STORIA DI LUISA II
Zia Nora e zio Giorgio – Gershom, quando sarebbe venuto il suo momento, in cui si chiama col suo vero nome chi scende nella fossa – non frequentavano molto, aveva raccontato a Luisa la mamma. Ogni tanto una cena, un dopocena con musizieren; le loro due figlie, sue cugine, suonavano discretamente il violino – oh, niente yidl mitn fidl e altra roba da ghetto, precisava lo zio; musica beffarda e struggente davanti alla vita e alla morte, d’accordo, ma il Dudel – Dudel non fa per noi, non siamo zingari e da noi si suona grande musica classica, da buon salotto triestino di una volta. Sara non sapeva suonare, a Salvore violino e violoncello non sono proprio di casa, semmai la fisarmonica; ma lei amava la musica di quelle sere, diceva anzi che in quella musica c’era tutta la vita.
Anche l’amore non corrisposto, come il mio per la musica, aveva detto una volta. Sì, all’inizio, quando è venuta a stare con noi, era malinconica, aveva ricordato – ma molto più tardi – zia Nora, ma c’era tanta vita in quella malinconia, mentre poi... In quella musica, aveva aggiunto Sara, c’è la legge più profonda della vita. Forse pure dell’amore, zio Giorgio, l’amore è tutto ciò che non si ha, che non ho, anzi l’amour c’est tout ce que l’on n’a pas, me l’ha fatto leggere in un libro la mademoiselle che mi dà lezioni di francese. Gli zii avevano pensato anche a questo, com’era tradizione, senza peraltro rinunciare alle lezioni di tedesco della Fräulein, si capisce, in famiglia si era sempre saputo alla perfezione il tedesco e non sarebbe stato certo un Hitler qualunque a far cambiare loro tradizioni, predilezioni e abitudini. La musica che Sara non avrebbe mai saputo suonare diceva l’essenza stessa della vita, ovvero diceva che quest’ultima non sarebbe mai stata, in quel futuro palpitante e fluttuante come il baluginìo del mare, veramente la sua vita e che per lei vivere avrebbe significato riecheggiare dentro di sé quell’assenza.
Comunque, a parte il musizieren, alle ragazze, a lei come alle cugine, piacevano anche cose più amabili e divertenti, uscire con amici e amiche, incontrare persone, ballare, cosa che è possibile e piacevole anche per chi non sa suonare la musica di quel ballo. Così, quando la signora Preston – la moglie del maggiore Preston, un ufficiale americano del Governo militare alleato che reggeva dalla fine della guerra il territorio di Trieste reclamato dalla Madre Patria e sul quale il maresciallo Tito protendeva avide mani che le vignette dei giornali italiani mostravano come piedi dalle dita tozze e sporche – li aveva invitati a una delle serate nella sua villa di Scorcola, gli zii avevano ringraziato ma declinato, forse perché non avevano troppa voglia di vedere alcuni ospiti che presumibilmente avevano frequentato pochi anni prima altre serate e ufficiali di altri eserciti. Tuttavia le cugine, con una certa amabile prepotenza filiale, avevano ottenuto il permesso dei genitori di accettare l’invito della gentile e giuliva signora e avevano cominciato, ogni tanto, a frequentare le belle ville con vista sul mare e un paio di camerieri in giacca bianca, piacevole brusìo di parole confuse nel vento sulla terrazza col tintinnare dei bicchieri e talvolta, per i più giovani, qualche giro di ballo. Non che fossero granché, quelle sere, ma sul mare che si vedeva dalle terrazze si accendevano braci viola e arrivava un vento che, Sara lo sentiva, doveva essere passato per Salvore.
