15.

Fra le zagaglie e gli obici, sei casse con ventimila libri d’argomento bellico. Fra questi, quattrocentoventotto della Deutsche Bücherei Triest e della Hitler-Jugend Bibliothek, probabilmente provenienti dall’Associazione italo-germanica – già Associazione italo-germanica di cultura (alla fine della guerra la cultura evidentemente non è sentita più così necessaria) già Kulturverein Friedrich Schiller, ma questo al tempo in cui i tedeschi a Trieste, e non solo a Trieste, erano galantuomini, forse i più galantuomini. Comunque i libri sono libri, pure quando sono stupidi; sono sempre buone armi e non solo grazie a quei loro dorsi pesanti e taglienti con cui si può rompere una testa. Bisogna sempre rispettarli e proteggerli, i libri. Anche quelli che non piacciono.

È vero, li ho salvati fortunosamente, i libri, in quei primi giorni del maggio ’45 – durante gli scontri fra tedeschi, jugoslavi, fascisti, partigiani italiani democratici, comunisti, guardie civiche un po’ fasciste un po’ resistenti, quando, schivando le vaganti pallottole di tutti contro tutti passavo attraverso le postazioni jugoslave come attraverso quelle tedesche e parlamentavo con gli uni e con gli altri, fungendo da interprete ma anche talora da portaordini, latore di proposte e controproposte di resa cui spesso, passando rasente i muri per scansare le pallottole, aggiungevo qualcosa di mio o eliminavo passaggi che potevano inasprire ancor più gli animi. Sì, signori, plenipotenziario di pace; sono io ad averli convinti, è come se l’avessi proclamata ufficialmente io, la pace, dopo tante estenuanti discussioni, soprattutto con me stesso. Sapevo di rappresentarli tutti e dunque li ascoltavo tutti, specialmente dentro di me. La testa, in certi momenti di confusione generale, diventa spesso una piazza affollata e in tumulto.

Fra quei libri, pure una piccola biblioteca sessuale, non meno bellicosa – «Fate l’amore non fate la guerra, no, non fate l’amore perché l’amore è guerra». Quei libri, secondo un suo appunto, dovevano ovviamente essere inclusi nella Sala biblioteca del Museo, cupamente e minacciosamente torreggianti su un mappamondo ai loro piedi, messo in bocca a una grande mantide religiosa di cartapesta – la testa del maschio maciullata e divorata dopo il breve coito, il mondo stritolato dall’eros, le Amazzoni, la vergine armata Camilla, Tamiri regina di Scizia che tuffa nel sangue la testa del re persiano, la puttanella che ti succhia e ti lascia vuoto, preservativo flaccido; anche le sante, Giovanna d’Arco che fa strage, ben le sta che l’hanno bruciata, quella stupida che credeva di dover amare, chissà perché, i francesi più degli inglesi o di chissachi. La vulva dentata che dà vita e morte ai Chamacoco del Paraguay, come Čerwuiš, il Chamacoco portato a Praga negli anni di Kafka, non smetteva di raccontare nelle birrerie di Malá Strana. Gli scaffali – c’è una foto, un po’ sfocata ma leggibile – erano adorni di illustrazioni di vari animali in danza o in lotta per l’accoppiamento, mappe intere zeppe di farfalle o formiche guerriere, insetti che penetrano e trafiggono.

In altre scatole, tutta la documentazione – atti di processi, comparse degli avvocati, fotocopie delle sentenze – dell’annosa e feroce causa fra due suoi cugini a proposito dell’eredità di un appartamento a Gorizia.

«Il diritto civile, il campo di battaglia più feroce.» Altro che il penale, roba da ridere, al confronto. Sì, d’accordo, omicidi, delitti, ma almeno con passione – amore, gelosia, vendetta. Nel civile, invece, figli che spogliano i genitori, un fratello che lascia morire di fame un altro fratello per un miserabile boccone di pane, coniugi che si interdicono e si mandano al manicomio per un appartamento di tre stanze, parenti che si odiano e si straziano come quei due miei cugini. Vedere Balzac, Il colonnello Chabert. Peggio ancora quando testamenti, lasciti e appropriazioni debite o indebite riguardano le spoglie dei poeti contese da chi si vanta di esserne l’unico e il vero erede, specialmente spirituale, l’unico o l’unica interprete. Le carte postume dei poeti, strappate da chi le tira da una parte e dall’altra. Coniugi e famigliari ne rivendicano il legittimo possesso, amici e amanti oppongono a quella retorica della legittimità la retorica delle passioni irregolari e delle testimonianze intime, vedove o vedovi litigano con antichi rivali, donne che s’improvvisano sibille ne custodiscono detti e aneddoti come frammenti di un vangelo e uomini che si ergono a esegeti ne stabiliscono una pretesa verità definitiva, fondazioni e autorità le reclamano al bene pubblico e all’edificazione sociale.

Le spoglie dei poeti, continuava, danno cattivo odore, come banconote sudate e umidicce a furia di passare di mano in mano; troppe mani che le arraffano, le trattengono, le stropicciano. Avidità dello spirito, più feroce e aggressiva di quella della carne e del denaro. Non che gli animali siano migliori, come si dice. Ma almeno non hanno avvocati, giudici, codicilli; non si inventano vizi di forma né commoventi e nobili pappe del cuore e soprattutto non pretendono, quando sbranano o depredano, di essere nel giusto.