38.
Sale n. 42 e 43 – Sullo stipite dell’ingresso, in grandi caratteri, la scritta 30 aprile-2 maggio ’45. Vari disparati oggetti, quasi tutti raccolti da lui, fogli dei suoi diari e grandi fotografie appiccicati al muro. Alcuni computer per richiamare altre immagini e pagine dei suoi diari.
Dieci giorni dopo quella festa a Miramare... cosa succede in dieci giorni? Bastano a far cadere l’Impero zarista e a far nascere l’Unione Sovietica, non a far passare un attacco di sciatica. Il Commissario supremo e Globočnik sono scappati, uno il 28 e l’altro il 29; l’amico Hein, come i tedeschi chiamano la Comare Secca, li attende a Samarcanda, uno assai presto l’altro un po’ più tardi. La banda Collotti ha torturato fino all’ultimo, il IX Corpus di Tito e la 2ª divisione neozelandese corrono per arrivare primi a Trieste. Presto cominciano a fischiare dappertutto pallottole, la gente si ripara dove e come può; lui però gira imperterrito e incurante di fucilate e carri armati, cercando di parlare con gli uni e gli altri, e annotando ciò che vede, ciò che succede. Foglietti, talora solo frasi sparse talora intere pagine – da sistemare e sforbiciare, certo – schegge vaganti di quella Storia a brandelli nella quale lui passeggia come un flâneur. Più che i giorni contano le ore, a partire dalle 5.30 del 30 aprile.
Sirena antiaerea – Sirena elettromeccanica Marelli, potenza 6 kW, tipo M6, funzionamento a corrente alternata trifase, 220 V. Motore ad asse verticale, carcassa in ghisa resistente alle intemperie, resistenza elettrica di riscaldamento. Due quadri di comando, locale collegato col dispositivo acustico attraverso un cavo tripolare sotto piombo, remoto allacciato con cinque fili di rame nudo. Collocarla a destra, subito dopo l’ingresso del Museo; un po’ in disparte, in modo che chi entra non la nota subito e sobbalza spaventato quando sente d’improvviso il fischio lacerante e vede, di fronte, illuminarsi di colpo un grande orologio che segna le 5.30.
Cinque e trenta del 30 aprile del 1945. Don Marzari liberato nella notte precedente dalle carceri del Coroneo, dove era stato portato dopo le torture subite a Villa Triste dalla banda Collotti, dà il segnale dell’insurrezione antinazista con due fischi della sirena antiaerea. Due fischi e l’insurrezione ha inizio. L’arbitro fischia l’inizio (di cosa? della libertà, del fratricidio, della pace?) o la fine? Due fischi, è l’ora della libertà e della morte, forse il porto e l’intera città salteranno in aria. La libertà è un ultrasuono, ti scoppia dentro, ti fa a pezzi, tanti pezzi che saltano in aria, uno sull’altro, uno contro l’altro – bombe esplodono già sotto i Portici di Chiozza, al centro della città, le schegge schizzano come passeri in picchiata sulle briciole. I Volontari della libertà del CLN sparano come possono, con quegli scalcagnati fucili che hanno in mano. Un elmetto rotola dal marciapiede in strada, la piccola striscia di sangue si cancella presto.
Don Marzari è stato appena liberato dalle carceri del Coroneo, la tortura subìta a Villa Triste perfora ancora il suo corpo come un fischio lacerante; rompe il timpano, attraversa il cervello. La spalliera della rudimentale ma efficace sedia elettrica è alta, con una leggera imbottitura di cuoio e braccioli su cui vengono legati gli avambracci, a uno dei quali è fissato un bracciale metallico unito al polo negativo di un apparecchio conduttore regolabile, a reostato, mentre al polo positivo è collegata una specie di pennello con manico isolato e frangia metallica per chiudere il circuito.
La corrente elettrica attraversa il corpo, un impulso dopo l’altro, regolare, folle, insostenibile – il mondo scoppia nella testa e nel cuore. Dio è una parola che fuochi d’artificio sparano e disegnano un attimo nella notte e subito esplode e sparisce. Notte oscura. Il sudore di sangue è una secrezione; cosa avrebbe fatto, detto, gridato Gesù con il cavo della corrente elettrica in bocca. La banda Collotti lavora bene. Cervello, cuore, fede si spappolano eppure l’uomo di Dio abbandonato da Dio non molla; magari lui vorrebbe mollare fare i nomi tradire, diomio, sì che lo vorrebbe eccome, ma la fede di anni è penetrata ormai nel suo corpo, nei suoi nervi che impazziscono sotto quelle scariche elettriche e vogliono solo distendersi, mollare, smettere di mandare quelle frecce ardenti e acuminate al cervello, ma la fede è ormai la sua carne, come la passione per gli amanti, e la carne resiste massacrata e impavida. Lui vorrebbe scendere dalla croce ma la sua carne, la sua fede divenuta carne dice di no al grido, alla supplica, al comando del suo cervello e del suo cuore martoriato e lui non dice niente. L’aguzzino non gli cava niente dalla bocca arsa dalla lava e così, liberato con un colpo di mano, alle 5.30, ancora barcollante, confuso, don Marzari dà l’ordine di lanciare quei due fischi convenuti.
Quando la sirena fischiava per gli allarmi antiaerei, tra un fischio e l’altro passavano quindici secondi; quanti secondi passavano fra una scarica elettrica e l’altra a Villa Triste? Neanche uno, neanche un nanosecondo; c’era solo quella scossa, quel terremoto eterno e infinito di ogni cellula del corpo – no, c’era un’eternità tra una scossa e l’altra, un infinito terrore dell’attesa. La Storia è un elettroshock; ecco perché siamo divenuti tutti pazzi, anche gli insorti. Tutti contro tutti, il KMT, Komanda Mesta Trst slavo contro i nazisti ma anche contro le brigate democratiche italiane del Corpo Volontari della libertà, brigate Pisoni e Foschiatti, che combattono contro i nazisti. Foschiatti è morto a Dachau, «Morte a Foschiatti» gridavano i fascisti, «Morte ai partigiani della Brigata Foschiatti» gridano i titini. Morte alla morte che dà morte, pensa don Marzari; per questo dà l’ordine che la sirena fischi l’insurrezione. Ci sarà altra morte, lo sa, tutti i martiri lo hanno sempre saputo e hanno saputo che la morte muore se si cessa di averne paura, se le si toglie il pugnale. I fischi lacerano, perforano la sua testa – lui da bambino fischiava giocando nel giardino pubblico; anche nel cortile dietro la chiesa e i padri lo sgridavano. Dalla caserma vicina i soldati in libera uscita venivano fuori fischiettando, quel fischio innocente e allegro di quand’era ragazzo ora è un sibilo acutissimo e veloce, una traiettoria di fuoco... Chi è quello là per terra con la faccia piena di sangue?
