CACTUS MARCESCENS HITLER

Metterne tanti sotto il culo dei tedeschi, pensa Frič spostando il grande vaso – quel cactus sarà alto ottanta centimetri, con un diametro di un metro e mezzo – verso un angolo del suo stanzone, strapieno di casse, il posto meno umido ma anche riparato dal sole di mezzogiorno, che l’Echinocactus non ama.

Trenta casse piene di trofei, piume, pellicce, piante esotiche marcite, diari di viaggio, fotografie del Mato Grosso che nessuno vuole; gli unici mobili del suo appartamento in via Náplavní, che il suo amico Bohumil Kafka, col suo talento di scultore, ha arredato con quelle casse, stendendo fra l’una e l’altra delle amache per dormire, visto che non c’era spazio per i letti e così, quando c’era ancora Čerwuiš, ogni tanto dormivano altri amici in quella giungla impacchettata, morta o forse solo assopita sotto i vecchi timbri delle Poste imperialregie ancora stampati sulle casse. In ogni caso i grandi cactus avvizziti che sporgevano qua e là pungevano ancora, puma impagliati e dagli occhi di vetro ma pur sempre in agguato, specie di notte se li si calpestava scendendo mezzi addormentati dall’amaca. Il peggio era quando, in sua assenza, qualcuno che aveva bisogno di una cassa entrava dal portone scalcagnato e semplicemente ne prendeva una vuotandola sul pavimento, pelli di guanaco o di giaguaro, quaderni del suo dizionario di trentasei lingue amerindie, pomodori marciti, tutto sparpagliato in mezzo a grandi fiori scarlatti secchi, una pozza di sangue raggrumato e tranquillo.

Da quando è partito Čerwuiš, c’è una sola amaca, la sua, sospesa nella giungla di cactus; se le cordicelle si allentano, come talora succede, specie di notte, l’irta sommità di un Cereus giganteus gli punge la schiena o il sedere. Lui si sveglia e ne approfitta per lasciar penzolare il braccio fuori dall’amaca e cercare, a tentoni, di staccare uno o due piccoli frutti rossi, che hanno un buon sapore. Sporgendo un po’ la testa vede la Copiapoa cinerea, una palla da guerra con le sue spine intrecciate in un fantastico arabesco; le incisioni che dividono le sue costolature sono ferite da taglio, è una medusa appallottolata nelle acque della notte.

Non è male vivere in un acquario, in una Praga occupata dai tedeschi; se quelle spine fossero veramente avvelenate e non buone solo a provocare piccole infiammazioni, basterebbe una sola Opuntia, con i suoi milioni di spine, ad annientare il Terzo Reich. È da molti anni, da quando c’era ancora Čerwuiš, che lo stanzone è pieno di cactus e di scartafacci sui quali Frič sta scrivendo la sua opera monumentale sulle Cactacee. Alcune fioriscono di giorno, altre di notte; fiori si aprono e si chiudono, un’onda fluttua e trascolora in un vento, i fiori verdirossicci del Cereus si rovesciano, il bianco del loro interno è una cresta di spuma, la chioma lanosa del Cephalocereus senilis sprofonda come la testa canuta di un vecchio marinaio inghiottito dalle onde. L’Echinocereus pentalophus è uno squarcio nel buio da cui esce un fiotto di sangue, soli si accendono e collassano, falangi di scudi trafitti da frecce, lance protese a difendere la nave arenata sul lido; stelle esplodono, buchi neri inghiottono corolle, nuvole lanose si avvolgono e d’improvviso quella vaporosa lanugine estrae gli artigli sottili che trafiggono in profondo.

Guerra o amore, bellezza ammaliante di grandi manovre, improvvise pugnalate al cuore. Galassie si espandono e contraggono, l’asino vuol mangiare il cactus del fico, il nopalnocheztli come dicono i messicani, ma piccoli vermi, bianchi di fuori e vermigli di dentro, strisciano bavosi sulle foglie e respingono la lingua ruvida dell’asino, che si ritrae non senza aver schiacciato involontariamente qualche altro cactus che cerca di spuntare, un meteorite si brucia nella notte. Ovuli femminili, fusti fallici pelosi, lanugini pelviche nascondono aculei come la vulva dentata dei Chamacoco, l’Euphorbia aeruginosa si rizza come un nido di serpenti, la Hoodia gordonii è una farfalla che si posa sulle spine troppo leggera per essere ferita, l’Astrophytum asterias arriva a quattro centimetri di altezza e il Cephalocereus a quindici metri. Alcuni vivono anni, altri decenni, altri secoli, come la Carnegiea gigantea. Anche l’Impero absburgico è durato secoli. I fiori della Regina della notte, Selenicereus grandiflorus, solo poche ore notturne. Quanto durerà il Terzo Reich?