Non si parla della guerra, in quelle sere. Non di quella finita, se si può dire così. Un po’ di quelle in Africa o in Asia, che sono lontane e non c’entrano né con i tedeschi né con gli italiani né con gli slavi. C’entrano con i comunisti, che ci sono dappertutto, in tutto il mondo. Un po’ di politica, specie locale, visto che gli invitati sono, più o meno, quelli che contano in città; il Territorio libero, le pretese di Tito, le ferite della città mutilata. Ma non ci sono teste calde, su quella terrazza. Neanche sulla terrazza della villa del colonnello Lerch, qualche tempo dopo, una bella villa che il colonnello ha affittato per un paio d’anni sul Carso, perché Trieste gli è rimasta nel cuore e per quegli ufficiali alleati, anche se fino a poco prima nemici, sente una sincera fraternità d’armi. Bastano pochi, pochissimi anni, e non conta più se quella trincea la si è difesa oppure conquistata; in ogni caso, da una parte o dall’altra, con bravura e coraggio. Chi è questo Lerch, aveva chiesto Sara agli zii, domandandosi pure perché trovasse vagamente repellente quel signore compìto, col suo viso banale e le sue labbra dure e vili. Un austriaco, aveva risposto suo zio senza alzare gli occhi dal giornale, il presidente dell’Associazione degli esercenti di Klagenfurt, dove ha anche un bel Caffè. E aveva cambiato discorso.
No, neanche Lerch era stato la causa dell’emicrania. Nemmeno quando Sara, improvvisamente avida di sapere – non capiva ancora cosa, un segugio che fiuta un odore confuso ma irresistibile che comanda di essere seguito – si era messa a indagare chi fosse quell’uomo, quel presidente degli esercenti, che il maggiore Preston e anche altri ufficiali americani e inglesi chiamavano colonnello. Speravo che lasciasse perdere, avrebbe detto più tardi zio Giorgio, ma... Non che molti avessero una gran voglia di parlarne. Anzi. Neanche i suoi zii. Finché Sami Goldfaden, il sarto che era scampato alla Risiera salvando la vita – e, a quanto pareva, a differenza di altri sopravvissuti, pure la lingua e la voglia di parlare – si era sbottonato. Colonnello Ernst Lerch, capo di stato maggiore di Globočnik ovvero del Höherer SS- und Polizeiführer per il Litorale adriatico, boia in capo alla Risiera, addetto a inviare i prigionieri della Risiera alla piccola camera a gas locale o nei campi di sterminio in Germania o a eliminarli personalmente. SS-Hauptsturmführer Lerch, addetto al mattatoio e ora ospitale e ospitato partecipe della dolce vita triestina. Niente di speciale, modesta e piccola ma pur sempre dolce vita di provincia, di una provincia amputata da una cortina di ferro e che cerca di svagarsi in attesa che il sipario si alzi o anche non si alzi, dopotutto si è per fortuna dalla parte giusta del teatro, seduti su belle poltrone davanti al sipario calato a chiacchierare, salutarsi, incontrare conoscenti, come avviene appunto agli spettacoli; complimenti, dice ancora salutando, secondo l’uso triestino di un tempo, qualche signore più attempato.
No, non erano state quelle strette di mano e quei convenevoli tra l’assassino e tante altre persone perbene a inturgidire quella vena che sporgeva talora improvvisa sotto la tempia di Sara. Scoprire che quelle belle terrazze illuminate erano l’altra facciata della Risiera – il salotto buono, di rappresentanza, di quello come di tutti i mattatoi – non l’aveva fatta vomitare; il suo stomaco non aveva reagito al male con quella debolezza dei moti peristaltici che, come del resto le lacrime facili, è propria delle anime troppo delicate per guardare e toccare il male, per pulire se necessario anche con le unghie lo sterco sanguinolento che monta da ogni parte. È facile vomitare; però è anche facile impedirlo, le pillole contro il mal d’auto sono efficaci pure per la nausea delle coscienze sensibili. Lei aveva sputato, quando aveva saputo che un sadico e ottuso boia, un imbecille burocrate dell’assassinio, è una persona come si deve, bene accetto a persone perbene che non farebbero male a una mosca – diciamo, per prudenza, che non hanno mai fatto male a una mosca, perché bisogna vedere cosa avrebbero fatto se si fossero trovate in una situazione in cui è normale spargere insetticidi e non solo sulle mosche.