Cliccare, una parola che non c’era nel suo DUD e che lui non avrebbe probabilmente mai ammesso nel suo Museo. Suo, mio... Clic. Risonanza magnetica di un glioblastoma multiforme ovvero fotografie di Villa Geiringer. Un tumore frontale maligno destro. Si assomigliano, quelle macchie scure, quelle crepe iridescenti, quei muri corrosi e sbrecciati, un rodere e corrodere e premere da dentro, da fuori, dappertutto. A Villa Geiringer – chiamata anche Castelletto, sulla collina di Scorcola – c’è il generale Linkenbach – con la giacca ancora sua che presto gli regalerà – ossia c’è il Comando dell’esercito tedesco. Il Comando di polizia è nel tribunale, più massiccio di una fortezza, come si addice alla Legge, cupa e pesante, anche quando non c’è più alcuna legge in ciò che accade per le strade. Il tribunale, un cenotafio. Il Comando di marina è invece a San Giusto, nel Castello.
Ma è a Villa Geiringer che risiede il generale Linkenbach. L’ingegner Geiringer, che l’ha fatta costruire, è morto da quarant’anni, ma la linea tranviaria Trieste-Opicina – costruita dalla Österreichische Union-Elektricitäts-Gesellschaft per la parte elettrica e dalla Weitzer Waggon Fabrik di Graz per la parte meccanica e inaugurata il 9 settembre 1902 – si ferma ancora regolarmente proprio davanti alla Villa dove egli abitava quando l’Austria era un paese ordinato, come aveva suggerito egli stesso, e poi sale con le sue motrici elettriche e i grossi cavi metallici che la trainano sul tratto più ripido, per superare i 329 metri di altezza che separano Opicina dal livello del mare. In quei giorni, invero, anche el tram de Opcina nato disgrazià va su e giù alla matta, peggio che in quel 10 ottobre 1902 quando aveva deragliato vignindo zo per Scorcola verso la città, dice la canzone, bona de Dio che iera giorno de lavor e drento no ghe iera che ’l povero frenador. Ora è la Storia che deraglia, esce dalle rotaie peggio del vecchio tram e precipita sempre più velocemente; l’accelerazione aumenta, un pianeta lassù o laggiù è uscito dall’orbita, un meteorite piomba sul mondo e investe e fracassa intanto Trieste. Zeitrafferphenomen, effetto di accelerazione, può essere il primo sintomo del tumore frontale maligno e mai come in questo caso è giusto che il nome sia in tedesco, è da anni che tutto succede in tedesco.
Tutto scorre più velocemente, un’accelerazione progressiva e insostenibile, il tram precipita giù da Villa Geiringer, le macchine, le jeep, le autoblinde a velocità impazzita; il tachimetro cerca di tranquillizzare gli animi, la sua lancetta sembra quasi normale ma il glioblastoma non gli crede; è lui che corre dentro la testa, tutto corre, tutti corrono, anche la gente per strada, i passanti. Il mondo cade, cade in pezzi, corpi si abbattono sul selciato, il sangue schizza come una saetta. Il tachimetro ha torto, solo il glioblastoma si accorge della folle velocità di tutte le cose. La risonanza, una fotografia della Storia; se la si colora è un’immagine anche bella, un cristallo striato e maculato, un geode. Potrebbe essere un’agata, con quelle strisce, le bande d’agata bluazzurre del calcedonio, giallorosse della corniola, nere dell’onice... Il centro dell’uragano sulla città, sulla Storia è vuoto – anche il centro di quel geode è vuoto, senza materia prima.
Eccola, la Storia; morta, immobile, ferma, una pietra, un geode. Eppure dentro tutto brulica, cola, miliardi di corpuscoli a folle, inutile velocità. Mal di testa e disturbi del linguaggio – bestemmie, preghiere e imprecazioni in italiano, tedesco, sloveno, croato; anche in inglese, quando nel tardo pomeriggio del 1° maggio la 2ª divisione neozelandese del generale Freyberg in marcia verso Trieste trova Monfalcone occupata dagli jugoslavi che cercano di fermarla e si sta per venire alle mani, shit on you. Le pallottole fischieranno invece in città, iésus mària, fischiano già, cazzo, ti beccano, Scheisse, viva l’Italia Trst je naš, dicono che non sia bene bestemmiare in momenti in cui si può facilmente morire ma prima o dopo, jebem ti mater, davanti a Dio è la stessa cosa – eccolo quel cecchino, si è nascosto dietro quella colonna, kurvi sine, non si capisce un clinz siamo fottuti – questo, cessato il fuoco, crederanno di poterlo dire tutti.
Il generale Linkenbach fa il duro e si rifiuta con disprezzo, il 29 aprile, di promettere al vescovo di Trieste, monsignor Antonio Santin, di risparmiare la città, ma le cose precipitano, si accavallano a velocità esponenziale. Lo Zeitrafferphenomen non ha riguardi per nessuno, nemmeno per l’amore dell’ordine di un generale della Wehrmacht – posso testimoniarlo personalmente, ripeteva spesso, basta il gesto con cui un paio di giorni dopo, il 3 maggio, toltasi la giubba e consegnandomela, l’ha piegata con cura. Il glioblastoma sconvolge orologi e tachimetri, il tempo si contrae e si rapprende; il Terzo Reich sta crollando in pochi secondi, un quartiere conquistato cambia la geografia e la storia d’Europa, Hitler cade avanza Stalin o chi per lui, il CMT-KMT titino spara in periferia e a San Giacomo, le brigate Pisoni e Foschiatti dei Volontari italiani della libertà in centro città e sul fronte del porto, il CMT-KMT spara sui tedeschi ma anche sul CLN, schegge e pallottole entrano dalla finestra nella curia dove il vescovo steso a terra per evitarle cerca di trattare per telefono col Comando tedesco ma non si sa bene quale – quello dell’esercito, della marina o della polizia.