Non se la passa un granché, Frič, anzi sempre peggio. Le centocinquanta corone ricevute dal Museo Náprstek le aveva accettate – più nolente che volente, lui che aveva ucciso un giaguaro in un corpo a corpo (o quasi) e aveva trattato da pari a pari con i capi delle più grandi tribù – quale anticipo di vaghe collaborazioni future e ben sapendo che si trattava di fatto di un’elemosina, solo perché non aveva avuto il coraggio di dire di no all’energica signora Náprstková, la quale forse pensava che in una città piena di santi di pietra e di bestemmiatori gonfi di birra si poteva pure ogni tanto fare una buona azione. Non per questo lui aveva cessato, neanche quando le centocinquanta corone stavano per finire, di prendersela spavaldo con tutti, con quei rispettabili padri di famiglia che gli rinfacciavano la moglie indiana, Lora-y, Cana Nera, e la figlia Hermina lasciate sulle rive del Paraguay, ma avevano l’amante a Modřany, e denunciando scienziati imbroglioni e gazzettieri che scrivevano delle Indie senza averle mai viste, finché non solo il «Prager Tagblatt», ma anche il «Národní listy» e i fogli parrocchiali avevano smesso di pubblicare i suoi articoli, che invece le Accademie di mezza Europa e le loro miscellanee onoravano ma senza sborsare un quattrino, perché le Accademie, e specie le più illustri, non hanno soldi da erogare ma hanno bisogno di soldi, come i mendicanti sul Ponte Carlo che magari suonano il violino meglio degli orchestrali del Teatro Smetana ma con quello che finisce nel cappello teso ai passanti non riescono neanche a pagarsi un cappello nuovo, specie se non sono disposti a rinunciare alla birra Staropramen e neanche al burčák in quel paio di settimane dopo la vendemmia in Moravia, quando lo si può bere pure in qualche osteria di Praga. Da quando non teneva più neanche quelle conferenze all’Unione dei giornalisti, anche perché senza Čerwuiš attiravano meno gente, le cose andavano ancor peggio.

E hanno coraggio di chiedermi perché quella volta ho portato con me Čerwuiš e ho lasciato là mia figlia Hermina? Ma perché lei là sta bene, e anche Lora-y, Cana Nera, sua madre. Vorreste che le avessi portate a Praga, spaventate come uccelli notturni da un sole improvviso e impazzito che sorge a mezzanotte – dei-ć, il sole, è nemico dei Chamacoco – perché gli ubriachi mettessero loro le mani addosso? Abbandonate? Salvate, piuttosto, da questa selva di croci uncinate che è ben peggio della giungla di laggiù. Che ne sarà di noi, piuttosto...

Il professor Viktor Krahulík, professore alla Karls-Universität, la più antica università tedesca, sta scrivendo la sua monumentale storia della Boemia, da Libuše – insomma dai Přemyslidi, contestando Boleslaw I per l’unione della Boemia al Reich – sino al presente. È da anni che la scrive, voleva finirla nel primo decennale della libera repubblica ma le storie sono complesse, si ingarbugliano, quella monografia doveva arrivare alla cronaca del giorno in cui l’avrebbe consegnata all’editore, un’idea che gli dava tranquillità; quando si è scritta tutta la propria storia si è a posto, non occorre più arrabattarsi per vivere, tutto è già accaduto, ma mentre la stava finendo, quella mattina del 15 marzo, e voleva andare a leggere i giornali al Caffè, alle 10.42 i Panzer e i cannoni tedeschi erano già schierati in piazza Venceslao davanti al monumento del santo patrono. V Praze je klid, Praga è tranquilla, annunciavano i giornali; l’Ordine degli avvocati e quello dei medici intimavano ai loro membri ebrei di scegliersi dei sostituti ariani, Kde domov můj, dov’è la mia casa, dice l’inno nazionale céco. Krahulík non finisce la storia della Boemia, è già finita, non c’è bisogno di concluderla. Frič invece non molla la sua opera sulle cactacee, O kaktech a jejich narkotických účincích, I cactus e i loro effetti narcotici; non sa neanche lui se si tratta di medicina o di veleni, non c’è molta differenza, l’oppio col quale si aiuta un povero diavolo spacciato e sofferente a patire meno ma anche ad andarsene più presto è un veleno o un farmaco? Lui intanto scrive; la storia dei cactus, a differenza di quella della Boemia, non finisce mai.

