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Sala n. 18 – Un video trasmette in continuazione il programma registrato nel decennale della sua morte, dal titolo: «Testimone, storico, collezionista o maniaco? Il mistero di una morte e di una vita».
Un uomo piuttosto obeso, seduto al tavolo, davanti a un cartellino con il suo nome, Carlo Fozzi. Giornalista della RAI. Parla passandosi il dito tra il colletto della camicia e il collo, cercando di spianare una mulza di grasso sotto il mento che sporge sulla cravatta.
«Un grande studioso, un falsario, un impostore, un grande allucinato? Forse semplicemente un grande, come è stato detto. E forse solo in una città di matti come Trieste poteva nascere una personalità come la sua, bizzarra, eccentrica finché si vuole, così difficile da capire, ma grande. Certo, io credo che non si debba lasciarsi ingannare dai suoi trucchi, dalle sue finzioni. Era così bravo a far finta di essere un mattoide, aveva capito che è anche comodo, facilita le cose, autorizza ogni grandezzata e ogni scivolone, genio e sregolatezza per non pagare dazio... ma genio, intuizione di cose grandi, incredibile capacità di vivere e di sacrificarsi per un’idea superiore...»
Accanto a lui, un giovane magro con gli occhiali. Si muove nervoso e aggressivo, acidulo. Dr. Giovanni Cante, ricercatore all’Istituto per la Storia del movimento di liberazione. Ha davanti a sé alcuni volumi sulla Risiera, come s’intravvede sia pure vagamente dai titoli.
«Con tutto il rispetto per la sua tragica fine, a noi non interessano le stranezze di un eccentrico né le manie di un ossessionato collezionista. E neanche le sue collezioni. Cosa ce ne facciamo di cannoni arrugginiti, carlinghe sfondate o vecchie baionette? C’è una sola cosa che ci può interessare. Che ci potrebbe interessare, perché è sparita, non c’è più. Intendo la documentazione delle scritte che dicono avesse copiato, almeno in parte, dai muri della Risiera di San Sabba.
Ancora una volta, la Trieste borghese, fascistoide, collaborazionista per vocazione anche quando non può collaborare, si è rifatta il trucco e si è lavata la faccia. Tutti rispettabili; in poche altre città d’Italia industriali, finanzieri, armatori, banchieri si sono esposti così esplicitamente, direi istintivamente – certo, anche prudentemente – a fianco dei fascisti e, quando è stato necessario, pure dei nazisti. Mollando pure qualcosa e più di qualcosa alla Resistenza, non si sa mai.
Ma non avete letto la testimonianza così commossa, povero ingenuo, di quel giovanotto che era stato rastrellato dai nazisti per strada, dopo l’attentato alla mensa del Deutsches Soldatenheim e portato alla sede della Gestapo? Sarebbe finito probabilmente anche lui impiccato in via Ghega con gli altri cinquantuno, se proprio in quel momento, per sua fortuna, non fosse entrato il vecchio barone Wenck, consigliere della Società di navigazione Silba che veniva a trovare l’amico Stulz, suo vecchio compagno di studi a Monaco e ora capitano della Gestapo. Mentre spingevano il giovanotto ammanettato in uno stanzino, il barone gli è passato davanti, lo ha riconosciuto – perché tempo prima aveva lavorato come giardiniere nella sua villa – si è commosso, gli ha promesso di aiutarlo e infatti, dopo che il barone ha parlato con Stulz, il povero diavolo è stato rilasciato. Gliene è rimasto grato per tutta la vita, si capisce, ma non trovate inquietante che uno dei padroni del vapore a Trieste fosse così in confidenza con la Gestapo e avesse addirittura il potere di far liberare un disgraziato destinato verosimilmente alla tortura e alla forca?