Un paio di scarpe. Devono appartenere, essere appartenute a un partigiano sloveno della Kosovelova brigada, sceso insieme agli altri da Opicina in città congiungendosi con le truppe di Tito della 20ª e della 9ª divisione. Le ha lasciate all’angolo tra via Carducci e via Battisti, lungo il marciapiede dei Portici di Chiozza, per rinfrescarsi i piedi dopo la lunga marcia. Sotto i portici c’era un bel negozio di scarpe, così hanno fatto man bassa, fracassando la vetrina e buttando via le vecchie. Tanta storia in quelle scarpe, bucate nella marcia dell’esercito jugoslavo attraverso i boschi, Selva di Tarnova o monte Nevoso, ammollate nei torrenti attraversati senza ponti; duecento chilometri dalla Lika a Trieste, attraverso Karlobag, Senj dove nasce la bora e da dove infuriavano gli uscocchi, Crikvenica, Susak, Fiume, l’attacco al monte Lesco vicino a Fiume difeso dal 12° artiglieri della RSI, la locomotiva carica di cannoni spinta contro le difese italiane e centrata in pieno – cannoni e munizioni esplodono, qualcuno riesce a saltar giù, quelle scarpe si sporcano di polvere e di sangue ma camminano, riprendono poco dopo a marciare, arrivano a Trieste, in pieno centro.
Abbandonate là sul marciapiede dei Portici di Chiozza sono una bandiera; la bandiera del vincitore, assai più di quel pomposo vessillo che poco più tardi, mitra alla mano, i titini imporranno sulle finestre del municipio. Prima di indossare quelle scarpe nuove prese dal negozio sventrato, il druso sarà rimasto a lungo scalzo, per far riposare i piedi. Tempo di vendemmia; i piedi dei contadini pestano l’uva nei tini, il mosto è rosso il sangue è rosso, talvolta è buono o almeno inebriante come il vino. Versare il sangue, pestarlo sotto i piedi, è gustoso come bere il mosto, specie quando per tanto tempo si è stati uva pestata dai piedi altrui, dai superbi signori della città ora conquistata.
Grande fotografia della curia vescovile in via Cavana. Quartiere sacro e profano, antichi e squallidi postriboli di infimo rango negli stretti vicoli e sede del successore degli apostoli, roccaforte di italianità e di malavita; quando i titini, a battaglia quasi finita – finita vittoriosamente per la Resistenza e soprattutto per loro, sul municipio liberato dai nazifascisti don Marzari, pochi giorni prima torturato dai nazifascisti, ha issato il tricolore di una nuova Italia libera e democratica ma subito i militi del IX Corpus lo costringono ad ammainare quella bandiera, Trst je naš – inviano nel rione di Cavana in guardinga avanscoperta un loro uomo, questi si trova ben presto circondato nell’intrico di viuzze, portici e androni e si accascia con un coltello in pancia.
In curia, il vescovo cerca di trattare con i tedeschi steso a terra, perché dalle finestre entrano schegge e pallottole che si sparano fra la biblioteca civica e il provveditorato agli studi. Due giorni prima il dottor Herbert Hubert, capo della 5ª divisione del Supremo commissariato germanico, gli ha detto, a nome del Commissario supremo Rainer, che il Comando tedesco è disposto a risparmiare gli impianti portuali e le altre installazioni, ma Rainer è scappato il 28 aprile e Globočnik scappa il giorno dopo, quando la città è ancora in mano tedesca e mentre si cerca di convincere i tedeschi a consegnarla alle autorità responsabili – al prefetto fascista Coceani e al podestà fascista Pagnini, pur disposti a mitragliare i tedeschi dal municipio se cercheranno di far saltare in aria il porto, oppure al CLN antifascista, a Ercole Miani e a don Marzari torturati dai fascisti, o al Politkomisar Franc Štoka, grande Slavia rossostellata che avanza? Il Comando slavo ha ingiunto di cedere «Trieste e tutte le altre vostre colonie».
La pattuglia tedesca percorre via Cavana verso il Vescovado e spara, Panzerfaust vicinissimi alla curia e due carri armati partigiani verso via Università; si spara dappertutto, si spara e si sparacchia, il presidio delle SS in piazza Oberdan viene attaccato da partigiani del CLN, da comunisti e da giovani della Guardia civica istituita mesi prima dal podestà fascista, ma i comunisti slavi cercano di fermare il CLN e il colonnello Antonio Fonda Savio – nome di battaglia Manfredi, genero di Svevo e padre di tre figli, due già morti in Russia e uno morente in queste ore sotto il piombo tedesco – deve sciogliere il CLN e ordinare ai suoi reparti di ripiegare per evitare scontri con gli jugoslavi, dopo che Martin Greif e Franc Štoka del Komanda Mesta Trst avevano disarmato i partigiani italiani e lo avevano trattato come un occupante tratta un nemico e non come un liberatore tratta chi è venuto a liberare.
Aerei alleati bombardano gli zatteroni tedeschi attraccati alle Rive, un giovane partigiano comunista solo, a piedi, al crocicchio di via Cavana continua a sparare finché cade, la pattuglia tedesca in via Cavana raggiunge il Vescovado e il capitano Giessen che la comanda entra nel palazzo vescovile, ripete che i tedeschi non si arrenderanno, specie ora che gli jugoslavi di Tito stanno impadronendosi della città, e minaccia rappresaglie nel quartiere comunista di San Giacomo, la Trieste italiana rossa mai piegata dal fascismo.
Il capitano Giessen esce per portare le proposte del vescovo al generale Linkenbach; intanto undici italiani, dieci uomini e una donna, vengono fucilati dai nazisti per rappresaglia. In via Cavana gli uccelli sono così spaventati dagli spari che stridono più forte di quegli spari. Il Politkomisar Franc Štoka fa sapere che la resa dei tedeschi deve avvenire solo alle truppe di Tito. Il vescovo tratta, incita, frena. Non è fatto per stare disteso a terra, monsignor Antonio Santin, figlio di un padrone di barca istriano e nato per reggere animosamente il timone e la vela al vento, la batela della Chiesa come quella dei pescatori di Rovigno. Certo, la liturgia prevede anche, nell’ordinazione sacerdotale, che ci si stenda a terra e monsignor Santin ama l’umile e materna terra che insegna amore e umiltà. Humilis, humus; niente di untuoso e di servile, ma un forte abbraccio all’argilla di cui il Signore ci ha fatti e alla quale si ritornerà – accettando sì questo ritorno, ma rimandandolo il più possibile, almeno per gli altri, che in quel momento è suo dovere proteggere e salvare da sora nostra Morte corporale.