Ktož jsú boží bojovníci, Voi che siete i combattenti di Dio, la folla canta sciamando dalla chiesa di San Nicola e di San Salvatore, quella dei Fratelli Boemi, tutti in piazza verso il monumento di Jan Hus, i legionari in borghese e le ragazze nel costume nazionale – a ciascuno la sua verità, sta scritto sotto il monumento del ribelle. La verità si rovescia: quella volta i crociati tedeschi fuggivano in rotta tra il fischiare delle frecce e delle spade e il rauco intonare di quella canzone, l’articolo in prima pagina sul «Prager Tagblatt», che per un paio di settimane aveva tenuto duro, finisce invece con Heil Hitler. Rudolf Thomas, il redattore capo, non ha fatto a tempo a vederlo, lui e sua moglie si sono tolti di mezzo con un paio di pastiglie. Meno male che Hus è stato già bruciato, adesso gli toccherebbe di peggio.

Allo stadio di Letná il Praga batte il Borussia 2-0, la prima vittoria boema sui tedeschi dopo 519 anni; Jan Žižka, il guercio ribelle hussita batte l’imperatore Sigismondo a Vítkov. Fa bene vedere il portiere borusso a terra e il pallone in rete, sulla collina di Vítkov s’inalzano picche e rotolano teste, i céchi allo stadio applaudono, anche le ragazze in costume nazionale, le tedesche girano in Dirndl, le céche sono più civette ed eleganti. 2-0 a Letná per la Boemia, un mese prima la salma di Mácha sollevata e calata nella fossa da Halas, Hora, Seifert e Holan, i più grandi poeti céchi del secolo; la poesia conta ancora solo ai funerali, cala bare nella fossa e scende nella fossa.

Quel goal, specie il secondo, è stato un capolavoro, i borussi sono rimasti a bocca aperta, allocchiti, sopra la maglietta come sotto l’elmo. Intanto fin dal gennaio del ’39 gli ebrei vengono cacciati dagli uffici pubblici e da ogni impiego statale, l’università tedesca già l’anno prima ha espulso studenti e docenti ebrei, al Caffè Bumbrlíček e al Caffè
Technika gli studenti fascisti céchi si raccontano le prodezze contro sinagoghe e negozi ebrei. Jan Vrzalík, un loro capoccia, odia tedeschi ebrei marxisti massoni liberali socialisti comunisti cattolici, insomma tutti; quando Hitler va al potere grida anche lui entusiasta Heil Hitler e scopre di amare i tedeschi, ma non quelli di Boemia, quelli sono tutti ebrei, chissà come finirebbe una partita tra tedeschi ed ebrei tedeschi di Praga.

Il cartellino OpuntiaOpuntia bigelovii, per essere precisi – appeso al ramo è caduto da tempo, forse qualche topo l’avrà rosicchiato; sono sempre più numerosi e arditi, nel vecchio appartamento di via Náplavní, da quando lui spazza sempre meno il pavimento e lascia cadere croste di pane e di formaggio che sgranocchia disteso nella sua amaca tesa fra casse e piante sempre più avvizzite, perfino l’acqua a queste ultime gliela dà raramente. Se SS, Gestapo, Klipo Kripo e Krupo Kriminalpolizei eccetera scorrazzano per la città ammazzando chi gli pare è il caso di preoccuparsi di tenere la casa pulita? Anzi, meglio farla diventare tutta un enorme immondezzaio, se fosse possibile; un’apocalisse di rifiuti marci, tonnellate e tonnellate di avanzi di cibo, merda che sale dalle cloache, esce dai gabinetti e riempie le stanze cola dalle finestre scorre per le strade si accumula e risale le ripide vie di Malá Strana, una lava puzzolente che ricopre ogni cosa. A Praga e in tutta la Boemia non ci sono vulcani, ma tutto ciò che la gente mangia ed espelle e la polvere degli oggetti che si consumano e i calcinacci dei muri che si sbriciolano e i cadaveri che si putrefanno potrebbero far le veci della lava e sommergere tutto. La cupola di San Nicola emerge dal mare di merda come un isolotto finché sprofonda anch’essa, le croci si inabissano e con loro anche gli sterminatori e le loro croci uncinate; tutti là sotto, a marcire e a ingrandire l’immondezzaio.