Il barone ha vissuto ancora tanti anni, autorevole rispettato e a suo agio nel Territorio libero come nella Repubblica italiana come a suo tempo nell’Impero absburgico, e con lui i suoi sodali, la Trieste che conta e che ha risciacquato la sua biancheria nel Canale. Sono riusciti perfino a far sparire per anni la Risiera – nessuno ne parlava mai, neanche gli antifascisti, nessuno ne sapeva niente, eppure era l’unico forno crematorio esistente in Italia e nessuno ne sapeva veramente niente, questo è il tragico, erano riusciti a cancellare quella verità, quella realtà... Neanche il 25 aprile, nelle celebrazioni ufficiali, se ne parlava. Ricorrenze, commemorazioni sono arrivate, ma tardi. Adesso sì cerimonie e conferenze, non se ne può fare a meno, ma abbiamo dovuto attendere il processo per sapere, per essere coscienti di sapere quelle cose orribili, a casa nostra, sotto il nostro naso, cose nostre... E in questo caso il professore non è stato né maniaco né eccentrico né mattoide, quando ha scoperto quelle scritte, quelle denunce di morituri che facevano probabilmente nomi e cognomi dei complici o almeno di buoni conoscenti e amici degli assassini, e le ha ricopiate. Ecco, ha scritto così il più grande libro di storia della nostra città, libro basilare e inesistente – già, quelle scritte sono state cancellate, coperte di calce, e quei suoi quaderni, quelli che pare le riportassero, almeno in parte, spariti anche loro...
È strano, no, che siano spariti, o che siano comunque inaccessibili – neppure questo si sa con chiarezza, se ci sono da qualche parte o non ci sono più affatto – proprio gli unici quaderni importanti, fondamentali, il libro della verità e dell’accusa, del Dies Irae, Liber scriptus proferetur in quo totum continetur, ma il libro non c’è, è sparito, restano invece tutte quelle sue pagine in cui copiava innocenti scritte oscene, disegni pornografici nelle latrine, specie durante il suo soggiorno a Roma, dopo la guerra... porcherie pietose di cui non sappiamo che farcene. La buona borghesia è perbenista ma anche benevola e tollerante, chiude un occhio sull’oscenità ma guai se salta fuori la spiata che ha mandato un ebreo ad Auschwitz, o anche solo il silenzio su quelle comitive in viaggio ad Auschwitz, questa è una maleducazione ed è inammissibile parlarne...»
Riccardo Wulz, psicologo e psichiatra. Inizia a parlare con distacco, quasi con supponenza, poi s’infervora, si appassiona, ogni tanto si compiace delle sue stesse immagini talora a effetto; si vede che gli piace sedurre gli ascoltatori, come certi insegnanti a scuola.
«Ciò che è strano, e dunque interessante, è che lui abbia cominciato in fondo tardi, e d’improvviso, a interessarsi a quelle scritte alla Risiera e nei suoi dintorni. Non dico copiarle, perché quello ha cominciato a farlo assai presto, mettendole insieme a tutte le altre. Ma era come se non si fosse accorto di cosa significassero, del terremoto che potevano suscitare. Per alcuni anni, quelle scritte, quei nomi che ora tutti vogliono conoscere o ignorare, che preoccupano le autorità e la gente, vero trauma collettivo della città, sono per lui come i biglietti forati dei tram, i tappi di bottiglie, le frasi scurrili sui muri, che lui raccoglie e copia indifferentemente, senza selezionare, senza dare importanza a una più che a un’altra. Per lui trovare in un immondezzaio la copia originale della Divina Commedia o un vecchio ombrello scalcagnato sarebbe stata la stessa cosa, come per un bambino che fruga nella propria cacca.»
Raccoglieva pure stracci, cocci, ferri vecchi; a Roma, dove era andato sperando di ricevere dal ministero un po’ di soldi per il suo Museo, raccattava perfino carta straccia da terra o nei cassonetti, purché scarabocchiata... Foglietti con disegni osceni, figurine tracciate con poche linee diritte da cui prorompono falli giganteschi, erezioni carnose e umide, lingue che entrano in rozze bocche. C’era anche di peggio, che la RAI nella registrazione della trasmissione aveva censurato, specie scritte copiate dai muri, con indicazione delle strade, numeri di telefono con promesse e inviti indecenti. È impressionante il crescendo della sua mania, l’accumulo sempre più frenetico e indifferenziato di gomme americane masticate, scatole di sigarette vuote, giornali strappati. Quel genere di morte che c’è in ogni collezionismo si espandeva come un serpente che ingoia tutto e si arrotonda in una palla viscida e mostruosa. C’era del resto un suo appunto, sul fondo di un cartoccio, accanto a un numero, evidentemente il prezzo di quello che c’era nel cartoccio: «Se i batteri, in seguito a una mutazione genetica, diventassero grossi come elefanti o balene, i nuovi signori della terra. Altro che le cimici vittoriose di Querétaro; gli insetti, in confronto ai batteri, sono poveri diavoli, come gli uomini. Chissà se, gettando tante atomiche, magari dopo qualche secolo... E gli uomini distrutti, come globuli rossi da un’anemia».