Aveva sputato; uno sputo forte e ricco di saliva, cosa che non è da tutti in certi momenti. Nessuna contrazione coatta che sale dallo stomaco acido e stretto, bensì uno sputo aspro, succoso, voluto e consapevole – per il momento per terra, su alcune mattonelle in cui si specchiavano le facce cui appartenevano i piedi che ballavano su quelle stesse mattonelle. Meno male che c’era la morte e che tutte quelle facce ben curate e sorridenti sarebbero scomparse anche loro, carne che marcisce sotto terra e non è meglio del fumo che si dissolve nell’aria. Certo, era ingiusto che vittime, carnefici e beneducati equidistanti finissero tutti nello stesso concime, in breve tempo amalgamati e non più distinguibili; quest’uguaglianza nell’assoluto era orribile, era falsa, gli uomini non sono uguali, chi strappa i genitali al prigioniero non è uguale al prigioniero cui vengono strappati e se anche chi tortura è fatto a immagine e somiglianza di Dio, mi dispiace per i miei antenati, ma Abramo ha fatto male a fracassare quei simpatici idoli di legno di suo padre che non facevano male a nessuno, per mettersi in combutta con il Signore solo perché era un Padre padrone più potente.
Sara si era sentita stranamente libera, dopo quella orribile scoperta. Selvaggiamente libera, in una inappartenenza assoluta; non apparteneva a niente e a nessuno, solo a quel barbaglio delle onde sugli scogli di Salvore e a quel mucchietto di cenere dispersa che era, adesso e per sempre, nei secoli dei secoli, sua madre. Le sue radici erano in quel nulla, nel nulla di un blu d’acqua tremante nel raggio di sole che lo trafigge e di un pulviscolo che non c’è, che è come non fosse mai stato, in quell’aria che cambia colore nel passare delle ore. Vi era certo qualcosa di doloroso in quella libertà vertiginosa, lontana da tutto e da tutti; la ferita di un grido che screzia l’aria vuota, di un’ala che la taglia e precipita – oh se si potesse essere ancora più liberi, più vuoti più abbagliati da quell’azzurro infuocato, bruciati e arsi nel cuore fino a essere una manciata di braci presto volatilizzate, i pensieri sotto la scatola cranica solo molluschi nell’alvo di una conchiglia che li protegge dai predatori. Si soffrirebbe di meno, in quella libertà vuota e vertiginosa in cui non si è ancora nessuno, solo un briciolo di vita ancora incosciente.
Per Sara il dolore, il vero dolore era arrivato dopo e di colpo – ma era il nome giusto per il masso staccatosi d’improvviso dal monte e piombatole addosso, un meteorite caduto dal cielo che buca la terra e distrugge non poveri dinosauri ma esseri ben più agguerriti, con un cervello più grosso e pesante di quello dei rettili giganteschi e remoti? Quel masso piombato dentro il cervello rende la testa ancora più disastrosamente pesante, un carico che la squilibra, la fa cadere da tutte le parti.
Breve la vita felice di aver sputato sulla scoperta che gli assassini non mettono a disagio i buoni quando sanno comportarsi bene come loro. Era finita quando Sara era riuscita a rintracciare Ester, un’altra sua cugina – seconda cugina – e amica d’infanzia, che non aveva visto da quando era ritornata da Salvore e di cui sapeva solo che i suoi genitori, il dottor Simeoni e la moglie Gabriella, e il fratello maggiore Ettore erano morti nella Risiera, arrestati d’improvviso in una casa dove si erano nascosti e dove – come aveva saputo ma quasi per caso, il tono con cui gli zii ne avevano accennato era stato particolarmente frettoloso – era stata nascosta anche sua madre, nonna Deborah, che poi, avventata e imprudente com’era, un giorno era uscita ed era stata arrestata per strada, evidentemente indicata ai tedeschi da qualche miserabile che l’aveva riconosciuta.