Là, steso a terra, è un combattente che striscia per affrontare meglio il nemico, il lupo e i lupi che fanno strage del gregge. È difficile proteggere il gregge, anche perché talora non è facile sapere quale sia, il proprio gregge da difendere, non scambiare i lupi per pecore e le pecore per lupi, l’inseguitore per l’inseguito, il ferito da soccorrere per il cecchino da cui difendersi. Una granata scoppia vicino, immagini delle strade insanguinate attraversano la sua testa come rossi lampi nel cielo, striature sanguigne di un’agata, vene nelle pietre di una vita rappresa. Anche lui si sente irrigidito, cristallizzato nel rigido ruolo del pastore, pesante come una croce di pietra.
Titokva. Berretto con la stella rossa dei partigiani del IX Corpus. Raccolto personalmente da lui in via Rossetti, davanti all’entrata della caserma già Vittorio Emanuele II, dove l’aveva gettato, buttandolo giubilante in aria, il partigiano che l’aveva sino a quel momento in testa, dopo aver sparato a un volontario del CLN italiano che stava sorvegliando i prigionieri tedeschi e aveva l’ordine di non lasciarsi disarmare. Al suo rifiuto di consegnare le armi veniva fatto secco insieme ad altri, fra grida allegre; il berretto vola giocondo in aria e cade accanto al corpo senza vita, forse agonizzante, quando l’ho raccolto comunque era ben morto. Grida di esultanza, urla contro l’Italia e qualche accenno di kolo dei miliziani con la titokva. Universalità e ambiguità dei berretti – chi sta sotto quei berretti? Eroi, assassini, idioti? Peccato che non sia riuscito a procurarmi l’elmetto tedesco sotto il quale si era nascosto Mussolini. Berrettologia, scienza lombrosiana. Le cuciture interne, gli spicchi della fodera, la cupola in corrispondenza delle ossa del cranio, calco di quelle ossa. Il mio Museo è un grande cappello in testa al Mondo. Un grande preservativo. Ma non so se e cosa potrà preservare.
Non ha mai abbassato la testa, il vescovo, neanche davanti al Duce quando è venuto a proclamare, proprio a Trieste, le leggi razziali e lui l’ha apostrofato con ruvidezza da marinaio. Anche a quel maggiore jugoslavo che durante le febbrili trattative fuma sprezzantemente nella sacrestia di San Giusto ordina di uscire, se proprio non può fare a meno di quella sigaretta; comunque non in chiesa. Se ora abbassa la testa per scansare bombe e pallottole non è certo per viltà, ma perché è un dovere, per il timoniere che regge la barra, scansare gli scogli e portare in salvo chi siede nella sua barca o chi si aggrappa ai suoi bordi. Ma ho sempre difeso il gregge, si chiede, gli sloveni del Carso e i croati dell’Istria dalle Camicie Nere, i triestini finiti in Risiera? Quando lo avevano mandato a proibire lo s’ciaveto, l’antico rito glagolitico della Messa, in alcuni villaggi dell’Istria, non voleva certo umiliare quegli slavi, ha solo obbedito ai suoi superiori – ma è giusto obbedire? Il cristiano è un obbediente o un ribelle? Anche i tedeschi che caricano i camion di ebrei obbediscono.
Schiaccia il viso contro il pavimento, qualche scheggia lo ha ferito superficialmente ma non se ne cura; il sangue sparso per qualcuno è buono, è il sangue sparso contro qualcuno che è malvagio. Schiaccia il naso, la bocca contro il pavimento; chissà com’è in quel momento la sua faccia appiattita per terra, forse somiglia a una statua di pietra presa a martellate cui hanno rotto il naso – devo sembrare un idolo, pensa assurdamente, però riesce a telefonare, forse i tedeschi si sono convinti, non faranno saltare il porto. Poi tutti ne rivendicheranno il merito, Uo-De, CVL, Kriegsmarine, perfino un direttore dell’Hotel Savoia che dirà di aver convinto e dissuaso l’ingegnere tedesco incaricato della distruzione. Ora i tedeschi, che pure qua e là attaccano ancora, sono in fuga, il vescovo steso per terra lo sa e sa che non è ancora finita, che tutta quella violenza di cui è carico il cielo sopra la città non si è ancora scaricata, come in quelle afose sere d’estate in cui si sentono fremere nella nuvolaglia gravida di elettricità i fulmini pronti a scoccare, a mettere il mondo in fiamme. Nuvole grevi di tramonto sanguigno, pronte a dissolversi ancora in pioggia di sangue, sotto a chi tocca.
Che ore sono, è giorno o è notte? La stanchezza fa brutti scherzi, qualcosa sembra gonfiarsi nella testa schiacciando i pensieri, scombinando le loro connessioni e le loro sequenze. Il vescovo continua a parlare al telefono, ma ogni tanto non capisce o non si ricorda bene con chi; forse è colpa del telefono, magari un proiettile ha colpito e spezzato il cavo, lui si sente comunque scollegato dagli eventi e dagli interlocutori pur continuando accanitamente, meccanicamente a telefonare, a parlare, a supplicare, a ingiungere, a comandare, in una febbrile e sconnessa ma caparbia insonnia. Come sarebbe bello poter dormire, ma è impossibile; il sonno non c’è più, è sparito, una pallottola deve aver colpito i meccanismi del sonno nel cervello, nessuno potrà più dormire. La guerra è anche questo, la distruzione del sonno. Anche della fede, dunque, se è vero che un uomo che dorme crede in Dio e si abbandona a lui fiducioso e in pace? Sì, la guerra distrugge la fede, se la fede fosse salda non ci sarebbe la guerra. Pure la risonanza evidenzia una patologia del sonno.