Lui, Vojtěch, sarebbe pronto a marcire per accrescere quel diluvio melmoso, forse l’unico che può soffocare la Bestia trionfante che tiene Praga e il Protettorato fra i suoi artigli come il giaguaro un armadillo e ogni tanto gli strappa una zampa o una guancia. Aspettare, disteso nella sua amaca. Da settimane, da mesi, non esce di casa, mangia vecchie gallette e carne in scatola, qualcosa che gli porta una vicina cui una volta ha curato un’infezione, una piccola incisione, come tante volte nella foresta con quei Chamacoco, una cosa da niente ma lei gliene è rimasta grata. Lui aspetta, mentre i suoi cactus si seccano; anche le spine dell’Opuntia sono nere, vuol dire che i rami sono invecchiati. I fiori rossoviola sono macchie cupe, una volta erano un bocciolo di Venere, la corolla di Lora-y che si apriva dolce calda e infuocata, ora sono chiazze di sangue rappreso, una vulva secca, non lavata da anni.

La Storia è tutta una crosta di sangue, grattarla via è ormai impossibile, ma forse sotto quell’escrescenza c’è ancora vita, acqua che scorre, un cuore che ama e non ha paura di Nor Yo Rī, il mostro che paralizza solo con lo sguardo. I Chamacoco dicono che sembra un caimano e vive nei pressi del Fortín Bogado, il luogo da dove non si torna indietro, la palude dell’ignoto e della morte. Sotto l’amaca c’è un cactus purulento che sembra avere occhi, buchi spugnosi e ributtanti, come quelli di Nor Yo Rī; lo chiamerò Hitler, non per nulla sono il più grande nomenclatore di cactus, il Battista delle escrescenze, riconosciuto dalle Accademie di tutta Europa, anche adesso che l’Europa non c’è più. Quel cactus mucillagginoso ha invaso la stanza come l’Opuntia ha invaso l’Australia con i suoi semi e le sue pale spinose, trenta milioni di ettari trasformati in boscaglie irte e sterili. L’Opuntia microdasys ha milioni di spine, milioni di baionette trafiggono l’Europa da parte a parte, il sangue sgocciola via come da un colabrodo; fra poco non ce ne sarà più, la soluzione finale è stata decisa alla conferenza al Wannsee, merito in gran parte di Heydrich, il nostro Reichsprotektor che l’ha voluta con passione particolare, sarà che odia gli ebrei perché a scuola lo deridevano chiamandolo Süss l’ebreo e allora lui per la rabbia di essere stato il capro espiatorio della classe appena ha potuto si è scatenato e ha voluto massacrare tutti gli ebrei, tutti i capri espiatori tutti in una volta, una volta per tutte. Chissà perché non ammazzare tutti i tedeschi, tutti quelli che gli sputavano addosso dicendogli «Süss, Süss»; magari un paio di quegli stessi, belli biondi e stur, hanno fatto parte più tardi della sua guardia del corpo a Praga e lui si è vendicato, senza rendersene conto, nel modo più crudele, facendoli diventare bestie e mandandoli a imbrattarsi di sangue.

