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La grande fotografia del T-34, che lo mostra di fronte, assomiglia a quella di un enorme pachiderma che sbarra la strada a un’immensa pianura alle sue spalle. 26 tonnellate. Cannone da 76,2 millimetri lungo 40 calibri, capace di perforare agevolmente qualsiasi corazza dei carri tedeschi all’attacco nell’Operazione Barbarossa, l’invasione dell’Unione Sovietica, e impervio alle bocche da fuoco di quei carri. Motore Diesel di 12 cilindri a V che riduce la possibilità di incendio e consente una velocità sui campi di battaglia sino ad allora sconosciuta ai tank, 55 chilometri all’ora. Cingoli larghissimi (55 centimetri) – zampe mastodontiche di giganti preistorici – che consentono di muoversi nella neve e nel fango senza sprofondare. Preistoria del futuro, l’uomo che ritorna piccolo fra i mammut costruiti dalle sue mani e sempre più indocili e disobbedienti al cornac che li pungola seduto sulla loro testa.
«Bontà, provvidenza della macchina che sostituisce l’uomo, salvandolo anziché distruggerlo come in tante stupide favole. È il T-34 che salva la Grande Madre Russia quando i nazisti la attaccano nel 1941 e si trovano davanti un esercito quasi senza generali, fucilati da Stalin, e militarmente confuso e arretrato, perché il dinosauro del Cremlino aveva messo al bando i princìpi strategici stabiliti genialmente dal maresciallo Tuchačevskij, mettendolo al muro per il suo genio e proibendo la formazione delle grandi unità corazzate da lui volute, sicché i tedeschi all’inizio dilagano in Russia come lame nel burro, travolgono armate prendono città e dopo ogni attentato fucilano cento ostaggi per ogni loro uomo caduto in un agguato, finché si infrangono contro la spessa ma mobile muraglia dei T-34 (53.000 esemplari, in tutta la guerra, dopo la battaglia di Kursk ulteriormente potenziati con cannoni da 85 millimetri e corazze ancora più compatte). Una muraglia cinese fatta di cannoni; grossi elefanti come torri di Babele sulla scacchiera ma veloci, fulminei nell’infiltrarsi staccando le punte nemiche corazzate che avanzano dalla fanteria che le segue e isolando così i mezzi corazzati tedeschi, anche i Tiger e i Panther, costringendoli ad arrestarsi e colpendo quindi a morte il Blitzkrieg del Führer. Ecco, quel T-34 mi sembra l’immagine della grande Russia, vulnerabile e invincibile, paziente e dolente, il paese in cui le strade che portano a Mosca, per chi le percorre per distruggerla, passano per Poltava, per la Beresina, per Stalingrado... È vero, io mi sento spesso tedesco, certo più tedesco che slavo, specie a Trieste, ma...»