Era una sua idea fissa, si diceva Luisa andando avanti e indietro con quella registrazione e chiedendosi se era il caso di inserirla nel Museo o meno. Se Dio ha creato la vita, le aveva detto una volta, si potevano sconfiggere i suoi grandiosi piani strategici ponendo universalmente fine alla vita ovvero rifiutandosi di riprodurla, lasciando che le gonadi protestino, sempre più debolmente finché muoiono insieme al povero diavolo contro cui protestano ed è bell’e fatta. Lui, Luisa lo aveva notato sin dalla prima volta, declinava sempre al maschile. Il genere femminile, nella sua grammatica, esisteva appena, solo quando era proprio inevitabile. Milioni di anni per creare l’uomo a sua immagine e somiglianza, declamava, affinché pecchi e si redima o venga redento ad majorem suam gloriam, e una sola generazione che gli dà scacco matto, semplicemente mettendo a tacere le alzate d’ingegno del testosterone.
Problemi suoi, che avrebbero potuto interessare all’epoca d’oro della psicoanalisi, ma che certo non interessavano più nessuno – e men che meno lei, convinta che ogni bocca amata e baciata fosse il fiat della creazione e che il Cantico dei cantici la sapesse più lunga dei sessuologi. Ma lui non poteva capirlo, sentirlo; forse non poteva nemmeno capire la contraddizione fra la sua negazione della morte in virtù della teoria dell’invertitore e quella febbre di morte che ogni tanto sembrava possederlo. Era incapace di logica e dunque pure d’amore, che si corrompe e si guasta quando c’è confusione. Il logos è l’amore di Dio e dunque degli uomini. Senza logos, niente amore; che si studino dunque la grammatica e la sintassi, aiutano pure a distinguere il bene dal male. No, lui non era geniale; tutt’al più genialoide. Brutto suffisso, quell’oide, che deforma ogni qualità, il peggiorativo più prodigo di colpi bassi.
Ma d’un tratto, tutto questo era cambiato e anche quelle sue farneticazioni se n’erano andate come uccelli da un albero scosso dal vento.
«Fino a quei giorni di Roma», ripeteva lo psicologo nel video, «era solo, e sempre più, una caricatura totalizzante del temperamento anale, posto che queste comode formule invecchiate possano dire ancora qualcosa. Comunque, sembrava un caso da manuale, se non fosse per certe fantasie edipiche indubbiamente imbarazzanti, coatte, ma pervase da un sentimento doloroso, una ferita che lo fa soffrire non senza nobiltà, malgrado la piatta frenesia delle immagini. C’è una frase, no, solo tre parole, una parola ripetuta con angosciato furore e riportata in un taccuino senza alcun nesso col resto della pagina: “Porco porco porco”. So che uno psicologo non dovrebbe parlare così, indecenza o sconcezza non devono far parte del suo vocabolario. Ma nessun uomo, con buona pace di tanti miei illustri colleghi, è solo o soprattutto un caso clinico, un paziente sul lettino. Per tornare al Nostro, ciò che è sconcio – immaginare, dire, fare, soprattutto scrivere indecenze – lo attrae particolarmente, sin dall’infanzia ma anche nella maturità. Un gusto di profanare sé stesso e le figure più amate che contrasta con la sua impettita dignità austroungarica, col suo elogio della disciplina e dei princìpi autoritari e militari, a cominciare dalla sua esaltazione della severità scolastica, pur essendone stato vittima egli stesso al liceo – forse anzi proprio per questo – con tutte le relative conseguenze di castighi in famiglia. Niente di speciale, anzi apparentemente un caso banalmente tipico. Tuttavia in quel soggetto disturbato – ecco, questo sarebbe il linguaggio professionalmente corretto – si avverte una tensione, una passione morale, un allucinato ma retto sentire, per il quale è vissuto ed è morto.