Le spine pungono a sangue, ma quando il tino è stato ben ben spremuto non esce più vino, hai voglia a pigiare. Nel Reich millenario non ci sarà più una goccia di sangue, forse già adesso l’hanno spremuto completamente; tutto è secco, marciume secco, umanità disseccata come stoccafissi al sole, congelata come gli insetti incapsulati nella pietra. Per questo vincono, perché non c’è più loro sangue da versare per fermarli; il nostro presidente Hácha continua a correre intorno al tavolino piangendo come quella volta a Berlino, e Hitler e Göring gli corrono dietro col foglio di carta, già tutto bello scritto, resa incondizionata, e la penna perché lui firmi e lui scappa intorno al tavolo e piange e poi firma, avrebbe potuto almeno aprirsi una vena e firmare col suo sangue, è così che si fa col diavolo.

Ma di sangue buono e generoso, pronto a uscire dalle vene se è necessario per fermare gli spiriti maligni, ce ne deve essere ancora; i Tre re, per esempio, i Tři králové ce ne hanno da vendere, con tutti quegli attentati che fanno ai tedeschi, non solo a Praga perfino a Berlino; avrebbero ammazzato anche Himmler perché le cose le avevano preparate bene, infatti la bomba è esplosa al momento giusto, come previsto, al secondo; è il treno con Himmler che è arrivato in ritardo, quando la bomba era già esplosa. Sì, si può ancora bere alla salute dell’uomo se c’è ancora gente come Václav Morávek, è lui che ha fondato il gruppo di resistenza dei Tre re; quando fa saltare un ponte o un serbatoio manda pure una cartolina a Heydrich, firmando con nome e cognome, dicendogli di essere stato lui e mandandogli i suoi saluti.

I tedeschi hanno addirittura creato un gruppo speciale per catturarlo, guidato da un ufficiale della Gestapo, il maggiore Oskar Fleischer, e Václav quando ha saputo che Fleischer si trovava una sera al Caffè – sarà stato il Bumbrlíček o il Technika, uno di quelli dove già prima si radunavano i fascisti – si è truccato un po’, è andato al Caffè e ha chiesto a Fleischer di accendergli la sigaretta, lo ha ringraziato come si deve e poi è uscito e qualche minuto dopo Fleischer si è trovato in tasca un biglietto in cui il re – Gaspare, Melchiorre o Baldassarre? – lo salutava e gli diceva che avrebbe potuto ucciderlo – lo avrebbe fatto secco di sicuro, il pistolero devoto, come chiamavano Václav perché aveva sempre in tasca la Bibbia e la pistola, non sbagliava mai, credo in Dio e nella mia pistola infallibile come lui, diceva – ma al Caffè c’erano troppi soldati tedeschi e lo avrebbero ammazzato subito e non valeva la pena di morire uccidendo solo lui. Sono pronto a morire, caro maggiore, ma al prezzo di almeno dieci tedeschi – SS, Kripo, Gestapo, indifferente – uno solo è troppo poco, Lei non vale uno dei Tre re, e così io, il re, Le faccio grazia della vita o meglio rimando l’esecuzione arrivederci presto. A Fleischer stava per venire un colpo, quando ha letto quel biglietto, altro che grazia, Václav avrebbe quasi potuto risparmiare una pallottola. È corso fuori sbraitando, arrestando tutti quelli che passavano in quel momento per la strada, un casino come quelli che piacciono a noi céchi quando alziamo il gomito in una vinárna e dopo un po’ volano i bicchieri. Fleischer ha anche agguantato un signore alto e distinto, che era poi un colonnello tedesco in borghese che gli ha dato uno schiaffo.

No, sangue ce n’è ancora nella terra di Žižka, il generale hussita guercio cui bastava un occhio solo per sbaragliare gli imperiali. Sono io che non ne ho più, qui disteso nella mia amaca fra ragnatele, sottili esangui capelli bianchi; anche i ragni le hanno abbandonate, non ne vedo quasi più, stanchi anche loro della loro bara... L’unica cosa che faccio, ogni giorno, è buttar via un po’ dei cactus, la più bella collezione d’Europa. Non è facile, perché sono tanti; mi pungono da tutte le parti, metto giù un piede dall’amaca e una spina mi si infigge nel calcagno, una volta sapevo prenderli in mano ma adesso mi pungo, sono pieno di spine, sono anch’io un cactus, preferisco non darmi un nome, non faccio parte della mia collezione e della mia nomenclatura, non passerò ai posteri come l’Echinocereus rigidissimus o l’Astrophytum globoso.