Cornicione sbriciolato di una delle grandi finestre del municipio – Dalle rive e dalle motozattere, in mezzo al porto, i tedeschi sparano sulla città, specie sugli edifici di piazza Unità. I templi della società civile non hanno la robustezza e lo spessore di quello della Legge, del cupo tribunale in cui i tedeschi resistono ancora, si spappolano più facilmente. Ma dalle rive jugoslavi e Volontari della libertà rispondono al fuoco; la 4ª armata jugoslava, ricongiunta al IX Corpus, è già padrona della città, l’Hotel Savoia è in fiamme, la flottiglia tedesca è sempre più in difficoltà.
Si spara ancora, una grandine che refoli di bora spingono ora da una parte ora dall’altra. Comunisti italiani proteggono i Volontari della libertà dai titini, altri comunisti italiani danno loro la caccia e li consegnano ai titini, la Guardia di finanza e la Brigata Ferrovieri del CLN difendono le infrastrutture portuali, qualcuno della Guardia civica del podestà fascista prende il mitra contro i tedeschi, il prefetto fascista cerca di mettere insieme fascisti e repubblichini e antifascisti democratici contro Tito e i comunisti – invano, ma gli servirà per risciacquarsi la faccia a guerra finita, finita si fa per dire. Il federale fascista scappa, altri camerati si uniscono ai nazisti nella fuga, fuga dalla morte, talora nella morte.
La grossa pietra è caduta da un davanzale del municipio, colpito dai tedeschi. Pietra immobile, in cui miliardi di elettroni impazziti corrono, volteggiano, si scontrano, si respingono, si distruggono, si elidono; urla di dolore e di strazio per ogni particella, per ogni uomo strizzato, polverizzato, pietrificato, ma non si vede e non si sente niente. La mano accarezza la superficie della bella pietra, la copertina del libro di storia; ci sono tanti orrori in quelle pagine ma la copertina è gradevole al tatto, anche le pagine hanno un buon odore e fa piacere sentirle frusciare tra le dita che le accarezzano mentre le sfogliano e le voltano. Così, colorata come si deve, per mettere meglio in evidenza ciò che mostra, pure la ricostruzione tridimensionale della risonanza magnetica che fotografa l’immagine della morte sembra una bella gemma immobile, un geode di agata striato da migliaia e migliaia di millenni, vene di sangue essiccate da migliaia e migliaia di millenni. Trionfo della morte; trionfo della vita che è riuscita a irrigidirsi per non essere torturata dal fuoco dei primordi, come i partigiani dai cavi elettrici e dai ferri roventi della banda Collotti.
Quell’immagine – la sua testa, la mia, il cui interno il glioblastoma arreda a poco a poco in modo diverso; indubbiamente originale, anche se un po’ sfacciato e aggressivo. Nessuno può essere così presuntuoso da pretendere che sia solo la sua testa, che quella rete là dentro, là sotto, sia solo sua, come non può credere di essere l’unico signore della città, la cui pianta il vescovo tiene davanti alla sua faccia, per seguire ciò che avviene nelle vie. Certo ci siamo tutti, da qualche parte, là dentro; nascosti in questa mappa della città, in questo intarsio di linee e di quadretti, una pedina sulla scacchiera, forse già mangiata. Il glioblastoma divora la rete; la taglia come un guastatore, ne azzanna tante maglie strappate, succhia i fili penzolanti come spaghetti, come quel filo del telefono che pendeva strappato lungo il muro di quella casa bombardata sulle Rive.
In quella foto il glioblastoma sta buono, fermo. Bello. Un insetto incantato, un fossile, un fiore rimasto prigioniero nella pietra. I colori vanno bene, no? Scelti con cura, senza strafare. Sembra un bel geode d’agata, cretacico, che risale a centotrenta milioni di anni fa. Il cervello umano è più giovane, ma gli assomiglia. Specie quando qualcosa ribolle dentro di lui e lo sconquassa e rifà da dentro. La Storia è ancora più giovane, l’ultima venuta; forse per questo è così furiosa e sciamannata. All’interno dei basalti si formano bolle di gas che generano delle cavità – geoidi, circolari, a druse, allargate. Il glioblastoma lavora dietro i lobi frontali, scava caverne, le riempie, le fa crollare a furia di riempirle di cellule proliferanti sempre più numerose, sempre più grosse, serpentelli che si moltiplicano si fondono si scindono, tanti piccoli polipi, la massa di una piovra che si espande e distrugge la propria casa. Distruggere per espandersi, per sopravvivere, per conquistare più Lebensraum. Più spazio, cioè più vuoto. Quando il mondo sarà vuoto – desertificato, spopolato, raso al suolo, libero...
Calcinacci di una finestra del tribunale – Leggeri tank jugoslavi che girano per la città tirano contro il Palazzo di giustizia, ma le mura sono possenti; la Giustizia è bendata come la Fortuna ma è robusta. Le aule solenni, le colonne, gli atri, i luoghi in cui la violenza arriva ben ordinata sulla carta diventano invece campo di battaglia; delitti, sangue, stragi, ben allineati nei caratteri a stampa dei verbali, delle deposizioni e delle comparse prendono corpo e sangue, figure illustrate che si emancipano dalla pagina, diventano vive per morire subito dopo. Un grande luogo in cui si emettono sentenze; l’ultima, di morte, è per un giovanotto che attraversa strisciando via Nizza e getta una bomba a mano in una delle finestre rasoterra, ma prima di vederla esplodere viene centrato da un tedesco appollaiato sulle scale dell’atrio dietro una colonna. Non servirà; un’altra sentenza capitale anche per quel tedesco, subito dopo rotola sulle scale striandole di sangue come un tappeto rosso per visite di rappresentanza.
Poco più tardi i partigiani allagano le cantine del tribunale, i corpi galleggiano a pancia in giù, risucchiati da uno scolo intasano la botola; do una mano a liberare le acque che defluiscono, dispongo che i corpi vengano deposti con rispetto per essere sepolti, mi prendo i cinturoni e le pistole annacquate.