E a un tratto, di colpo, Saulo viene rovesciato dal cavallo, una luce si accende in lui e per lui, quelle fissazioni spariscono. Lasciando perdere quella spazzatura, lui torna d’improvviso a Trieste e per lungo tempo lo si può vedere continuamente alla Risiera e nei pressi della Risiera. Copia e raccoglie, soprattutto annota, come sempre. Ma copia e raccoglie altre cose! Ascoltate cosa riporta in questo foglietto, verosimilmente una scritta letta su un muro: “Domani, pare ci portano in Germania. Io ero stato escluso – evidentemente ero riuscito a far credere di essere stato rastrellato in strada per caso, solo perché passavo di lì durante una retata – quando il capitano Otter è arrivato con un foglio in mano, lo ha mostrato al sergente, i due hanno confabulato e poi il sergente ha gridato il mio nome quale iscritto a Giustizia e Libertà. A denunciarmi deve essere stato...”. Il nome manca, evidentemente era stato cancellato già sul muro. Lui tirava su pallottole di carta, strofinava i muri, cercava nomi, nomi di morituri, di morti, di carnefici – non faceva più collezione, cercava la verità, il dolore, l’infamia... “Noi vivi – Addio Kira.” C’è una grandezza in quest’uomo, almeno al tramonto della sua vita...»
Un paio di fotografie di quel periodo, che Luisa pensava di collocare sotto il video, mostrano infatti un volto diverso; vigile, doloroso, accanito. Non c’è più sudore su quel viso, lei aveva pensato mentre le aveva osservate scegliendole e studiando la loro sistemazione, quel sudore di cui pareva di sentire l’odore acido e stantio; il viso è teso ma composto, gli occhi non più esaltati o febbrili bensì malinconici e tuttavia fermi, gli occhi di un cane che non fiuta più lo sterco, ma cerca qualcuno, qualcosa, il padrone portato via dagli aggressori, l’amico scomparso. Un grande cane da caccia che non cerca la selvaggina ma i vili cacciatori di frodo che hanno messo orribili tagliole e gli hanno portato via tutto e lui continua a cercare, forse anche a trovare qualcosa... un nobile segugio, un vero amico dell’uomo...
Sì, aveva ragione quello psicologo; d’un colpo la sua vita, la sua passione era cambiata. Ma da dove era saltata fuori quella trasformazione, che aveva fatto di un povero, talora imbarazzante maniaco un arcangelo della giustizia e della vendetta... Era questo il suo mistero, non la sua morte tra le fiamme né il suo stupido arsenale, di cui lei non ne poteva proprio più, anche se doveva sbrigarsi a finire il progetto della sua sistemazione, la pagavano per questo. Ma quello che la interessava era la sua metamorfosi, la sua conversione, una vera resurrezione... Forse, a suo modo, aveva veramente sconfitto la morte, quella del suo cuore; aveva trovato davvero un invertitore che lo aveva ricondotto indietro, dalla morte alla rinascita, a una vera inattesa nascita, dopo la morbosa frenesia di quei giorni a Roma.
A Luisa spiaceva di averlo incontrato così poche volte dopo quella sua trasformazione. Quasi una metanoia, come diceva una parola del Vangelo che lei amava; la possibilità di cambiare veramente vita, di rovesciarsi spiritualmente come un guanto, facendo un bel gestaccio all’uomo vecchio che muore dentro il nostro cuore e alla prosopopea delle cose, di tutti i legami e determinazioni che credevano di averlo impacchettato per sempre, alla sua storia che nessuno credeva potesse cambiare, diventare un’altra. Quell’uomo per tanto tempo le era riuscito pesante e noioso, con le sue ossessioni ripetitive – sì, aveva provato rispetto per lui e anche tenerezza, compassione, come accade con i matti o i malati, pur senza per questo trovare meno noiose, ripetitive e talora disgustosamente malvage le loro fissazioni.
Le spiaceva aver conosciuto solo il primo, coatto e banale nella sua mania del Museo, e di aver scambiato solo poche parole col secondo, col risorto, non più soffocante attaccabottoni ma lontano e misterioso, incalzato da qualcosa che non era solo la mania di un collezionista fissato. Quella svolta era avvenuta a Roma, come diceva una sua pagina che la turbava e imbarazzava perché non sapeva se aveva il diritto, anzi il dovere di farla conoscere, o se ciò significava profanarla.