La casa in cui la famiglia Simeoni si era nascosta ed era stata arrestata d’improvviso era un rifugio sicuro e insospettabile, la casa dell’avvocato Radich poi Radice, vecchio amico di famiglia, fin da quando all’inizio del fascismo si erano trovati insieme in simpatico accordo col regime, come molti ebrei triestini del resto, massoni e irredentisti innamorati dell’Italietta anticlericale e dell’italianissima Trieste, come Salem, il migliore dei suoi sindaci o meglio podestà, sempre rimpianto per come teneva pulita la città; rimpianto anche da molti di quelli che nel ’38, con le leggi razziali proclamate dal Duce proprio a Trieste, avevano dovuto dimenticarlo o far finta di dimenticarlo.
Rifugio sicuro, dunque, la casa dell’avvocato Radich-Radice, di vecchia famiglia irredentista e ariano al cento per cento oltre che, a suo tempo, fascista – per essere precisi, filofascista ma sincero – della prima ora. E invece, quella notte, un paio di giorni dopo che nonna Deborah era stata rastrellata, i Simeoni erano spariti tutti e tre; neanche mezz’ora tra l’arrivo delle SS e loro scaraventati in un camion e sbattuti in Risiera. Anche l’avvocato l’aveva pagata in modo definitivo. È pericoloso quando i quasi buoni, come tanti suoi colleghi e amici piazzati niente male nelle assicurazioni, nelle società di navigazione o nelle industrie, si mettono a fare i buoni sul serio, come nel suo caso. Si finisce male. Ester era scampata miracolosamente, nascosta terrorizzata in uno sgabuzzino sfuggito all’attenzione dei razziatori.
Sara si era stupita che Ester avesse tergiversato prima di incontrarla e che, quando si erano viste, fosse stata così strana, quasi ostile, certo imbarazzata. Forse era giusto, era ovvio; non è bene che quelli che ritornano dal regno dei morti si mettano a chiacchierare fra loro. Si può immaginare Lazzaro che incontra per caso qualcuno conosciuto laggiù, con la pelle divenuta là sotto livida e bluastra come la sua e rimasta così anche dopo il ritorno, e che i due si salutino, si raccontino di come dopo sono andate loro le cose? No, non c’è alcun «dopo» la Risiera; nessuno che esca incolume dall’arca, che si culla lieve dopo il diluvio sul mare tornato tranquillo, e sbarchi in una bella terra. Nessuno è sopravvissuto al diluvio, comunque ce la raccontino, perché il diluvio non è mai cessato e il mare è sempre furente. Solo i pesci si sono salvati, indifferenti alle acque in tempesta.
Sara aveva dunque accettato come una cosa forse inevitabile quel silenzio arido, quasi aggressivo, tra lei ed Ester. Solo una volta, salutandola, colta da una commozione che le saliva in cuore inarginabile come un fiume in piena e già sgorgava scomposta dai suoi occhi, l’aveva abbracciata e aveva singhiozzato qualcosa sulle loro madri, portate via da quella casa e assassinate a pochi giorni di distanza, ma Ester l’aveva respinta con violenza, il viso improvvisamente duro, feroce. Lascia stare mia madre, aveva detto, protendendo il viso in avanti, contro il suo, e non nominarla insieme alla tua. Voleva dire ancora qualcosa, ma poi si era voltata ed era fuggita. Qualche giorno o settimana dopo, quando per caso si erano incrociate per strada, Ester aveva girato il volto dall’altra parte; un volto che era come se, per un attimo, avesse ceduto, occhi che si aprono, si spalancano in uno spavento, lineamenti che ricevono l’ordine di rompere le righe. E aveva affrettato il passo, una vera fuga.