Quell’altro bel ritratto? Degno di Picasso, quella macchia una specie di occhio bistrato, fisso e sfatto, con la sua pupilla ossia l’intersezione dei tubicini contenenti i fluidi idrotermali con le soluzioni minerali. Un’agata di centotrenta milioni di anni, non molto diversa dalla risonanza magnetica di un’area di infarto cerebrale. Infarto cerebrale di un uomo di cinquantasette anni, lava che si è rappresa in centotrenta milioni di anni, fa poca differenza. Immagino che, quando non riesco a leggere e a capire quello che ho scritto, come mi sta accadendo sempre più spesso, il mio sguardo si faccia storto e feroce come quella macchia dell’agata. Anche il capitano Giessen, quando parlamenta col vescovo, ha uno sguardo così, rigido e cattivo, lo sguardo di un gufo. È possibile ricordarsi di quando si era ancora vita informe e non viva, lava infuocata che si cristallizza lentamente, un vulcano spento che diventerà cervello? Nostalgia di fuoco e di eruzione, di vita che annienta e si annienta; è questa la voglia di guerra, desiderio antichissimo di stuprare la pietra e i licheni. Pure nel cervello il limo primordiale si è solidificato e strutturato lentamente, mentre al glioblastoma basta assai poco per farlo ritornare poltiglia, ma il Comando tedesco non se ne è ancora accorto, non sa che nel suo quartier generale tutto è ormai divorato, corroso.
Al Comando tedesco si guarda la realtà con l’occhio fisso e dilatato dell’agata tanto più millenaria del Reich millenario e tutto impazza intorno a esso a velocità supersonica, l’occhio le cui retrovie stanno cedendo non riesce a seguire le cose che cambiano così confusamente e vertiginosamente. Ma anche per gli altri è difficile seguire e inquadrare le cose, stare al passo con la loro accelerazione. La liberazione dura un secondo ed è già occupazione, la vittoria è già sconfitta. Non solo l’occhio dell’agata fa fatica a passare dai cinquantuno ostaggi impiccati dai nazisti in via Ghega col gancio in gola alle raffiche titine in via Imbriani contro gente inerme. L’occhio si irrigidisce ancora di più, sopravvive nel geode fossilizzato – occhio di chi, di nessuno – come il totem sopravvive, anche se assai poco, a chi l’ha costruito. Dio crea l’uomo, l’uomo crea gli dèi e gli dèi decretano il suo destino di morte. Ogni vivente vuol vivere, il corpo mutilato dalla bomba striscia agonizzante verso un riparo per sfuggire a un’altra bomba, il topo fugge davanti al gatto o sotto il falco che piomba su di lui e la gazzella fugge davanti al leone, ma tutti i topi e tutte le gazzelle vogliono morire anche se non lo sanno, il lemming scappa ma la leggenda dice che i lemming si uccidono in massa. La vita vuol morire e la guerra le viene in aiuto; la guerra pietosa madre di tutte le cose, madre coniglia che mangia i suoi piccoli restituendoli alla felicità del buio e del niente.
Le cellule sono pronte, in ogni momento, ad autodistruggersi. Alcune vengono distrutte dal nemico, altre si distruggono per non cedere al nemico, come ci si uccide in carcere per non parlare sotto tortura e dunque per salvare altre cellule. I partigiani catturati non parlano. Non ha detto una parola Ercole Miani che guida le formazioni di Giustizia e Libertà e viene torturato dal torturatore fascista commissario Collotti provvidenzialmente fucilato poco dopo su due piedi. Quando più tardi il ministero italiano avrà la bella pensata di conferire a quest’ultimo un’onorificenza post mortem – onore a chi attacca un cavo elettrico ai genitali di un uomo incatenato che lotta per la libertà, un capo sul glande e l’altro in bocca poi si fa passare la corrente, e per questo anni dopo una medaglia, da appuntargli magari fra le gambe come un bel ciondolo se fosse vivo, per fortuna da anni è stecchito, Dio vede e provvede – il torturato Miani restituisce la medaglia d’oro visto che ne hanno data una, magari non d’oro, al suo torturatore. Il governo gliela ridarà alla memoria quando sarà morto pure lui, una medaglia post mortem, come all’assassino. Con le decorazioni melius abundare quam deficere.
Sì, in cella di tortura capita di uccidersi. Morire piuttosto che parlare. Suicidi per difendere l’umanità, la vita; per opporsi alla pulsione di morte che pulsa in ogni cellula. La Resistenza è resistente; piuttosto morire che ubbidire alla morte.
Bracciale tricolore – Il bracciale degli insorti democratici italiani, espressione del CLN e organizzati nel CVL, Corpo Volontari della libertà, che alle 5.30 del 30 aprile, dopo aver liberato dal carcere don Marzari da poco torturato a Villa Triste, hanno dato il segnale dell’insurrezione italiana, subito schiacciati fra i tedeschi e i fascisti e i titini appoggiati dai comunisti. Mentre ancora si spara contro i tedeschi, gli jugoslavi costringono i Volontari della libertà a togliersi il bracciale tricolore e a sostituirlo con la stella rossa e a mettersi agli ordini del CMT-KMT. Questo bracciale apparteneva a un partigiano della Brigata Ferrovieri o della Guardia di finanza, due unità particolarmente attive nei combattimenti. Non si conosce il suo nome. Se se l’è tolto, ha salvato la pelle. Altrimenti, come altri, sarà forse finito in una foiba.
Si spara ancora, la guerra è dura a morire. Dal mare motozattere tedesche sparano contro piazza Unità, quando prendono il largo vengono falciate da aerei alleati; nella sacrestia della cattedrale di San Giusto i tedeschi trattano col vescovo e col commissario politico titino, il fumo delle sigarette – nel corridoio, non in sacrestia, su questo il vescovo non molla – si dissolve in quello degli spari e delle bombe.
Al Castello di San Giusto il maggiore Riegele tratta la resa con gli jugoslavi ma la tira in lungo finché arrivano i carri armati neozelandesi e lui non tratta più col commissario politico jugoslavo Štoka ma con l’ufficiale neozelandese del primo carro armato, il tenente Durable, e poi col suo generale Bernard Freyberg. La città si è già arresa ai neozelandesi che stanno gettando arance ai bambini dalla torre dei loro carri armati. Non c’è triestino, specialmente chi allora era bambino, che non dica e non sia convinto di aver colto al volo un’arancia gettata da una jeep neozelandese. Non pretendo tanto, perché non ero un bambino, ma l’ho raccolta nel giardino pubblico; era finita fra l’erba. Grinzosa, si capisce, ammuffita – e il mondo, allora?
