza, continuava quasi per conto suo, loro già ignari nell’abbandono del sonno. Quel bacio, quel precipitare aggrovigliati in un mare oscuro e ardente erano ogni volta la fine e l’inizio del tempo, la grande distesa ora estiva in cui, risvegliandosi e riprendendo consapevolezza poco dopo, sembrava di nascere. No, quel bacio nella camera in penombra o, come una volta, sulla terrazza bruna in una notte buia in cui non poteva penetrare alcuno sguardo, non era l’inganno, non era la fine dell’incanto; era il suo sbocciare, una nuova creazione.
Ma anche la creazione, che pure era sembrata buona al suo artefice appena uscita dalla sua mano, aveva cominciato presto, assai presto, a inselvatichirsi e a inaridirsi e, come stava scritto, a gemere e a soffrire come se la nascita non fosse ancora veramente avvenuta ma stentasse a farsi largo fra i dolori, più vicina a soffocare che a vedere la luce. E fra lei e l’altro, gli altri che quasi si fondevano in un’unica figura, era presto sopravvenuta ogni volta un’imbarazzante mescolanza di estraneità e vicinanza, il goffo impaccio di chi ha tante cose da dire ma ha difficoltà a dirle e vorrebbe, dovrebbe, deve nascondere queste difficoltà che pure legge anche nel volto e nei gesti dell’altro, nel suo sforzo di dissimularle che lo rende ancora più straniero. Sì, ogni creazione è ancora l’ultima di quelle trentasei sbagliate, di cui diceva il Talmud, e la necessità di tacerlo, anzitutto a sé stessi, era l’inganno creato da quel primo bacio felice, che così spesso trascinava con sé cadute, disinganno e dolore.
Come era più libero e spontaneo, vergine nella sua ironica consapevolezza della partita perduta, il rapporto fra gli ex, che si amano ancora ma in un altro modo, che non fa male, perché sanno di non poter amare veramente, di essere due fiumi che non sfociano l’uno nell’altro né nello stesso mare bensì si divaricano, senza fingere di confondere le loro acque e il loro corso, ma con una familiarità profonda e vera perché non ha bisogno di fingerne un’altra diversa. L’amore che si allontana, che si è già allontanato, è vero amore, perché limitato e consapevole di quei limiti, di non poter varcare la reciproca lontananza e solitudine, eppure memore e custode per sempre di quel bacio che non è più possibile e che racchiude un’incancellabile verità di entrambi.
Sì, è allora, è con quel primo bacio che inizia l’inganno o almeno era stato così per lei. Non per suo padre e sua madre. Non voleva neanche pensare che fosse solo mancato loro il tempo della consunzione, che il wind shear sulla pista di Aviano fosse arrivato più veloce dell’estraneità, e non solo perché il loro amore le sembrava costituzionalmente immune da ogni estraneità, un corpo che per qualche rara combinazione chimica non conosce quel bacillo e quel contagio. Non riusciva a immaginare suo padre e sua madre come due ex. La sola idea la faceva ridere; sarebbero stati ridicoli in una parte per cui non erano tagliati e si divertiva a immaginarli goffi e fuori posto. Per loro l’amore reciproco – la passione, la tenerezza, la complicità – era l’habitat di un animale, l’unico in cui possa vivere. L’uccello Malfinì, in quell’isola di fiori e di luce, passa nell’aria come la nota di un canto che si leva dai boschi, quando zampetta a terra è un maldestro clown.
E invece io sembro nata per quella parte. Amarsi e lasciarsi – non necessariamente amarsi meno di quanto si fossero amati i suoi genitori, ma in un altro modo. Un altro arrangiamento della grande partitura dell’amore, Mozart suonato all’organetto o alla batteria jazz di un bar, altra cosa e la stessa, fitta al cuore che ferisce e si cancella. Ma perché per lei era stato necessario, almeno spesso, lasciarsi per salvare l’amore dall’inganno? Era quasi arrivata a casa, Carlo l’aspettava – era l’unica cosa che potesse ancora fare, aspettare – in quel letto che era tutto il suo mondo, da quando la sclerosi multipla aveva sfondato le trincee del suo corpo. Il letto, una grande zattera bianca che lo reggeva al di sopra dell’opaco fluire del tempo e dalla quale non sarebbe mai più sbarcato o soltanto quando non avrebbe più potuto accorgersi di essere arrivato all’approdo. Il nostro letto? Fra poco, pensava Luisa salendo le scale, sarebbe montata anche lei su quella zattera, per dormire accanto a lui, vicina e lontana, dopo averlo aiutato a mangiare, a lavarsi, a cambiarsi. Cosa faceva, cos’era esattamente lei stesa accanto a lui? Non più la sua donna, non ancora la sua ex; sempre e per sempre la sua donna ma in modo diverso e non perché fra poco non sarebbe stato più possibile dormirgli accanto – sì, vicina, in un altro letto accostato ma che non era, non sarebbe stato la sua zattera. Quella morte che lentamente prendeva possesso di lui era arrivata troppo tardi e troppo presto – ormai Luisa non si scandalizzava più di questo empio pensiero. Troppo tardi ossia quando tra loro stava per finire anche se non era ancora finito e tutto fluttuava in un’indeterminatezza ingannevole, perché entrambi sapevano e non volevano ancora sapere che la fine era ben che determinata e che solo il finire vanamente indugiava, si arrestava, riprendeva.