Le mie braccia sono grigiastre, quasi nere, come le spine dell’Opuntia. Non vedo più glochidi spuntare dalle membranose guaine gialle dei tubercoli, il mio pende floscio e secco fra le gambe, da un tubercolo spunta una spina da un altro rigonfio chissà cosa può venir fuori, non ho saputo più niente di Lora-y, lei ha conosciuto il mio germoglio in fiore, e neanche di Hermina, ma a pensarci bene non ne so molto di più di Ivan, suo, nostro figlio, nato a Praga come si deve e non fra le agavi, caraguatá si chiamano laggiù, ma anche lui, come ogni uomo, è solo un seme portato chissà dove dal vento e non ha certo senso chiedersi da quale grembo o corolla proviene. Qualche cactus l’ho messo, furtivo, sulle panchine del giardino Valdštejn, l’ho nascosto infilandolo tra un asse e l’altro dello schienale, così i soldati tedeschi quando vanno con le ragazze céche forse si pungono il culo. A ognuno la sua Resistenza. Non sono uno dei Tre re e nemmeno il Cactoblastis cactorum, il lepidottero piralide che ha sconfitto il cactus invasore dell’Australia, l’Opuntia che aveva occupato milioni di ettari, devastando il paese. A Dalby gli hanno fatto pure un monumento, dicono, al generale vittorioso.

Fucilarli tutti, il più giovane ha quindici anni, il più vecchio ottantaquattro, i bambini vengono mandati a Chełmno per essere gassati, cimiteri case orti distrutti, incendiati, spianati dai bulldozer. L’ordine di cancellare Lidice dalla carta geografica per vendicare l’uccisione di Heydrich viene eseguito alla lettera, i nazi gettano manciate di sale sul terreno bruciato, qualche ufficiale ha fatto i suoi buoni studi classici e promuove la cittadina céca al ruolo della grande Cartagine su cui i romani sparsero il sale. Ha ragione, ogni rogo anche piccolo è uguale al più grande; è il rogo, la distruzione, che conferisce alle vittime, decine o milioni, una grandezza assoluta, i roghi inalzati nei secoli non si spengono mai, quei corpi avvolti che si contorcono nel fuoco sono eterni.

Fucilare diecimila céchi, dice Hitler a Frank per telefono. Almeno qui si possono tenere i conti, un uomo è solo un uomo che si può far fuori come niente ma è pur sempre un uomo, una portata del menu che viene comunque segnata nel conto. Václav Morávek si è sparato in bocca, prima che lo prendessero; la sua infallibile pistola non ha fallito neanche stavolta.

Se si togliessero gli stivali ai nazi che stanno massacrando tutti gli abitanti di Lidice si vedrebbe che hanno il di’oŕa, la caviglia storta, come anche Čurda, il partigiano traditore. Disteso nella mia amaca mi guardo i piedi, si sono gonfiati, la caviglia è un po’ storta, il male entra nel cuore e pulsa dentro di noi come sangue marcio. Se non fossi così stanco – i miei occhi distinguono assai poco le cose, forse neanche più il bene dal male – forse anch’io potrei andare come Čurda a denunciare Gabčík e gli altri eroi che hanno ucciso la iena Heydrich, anche Čurda era un brav’uomo, un Chamacoco, ed è divenuto un demone, un Anabson, come stanno diventando tutti, no, non proprio tutti ma... Da quando sono così stanco? Ore tutte uguali, mi addormento mi sveglio sempre la stessa luce o quasi; devono essere passate poche ore, al massimo pochi giorni, ma se osservo come alcune piante sono invecchiate o marcite e morte devono essere passati anni.

Certo vorrei che Heydrich fosse vivo, per soffrire. Acqua, ho sete, da quanto non bevo, anche i cactus hanno bisogno d’acqua e sanno procurarsela rimpicciolendo la loro superficie per traspirare meno e ingrandendo il loro tessuto interno per immagazzinare acqua – se qui ci fosse anche una sola caraguatá, la piantina è piccola ma trattiene un po’ d’acqua; non ne vedo, meglio così, non voglio nutrire il cactus malefico che sta estendendosi in tutta Europa, l’Opuntia ha conquistato quattro milioni di ettari in Australia, le armate di questo cactus sono arrivate a Parigi e alle porte di Mosca, ma non hanno più acqua, quella che c’era è gelata, come la benzina nei carri armati, e io gliela tolgo fino all’ultima goccia, a questa spugna puzzolente.