Hafenkommandant Riegele annulla la resa agli jugoslavi e si arrende ai neozelandesi, gli jugoslavi infuriati vorrebbero attaccare il Castello, Trst je naš, jebem ti mater, e i tedeschi fatti prigionieri dai neozelandesi si offrono per difenderlo insieme a questi ultimi, Marsch in den Arsch. Poi gli jugoslavi lasciano perdere, jebi ga. Non faremo la terza guerra mondiale per Trieste, ha già detto Stalin a Tito per telefono; i titini sgombrano il piazzale sotto le mura e sotto gli occhi dei vinti e dei vincitori, fuck off li saluta il tenente Durable.
Uno dei tanti disegni firmati da Kollmann e Josè – In primo piano i piedi con le dita divaricate di Druse Mirko, la caricatura triestina dello sloveno del Carso. Vendetta per quelle scarpe slave abbandonate sotto i Portici di Chiozza che hanno conquistato Trieste? Qui i piedi nudi non sono anabasi, marcia, fuga e attacco nella foresta, agguato della fiera senza far rumore, zampa nuda per arrivare alle spalle di chi le punta contro il fucile, ma sono solo piedi zotici e sporchi di chi non ha imparato la civiltà, l’educazione, e non ha diritto di scendere in città. Almeno senza essere canzonato per i suoi piedi sporchi da chi può comprarsi scarpe Ferragamo. Quei piedi derisi e umiliati hanno scalato combattendo il monte Kozara in Bosnia, hanno sguazzato nella Neretva e nella Sutjeska rossa di sangue, sconfiggendo i nazisti, l’esercito più forte del mondo; hanno camminato per tutta la Jugoslavia ferendosi e sporcandosi, quel fango e quel sudiciume sono la loro gloria, i calzari alati della libertà che incalzano a poco a poco l’invasore nazista e fascista in fuga. Quei piedi, Via Crucis e crocifiggente. Calcio che dà il ribaltone.
Giacca del generale Linkenbach – È l’uniforme che mi ha donato, sfilandosela dalle spalle, alla fine delle trattative per la resa; era rimasto solo lui, con alcuni reparti della Wehrmacht e della Kriegsmarine, a comandare la città, dopo la fuga di Rainer e di Globočnik e la ritirata verso l’Austria della maggior parte delle forze germaniche. È a me che si è arreso, sono io che gli ho fatto grazia della vita. Se non ci fossi stato io a fare da interprete sarebbe avvenuto un macello – dico un macello in più.
Il generale Linkenbach non sa l’inglese e il generale Freyberg e il colonnello McDonald non sanno il tedesco, ma ci sono io, ne parlo sette, di lingue, e ne capisco undici o dodici... Il generale Linkenbach vuol trattare la resa, io traduco e rido, c’è poco da trattare e i britannici potrebbero semplicemente far sparare pochi colpi e stendere quei quattro gatti, ma trattare è bello, dal mattatoio si passa al salone della Storia; io traduco e la meno in lungo, faccio finire questa seconda guerra mondiale, almeno in Europa. Il generale Linkenbach firma la resa, non ha una sciabola da consegnare e alla fine si toglie la giacca; la indosso subito, è un po’ sciupata ma non molto, se avessi un manichino la appenderei, non c’è, bella pretesa, un attaccapanni in questa situazione. A considerable Contribution to the Alliance Cause, mi certificherà il colonnello McDonald.
Ho anche cercato di dire sia al generale Linkenbach sia agli inglesi sia agli jugoslavi quello che volevano sentirsi dire – entro certi limiti, si capisce, non potevo rischiare che si accorgessero di questi ritocchi, diciamo così, che facevo a ogni discorso – e così tutti alla fine erano contenti. Il generale Linkenbach si godeva la dignità di una nobile sconfitta e il cameratismo d’armi col generale Freyberg, gli inglesi pensavano di aver fregato i titini e i titini di aver fregato gli inglesi; per evitare scontri ancora più aspri, ho tagliato, traducendo, parecchie frasi del rappresentante del CLN, quelle in cui ricordava gli impiccati di via Ghega – cinquantuno – e rivendicava l’italianità di Trieste. Insomma, ho diretto le operazioni.
Quella giacca è mia. La indosso volentieri, qualche sera. Mi siedo al mio tavolo e mi metto a firmare fogli di carta bianchi. Firmo la resa, la capitolazione. Di una guerra conta solo la fine, la resa, con cui inizia la pace. Firmo ora con il mio nome ora con quello del generale. Firmare ovvero abdicare, capitolare. Combattere e perdere. Basta vedere in che stato miserando sono stati ridotti tutti questi cannoni, tank, aerei, mitragliatrici, fucili che ho raccolto.
Sella – Sella da endurance, dal fusto cavo «a serbatoio» ottenuto tramite stampaggio rotazionale, per distribuire il peso del cavaliere su tutta la parte e non solo su alcuni punti della schiena dove poggia la sella, consentendo inoltre un passaggio d’aria tra la sella stessa e la schiena del cavallo, che favorisce la traspirazione. Ce n’erano veramente due, di selle, ma l’altra non è stata recuperata. Su quelle selle caracollano per le vie di Trieste il comandante Sasso e il commissario politico Vanni Padoan della divisione Garibaldi-Natisone, la divisione partigiana italiana comunista sottoposta al Comando jugoslavo, intenzionata a combattere sul Carso contro i tedeschi e a liberare Trieste, ma inviata invece ad attaccare i domobranci a Kočevje e a liberare Lubiana, mentre la Brigata partigiana italiana Fontanot, disarmata dagli jugoslavi, è stata inviata a riparare ponti e strade nella Suha Krajina, a trecento chilometri di distanza.
Il comandante caracolla, la gente lo guarda appena, passa oltre; lui è ancora più imbarazzato di loro, meno male che vicino a lui c’è il commissario politico della divisione, non è che abbiano qualcosa da dirsi, ma comunque fa bene, c’è sempre qualcosa da dire guardando il mondo intorno o anche solo le nuvole che passano ora più lente ora più veloci delle ore.