Se Carlo si fosse ammalato prima, quando erano una sola carne, tutto sarebbe stato diverso – sì, infelicità dolore paura, ma che nulla avrebbero potuto contro ciò che li univa e lei sarebbe giaciuta accanto a lui come sempre, come una sposa, quel corpo che si sfiniva vicino al suo sarebbe stato come il suo, il proprio corpo che non fa mai ribrezzo. Ma il colpo era arrivato quando – Luisa non sapeva perché, non c’è perché in queste cose ed è insensato chiederselo – qualcosa si era spento o almeno affievolito; quel corpo di Carlo era ancora il suo, ma se ne stava staccando anche se non se ne era ancora staccata e non voleva pensarlo. Il male era piombato fra loro quando non erano più una cosa sola e non erano ancora divisi e il loro vivere insieme era un tacito differire ciò che sarebbe successo se non fosse arrivato quel male, perché a Luisa non era neanche passato per la testa di poter abbandonare l’uomo accanto a lei le cui fibre stavano cedendo, sebbene lui lo volesse e insistesse con forza. E così erano insieme ma solo perché non si erano lasciati e dopo aver capito che la loro legge, anche se ora invalidata da quella malattia, era irrevocabilmente quella di lasciarsi.
Ma il colpo era arrivato pure troppo presto, era arrivato prima che si fossero lasciati come era inevitabile e ora non più possibile. Se fosse arrivato quando erano già lontani, Luisa si sarebbe precipitata ad accoglierlo, a stargli vicino in ogni modo e sino all’ultimo, con tutto l’amore che resta dopo la fine di un vero amore, che è sempre amore, anche se diverso ma non meno intenso, breve come tutte le cose ma indistruttibile finché la morte non prende entrambi. Sarebbe stato diverso tenersi fra le braccia senza equivoci né tentennamenti; non l’abbraccio nella pienezza dell’amore, su cui nulla possono lo sfiorire e il deturparsi, e nemmeno l’abbraccio incerto cui s’indulge per differire la fine, ma l’abbraccio di due che si sono amati e dunque si ameranno sempre anche se in altro modo, non meno vero per il cuore.
Ora invece Luisa dormiva accanto a un uomo che non era più l’amante – e non certo per il male che glielo impediva, non era questo ad avere importanza – e non era ancora e ormai non poteva più diventare l’amico in cui si trasforma l’amante – almeno così era accaduto a lei con i tre o quattro uomini della sua vita. C’era qualcosa di impudico e di promiscuo in quella confidenza fisica con Carlo, che continuava perché non aveva avuto il tempo di finire e il cui imbarazzo inquinava anche i gesti, i sentimenti e i pensieri; non la malattia di Carlo s’interponeva fra loro, bensì un disagio, invano taciuto pure a sé stessi, quel sudore che non viene dalla fatica o dalla calura, ma dall’impaccio.
Perché, come mai aveva spento dentro di sé a poco a poco quel fuoco, sacro o maledetto, invece di trasmetterlo come la fiaccola del tempio antico, come il rosso che la sera passa al mattino? Aveva fatto scorrere gli anni in una specie di sospensione, una nuvola che fluisce senza sciogliersi né al sole né in pioggia. Si sentì doppiamente infedele, a entrambi i suoi genitori, cui era stato promesso e ingiunto di essere numerosi come i granelli di arena nel mare e le stelle in cielo e solo obbedendo a quell’ordine erano sopravvissuti alle stive negriere e alla Risiera. Che lui stia vincendo proprio con me, solo con me la sua insensata battaglia, altrimenti sempre perduta? Oppure che tutto debba ancora o sempre cominciare? Quando noi trascoreremo / comincemo a far l’amor, buffo che le venga in mente quella vecchia canzone, pensa scivolando nel sonno, poco lontana ma non vicina al corpo accanto a lei.