Sì, certo, sarà anche per questo, aveva risposto zio Giorgio cambiando poi discorso quando Sara gli aveva detto che Ester doveva essere ancora sconvolta per la morte dei genitori e del fratello, per l’ossessione di quella notte in cui li aveva visti portar via, portare alla morte. Avrei voluto chiederle qualcosa di mamma, aveva continuato Sara; in fondo Ester l’ha vista, le ha parlato, ha vissuto con lei fino alla sua fine, mentre io dopo quel giorno dell’arrivo a Salvore, quando mamma mi ha messo in braccio ad Anna stringendomi fino quasi a farmi male e poi si è voltata ed è andata via, non l’ho vista mai più. È sparita in quel sole fiammeggiante del tardo pomeriggio che accecava e dissolveva le cose e le figure. Vorrei poterla vedere, almeno immaginare in quell’ultimo periodo della sua vita che ignoro... Magari, in un momento di calma, forse Ester mi racconterà qualcosa... Zio Giorgio aveva continuato a leggere il giornale, mentre zia Nora, senza dire niente, era andata in cucina dove si era messa a lavare rumorosamente qualche tazza e qualche piatto. Anche là, nella casa degli zii che era adesso la sua, era sera, come quella volta a Salvore; ma la luce calda che entrava dalla finestra non accecava, si posava pacata sui massicci mobili di legno scuro, li illuminava e li faceva risplendere di una tranquilla regalità sabbatica. Be’, vedremo, aspetta, magari lascia che te ne parli lei, quando se la sentirà, aveva detto zio Giorgio, concentrato sul giornale, e si era acceso un sigaro, ma non come sempre, col gesto calmo e soddisfatto di chi gusta un piacere, bensì con una mano inquieta, dita che si muovono tanto per fare qualcosa.
Sara non si era chiesta, all’inizio, perché nessuno, specie tra i parenti e i conoscenti ebrei, ricordasse mai la mamma. Venivano fuori nomi noti vagamente ma anche ignoti, lontani, seguiti da un participio passato passivo più o meno uguale, bruciato a Majdanek, incenerita a Treblinka... Anche quei nomi, peraltro, saltavano fuori non nei ricevimenti dai Preston o dai Müllerbrunn, grandi anfitrioni di serate in cui era chiaro che nessuno dei presenti voleva sentir parlare di brutte e tristi cose del passato che guastassero la festa. Tutto è già così difficile e basta il domani a dare angoscia, non occorre aggiungere le brutture di ieri. Quando invece, non in belle serate sulle terrazze di ville ma in raccolti salotti, ci si ritrovava tra famiglie di sopravvissuti, almeno in parte, o ritornati, era come se, parlando con calma e modestia, fra parenti affiatati ma che non si prendono troppe confidenze e parlano di tutto con pacatezza, scorresse, non detta ma udibile, la recita di un Kaddish e allora i nomi venivano fuori, sempre con misura. L’orrore non era stato più forte della Kinderstube, almeno non al punto da cancellarla.
I nomi venivano fuori, ma non quello di sua madre, pensava e si stupiva Sara. Finché un giorno, quel giorno... Sara aveva chiesto allo zio di Grini, l’ebreo delatore insieme a sua moglie Maria di tanti ebrei finiti come ci si può immaginare grazie alla loro denuncia, anche se non per questo Grini e la moglie erano scampati alla morte.
Sia benedetto l’Altissimo, aveva detto Sara, mi fa più piacere la loro morte da cani di quella da cani dei loro boia. Ma erano gli unici, dico qui a Trieste, a... C’era qualcun altro infame come loro? Sì, qualcuno, aveva detto in fretta la zia, ma lo zio l’aveva interrotta, chiedendole quando sarebbe stata pronta la cena. Anche a me, aveva detto Ester, rimasta sino a quel momento zitta nell’ombra, guardandola con rancore, anche a me fa piacere che qualche carogna come quelle sia finita in quel modo, anche se mi fa orrore che la cenere dei giusti possa essere mescolata con quella dei complici degli assassini ancor più assassini... «Chissà», aveva detto Sara, quasi fra sé, «se anche mia madre, quando è uscita da quella casa in cui era nascosta con voi, è stata presa anche lei così, magari riconosciuta da qualcuno che era corso a denunciarla.» «Sta’ zitta, almeno! Tua madre...» aveva urlato Ester, e poi era scappata di corsa da quella stanza piangendo, no, non piangendo, il suo era un rauco indistinto ringhiare, un cane che vuole sbranare ma si trattiene perché sa che non deve non può, fugge perché sa che non potrebbe trattenersi. Ma sua madre, ricordava Luisa, nelle rare occasioni in cui le aveva raccontato di quel periodo solo una volta aveva accennato a quella furia improvvisa di Ester e poi aveva taciuto.