Spine ispide baffi del Führer – posso farlo morire, il cancro si dilata e mi ha occupato tutto, io sono lui e mi lascio morire, e lui con me. La mia pelle brucia, dev’essere rossa come quella del Watirak, l’iniziato, dipinto di urucu – ognuno è un Watirak quando è arrivata l’ora – sangue rosso, un tempo qualcuno nella foresta lo beveva per spegnere la sete – ora è già in gola esce dalla gola brucia la gola. Se potessi bere la mia urina, ma sono giorni che non piscio deve essere quella lima di ferro con cui mi sono graffiato rovistando fra i cactus. Clostridium tetani. Permanente contrattura dei muscoli volontari. Ho sete ma il bicchiere mi cade di mano, la mano lo getta via con un moto convulso, scatta da sola. Gabčík, Kubiš e gli altri partigiani sono stati vinti dopo che ottocento SS avevano allagato la cripta della chiesa dei Santi Cirillo e Metodio; stavano per annegare quando si sono sparati in bocca per non essere presi vivi, io non ne ho bisogno non ne avrei neanche se fossi un guerriero come loro, come Červíček, ci pensa quel ferro arrugginito che mi ha messo il veleno nelle vene – una scalfittura, una crosta come quando mi sbucciavo le ginocchia giocando a guardie e ladri nel giardino Valdštejn ma ora non riesco neanche a mangiucchiare questa mela – la mandibola è rigida per muoverla bisognerebbe forzarla con le dita come con un teschio. Perché ridi in quel modo con quelle mascelle serrate – risus sardonicus, il Clostridium tetani è un bacillo sporulante e sottile, deve avere già risalito i nervi motori periferici – la mela cade a terra non sono stato io è la mia mano il mio braccio che scatta convulso. Quando risalivo o scendevo il Pilcomayo...

Fertig!, ha gridato l’ufficiale tedesco uscendo tutto bagnato dalla botola della cripta. Acqua e sangue; anche sangue tedesco. Per me non ancora fertig ma certo presto – riso sardonico del mondo, Hitler che urla, il mondo è spastico cianotico, il mio viso è giallo – Yetït carhï, il cielo giallo quando le stelle e le cose e gli uomini e l’orrore sono usciti dal buon buio, dal buon niente. La stella gialla – il mondo soffoca asfittico entra nella camera a gas. Vorrei dire qualcosa ma la bocca non si apre e non riesco a inghiottire. Se mi dessero del curaro – i Chamacoco guariscono così il tetano ma qui non mi credono, non lo sanno, sono ignoranti. Se solo potessi parlare – ma non ci riesco e anche se riuscissi sarebbe ancor peggio, nessuno mi crederebbe.

È l’ora di Tölörïtï, il demone avido di carne umana – anche marcia, anche putrefatta, come la mia, come la sua. L’anima entra in un altro corpo, forse in un giaguaro, anche in una pianta, in un cactus, qualcuno divora il mio corpo, qua, là, l’amaca cede come una ragnatela cade fra i cactus. Ad altri dèi, Anerto e Tobüć-Kïmte, piace solo la carne viva, fresca, col sangue che scorre nelle vene. Pilcomayo e Vltava fanno il giro del cuore, ne hanno ancora tanta, di carne umana viva, da divorare, corpi che si rotolano urlando, vengono spinti nella camera a gas torturati con la corrente elettrica, ma c’è ancora molto da mangiare, da straziare prima che muoiano. Anerto e Mengele si leccano i baffi, Pïtínno l’orso formichiere si pappa l’enorme formicaio, diluvio e fuoco, la protomadre Eśnuwarta stermina il mondo, lata touxa laabo, la madre trae a sé i suoi figli, eccomi, ne sono già risucchiato, sarà tutto per Tölörïtï, un’immensa carogna di cui ingozzarsi, Tölörïtï non ha paura che le spine gli si infilino nel palato – è ghiotto di tutto, anche dei cactus, pungono e puzzano ma non fa niente, dicono che il Führer abbia un cattivo odore, Cactus marcescens hitler, Sieg Heil...