È il 20 maggio, non il 1°, come avevano sperato e creduto incalzando i tedeschi nella valle del Natisone. La Brigata Garibaldi, italiana e comunista, che libera la frontiera orientale dai nazisti e dai fascisti e massacra la Brigata Osoppo italiana e democratica. Svoboda narodu, libertà ai popoli; la Garibaldi-Natisone voleva essere lei a darla agli italiani e agli sloveni di Trieste, e invece gli jugoslavi li hanno mandati a liberare Lubiana, il 6 maggio. È una bella cosa, quasi un gesto doveroso, visto che il Duce aveva proclamato Lubiana provincia italiana; ora è giusto e bello che arrivi un italiano con le armi in pugno e il sangue dei compagni caduti – dei compagni italiani caduti per la libertà di italiani e slavi. Un italiano a liberare Lubiana da nazisti, fascisti, domobranci, belogardisti. Ma poi loro vogliono andare a Trieste, liberare insieme ai compagni slavi la loro Trieste e quando il Comando supremo sloveno si oppone si mettono in marcia a piedi, verso Trieste. È lì, è a Trieste che la guerra deve finire e che deve incominciare il mondo nuovo della libertà e della fratellanza socialista.
Si sono mossi a piedi, non su quei due bei cavalli bianchi che ora li portano a spasso per la città come in altri momenti le carrozzelle portano turisti e bambini. Andranno a Trieste a piedi e se gli jugoslavi vorranno fermarli peggio per loro, per tutti; se un fratello colpisce un fratello poco importa quale fratello colpisce quale altro, se Abele faceva fuori Caino era la stessa cosa. Noi abbiamo combattuto, siamo morti anche per Trieste e abbiamo il diritto e il dovere di esserci quando la città viene liberata, anche grazie al nostro sangue versato. Per fortuna gli jugoslavi, visto che eravamo così decisi, hanno mollato, ci hanno dato pure qualche autocarro per andare a Trieste e così ci siamo arrivati – ma il 20 maggio, a cose fatte, qualche giorno dopo che gli jugoslavi avevano aperto il fuoco su una dimostrazione filoitaliana facendo morti e feriti.
Cosa fare, se si arriva il 20 e non il 1° maggio? Gli danno due bei cavalli bianchi, due lipizzani presi nella scuderia che non sfigurerebbero a Vienna, dove peraltro in quei giorni si hanno altre cose di cui preoccuparsi piuttosto che di lipizzani bianchi. E i due attraversano la città a cavallo, due corridori fuori tempo massimo. Le Rive sono splendide come sempre, spume bianche in un blu immenso che sfuma nel viola delle lontananze. Un incantevole Ring viennese si affaccia sul mare: i due cavalieri attraversano la piazza Unità, sopra di loro statue neoclassiche vantano glorie emporiali passate, splendidi set abbandonati di un film non più in circolazione. Due partigiani a cavallo passano sotto le statue dell’imperatore Carlo e dell’imperatore Leopoldo, risalgono il viale XX Settembre dove è già estate, una sera precoce nascosta fra i rami che presto si dilata e si sparge come vino scuro da rotto cratere, abbrunando il cielo e le facciate delle case. I due cavalcano, in fondo al viale c’è Villa Orientale, modesto ma affidabile bordello che ha visto giorni migliori. Più in su ancora c’è San Giovanni, dove aveva messo le tende il circo di Buffalo Bill e falsi veri indiani giravano a cavallo, onore al Sachem al comandante e ai loro guerrieri, con le piume e la stella rossa. Il comandante si ricorda di quando giocava da ragazzo agli indiani; non ha il diadema di piume, è vero, ma ha il cavallo bianco, dono del Komanda Mesta Trst. Del resto tra le divise scalcagnate della Garibaldi-Natisone e le giacche e i cappelli cenciosi degli Apaches, così come si cominceranno presto a vedere nei film, non c’è poi tanta differenza.
Alle 17.30 del 2 maggio le campane di San Giusto suonano a distesa; è la pace, anche se nei pressi del tribunale si spara ancora. Rintocchi nell’aria, particelle entrano in vibrazione e i cieli si inarcano curvi sul mondo, una volta celeste e dolcemente sonora, un unico suono che si ripete e si dilata come cerchi concentrici nell’acqua. La volta del cielo vista dal basso è una grande campana celeste – chissà che colore ha la cupola del cielo vista dall’altra parte. Il suono si trasmette per onde, onde azzurre si espandono, si arricciolano nell’aria; i suoni rintoccano sempre uguali sempre più vicini sempre più lontani, scorrono e fluiscono, creste di spuma sulle onde del mare. È stato Vitruvio il primo a scoprire un’analogia fra la meccanica dell’espansione dei suoni e i movimenti delle onde in speciali specchi d’acqua. Non si sentono gli spari; dalle canne dei mitra e di qualche carro armato escono ancora ma ormai sono infrasuoni, no, ultrasuoni, sempre meno, forse non esce più niente; il soldato tedesco che spara da un gabbiotto all’incrocio di due strade lascia cadere il mitra allarga le braccia e stramazza ma senza rumore, un film muto, rintocchi di campane che alla fine sembra di non udire più.
La volta si abbassa, è una calotta, una cappa sempre più vicina, sopra le teste; un coperchio messo sulla terra e i rintocchi allora rimbombano assordanti, scoppiano come bombe nelle orecchie e nel cervello. La velocità del suono, dice il tachimetro, è circa 340 metri al secondo, ma sotto le bozze del tumore frontale i suoni arrivano velocissimi, fulminei, a una velocità travolgente. Le campane dondolano come altalene al sole; s’intravvede il giallo luminoso della loro concavità illuminato dal raggio del sole, un raggio abbagliante, un calice d’oro e di pace, ma il suono arriva all’orecchio ancor prima di quel balenare. Zeitrafferphenomen legge sovrana del cosmo, il glioblastoma se ne infischia delle leggi della fisica, della natura; vede correre tutto intorno a sé e corre sempre più velocemente, anche la guerra se ne infischia della natura, delle leggi fisiche. L’atomo è indivisibile ma la guerra lo spacca e tutto salta in aria in un istante, il suono scoppia nella testa, una bomba squarcia miliardi di cellule, un milione di miliardi di connessioni per ogni testa che giace immobile e insanguinata per le strade di Trieste. Quanti miliardi di miliardi di cellule e di connessioni ha la Storia? «Per la sua estensione», dice il referto della risonanza, «il tumore è giudicato inoperabile.»