47.

Sala n. 31 – Sulla grande parete bianca, di fronte per chi entra, proiezione ingrandita, nella parte superiore, del foglietto strappato per metà, con la mezza faccia. Nella parte inferiore, a sinistra, lo schermo di un computer in cui si cerca di ricostruire – correggendolo di continuo – il volto intero.

Quante volte si era accanito a completare quel disegno ricopiato dal muro nel frattempo imbiancato. Una mezza faccia deve assomigliare all’altra metà; se una guancia è in carne lo sarà anche l’altra, pure con quell’accenno di fossetta. Con le labbra, poi, si è sicuri; è improbabile che d’improvviso, sopra e sotto i molari dell’altro lato, quella mollezza ben curata diventi una mezza bocca franca e decisa. Ci dev’essere una sezione aurea in un viso, un rapporto matematico fra il naso e gli zigomi e nelle distanze fra i lineamenti, anche fra uno sguardo avido e sfuggente e la piega di una bocca. Pure tra la compostezza e l’insinuante crudeltà. Un reticolo di caselle, come nei quiz dei giornali enigmistici; la matita scopre e riempie quelle giuste e il gioco è fatto, nel quadrato bianco e vuoto appare un profilo.

Doveva essersi messo in caccia di quel volto, il volto di un assassino oppure, chissà, di un suo tirapiedi, di un suo complice, di un suo informatore; anche solo di un suo conoscente che non ha fatto niente ma sa tutto e non è neppure imbranato quando gli stringe cordialmente la mano. Il male è una catena di mani che si stringono educatamente; basta afferrare l’ultima, pura di ogni traccia di sangue, come basta dare un calzino al cane addestrato, per arrivare alla prima, che quel sangue ce l’ha ancora sotto le unghie.

Certo non doveva esser stato facile, con quel volto qualsiasi, urbano e generico, la faccia di un ceto sociale più che di un individuo. Con i macellai veri e propri la caccia era più semplice. Di Globočnik sarebbe bastato anche solo un dettaglio, per esempio quel piccolo doppio mento flaccido, sconciamente infantile, per ricostruire la sua faccia. Anche la pancia, il sedere, i polpacci nei marziali stivali. Come te sta, mona de Marieto?, aveva detto ritornando a Trieste, dopo tanti anni, per fare il boia non solo a Treblinka – non sarebbe stato giusto – ma anche nella sua città natale, a un suo amico d’infanzia, l’avvocato Losich. Ma di Globus non occorreva ricostruire l’identikit; di lui c’erano tante fotografie, in uniforme, in ghingheri, a fare il saluto alla truppa o tutto sorridente alla birreria Dreher con uno Stiefel in mano, sino all’ultima, a Paterniano, nella valle della Drava, steso a terra a pancia in su, accanto al muro del cortile del castello dove l’avevano rinchiuso. Per lui non Zyklon B ma acido prussico, la faccia spunta dalla giacca scura coperta da uno straccio bianco e sporco, un lenzuolo o un impermeabile. Anche la faccia è bianchiccia, spugnosa, un pezzo di grasso rancido. Ma chi e perché aveva disegnato sul muro della Risiera quell’altra faccia qualunque?

Era tornato più volte alla Risiera, ma non si vedeva più niente sotto la calce che aveva imbiancato il muro. Era ritornato alla Risiera con una buona lente d’ingrandimento, ma troppo tardi. Ma quella faccia... metterla in giro, appiccicarla dovunque per le strade, wanted, come nei film western. Non poteva dimostrare niente, ma ne era convinto: un detenuto, verosimilmente morto poco dopo, aveva cercato di disegnare... no, probabilmente non il suo assassino, quelli si sapeva chi erano. Forse una spia, un delatore che l’aveva denunciato o uno di quei distinti visitatori che ogni tanto venivano a dare un saluto ai macellai capi, a fissare un appuntamento o un invito per cena. Se era ancora vivo, lo avrebbe trovato.