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Perla... A Luisa pareva di conoscerla, di conoscere quasi il suo corpo; immaginava il suo passo leggero, i piedi che scivolano senza fare rumore come un animale nella foresta, attraversano la vita senza quasi lasciar traccia, schivando gli intrichi e gli agguati. La gazzella nella sua corsa piega appena l’erba che subito si raddrizza frusciando nel vento, poco dopo invece schiacciata sotto i passi pesanti e spietati degli inseguitori, dei cacciatori che alla fine raggiungono la preda, sempre troppo presto perché è sempre troppo presto per morire, ma sempre pure troppo tardi per impedire che la preda anche se braccata abbia talora conosciuto la felicità della corsa nel vento e l’odore delle foglie e dell’erba.

A sera i cacciatori, levandosi stanchi gli stivali, appendono ai grossi uncini la selvaggina e altri ricchi trofei delle loro razzìe; tutto ciò che essi, avventurandosi nelle foreste e nelle savane di Perla, hanno tolto ai legittimi padroni dei boschi neri come la loro pelle, spodestati dall’arrivo delle navi sulle coste melmose. Navi pesanti, tanto più pesanti delle piroghe o dei tronchi trascinati dai fiumi; pesanti corazze, fucili e cannoni pour tenir en respect la canaille indienne ou arabe e ancor più negra, specificava il finanziamento concesso dal governo viennese a Bolts per la sua spedizione nelle Indie.

I cacciatori venuti a predare nelle foreste e nei villaggi di Perla, come dovunque in ogni giungla del mondo, erano ritornati a casa carichi di spoglie d’ogni genere, oro argento diamanti e smeraldi a manciate; anche gli uomini cui avevano strappato tutto questo erano ammassati tra quelle spoglie, l’avorio nero pigiato nelle stive insieme alle zanne di avorio bianco. Ed erano i cacciatori ad aver lasciato tracce nella terra che avevano devastato e schiacciato sotto il peso delle loro armature, dei loro gambali e dei loro cannoni, sotto le ruote dei loro carri. Le orme dei piedi sottili di Perla sparite sotto la terra battuta dagli zoccoli e dai cingoli dei conquistatori, sentieri cancellati da grandi strade, su cui passa agevolmente la colonna corazzata. Quegli uomini su quei carri di ferro si erano illusi – con la pacchiana ingenuità dei conquistatori, ultimi venuti e nouveaux riches – di avere cancellato del tutto quelle tracce di Perla, della sua gente e di altre genti come lei, calpestate dai loro stivali; di averle fatte sparire per sempre, svanite e mai esistite.

La Storia è un Libro Tavolare, come vengono chiamati a Trieste i registri immobiliari col vecchio termine in vigore nell’Austria absburgica. Proprietà e proprietari si ricostruiscono con chiarezza; se manca qualche dato ci sono pur sempre gli archivi e così si sa a chi appartengono e sono appartenute sin dall’inizio le cose e i significati delle cose, chi è l’Adamo, il primo padrone del giardino. Non conta che sia arrivato di prepotenza in quel giardino, cercando di estinguere perfino il ricordo, le tracce di chi c’era prima, perché il modo più sicuro di negare un diritto è negare l’esistenza dell’avente o degli aventi diritto. Il conquistatore sfila sul carro di trionfo trascinandosi dietro i nemici vinti in catene e fatti schiavi; il suo nome è inciso nel bronzo e il loro è svanito come il grido di un uccello colpito nella foresta. La genealogia è precisa e puntigliosa; i miei avi risalgono all’epoca dell’antica Roma, dice qualcuno, gli avi della sua cuoca non risalgono a nessuna epoca, non c’erano, non ci sono, non ci sono mai stati e dunque non c’è neppure lei. Anche Perla è scomparsa senza lasciar traccia, pochi anni dopo quella sua carriera teatrale d’una sera. Forse se ne era andata con un commerciante greco arrivato a Trieste con la sua nave, altri dicevano che l’avesse rapita e che la polizia del barone Pittoni avesse chiuso un occhio o tutti e due, ben contenta che quel piccolo imbarazzo venisse tolto dai piedi.

Eppure non è vero, pensava Luisa; le orme di quei piedi che fuggivano nella foresta non sono sparite, nessuna goccia di sangue disseccato è veramente cancellata. La Storia, più che un Libro Tavolare, è una banca del DNA, una valle di Giosafat che attende la resurrezione di tutti i miliardi di esseri viventi ovvero vivi, giacché nessun atomo di vita si estingue. Un oceano di gocce in lista d’attesa per fecondare essere fecondate e riprodursi; i cacciatori e gli usurpatori cercano di difendersi, di raschiare dal coltello il sangue di chi li ha preceduti ma quel sangue è vivo, pronto a ribollire nelle vene dei corpi resurrecturi nella memoria e nella coscienza del mondo, gli avi di Perla legittimi signori dei quattro fiumi tenebrosi che sfociano mugghianti nella baia di Delagoa.

Perla nera, la più rara e preziosa delle perle; per il suo colore, le lune nere dei suoi seni, i suoi piedi nudi agili e inafferrabili come pesci, lui amava baciare la loro pianta appena un po’ più chiara, tenera e pallida foglia di palma. Il nero protegge dalla luce spietata e rovente della vita e dalla sua violenza; i neri hanno resistito, ultimi fra gli ultimi della terra e indistruttibili, al sole di fuoco che li ha arsi nelle savane, sulle navi negriere, nelle piantagioni. Il nero assorbe la luce, la nasconde e la trattiene, la fa baluginare tenera e appassionata nel gioco delle membra; forse per questo Carl Philipp diceva che Perla danzava anche quando solo parlava o sorrideva.

Probabilmente Carl Philipp non si era neanche accorto di tutto questo e non sarebbe mai stato capace di accorgersene. Fare un po’ di soldi con il teatro, come li aveva fatti e perduti in tante altre imprese; certo anche godersi quelle gambe e quei seni e magari pure emulare Casanova, che aveva portato sulle scene del Teatro San Pietro l’esigente contessa, ma non la bella servetta nera che aveva soppiantato nel suo letto la contessa o perlomeno si era aggiunta a lei, pare con sua maggior soddisfazione. Forse era solo questo che gli interessava.

Ma perché, si chiedeva Luisa, non pensare che fosse stato semplicemente per amore? Perché ogni sfida dell’uomo al proprio destino deve nascere solo dall’ambizione, dall’avidità, dal gioco delle parti in cui uno si trova intrappolato e agguantato come un marinaio preso ubriaco in una taverna da una squadra dell’arruolamento forzato e sbattuto su una nave di Sua Maestà Britannica, come accadeva ai tempi di quel Carl Philipp? Chi ha detto che l’amore possa essere solo un accessorio nella scelta o non scelta di un uomo, una comparsa laterale come i servi nelle commedie che si recitavano al Teatro San Pietro, utili a imbrogliare o sbrogliare una matassa arruffata, ma non più di questo?

Non le dispiaceva immaginare che quel Carl Philipp, così devoto al Re di Danari e all’arte di averne più d’uno nella manica, potesse nelle tempestose giravolte della sua vita aver veramente amato Perla. Sogno di un’ombra, un uomo. Ma quando un bagliore, dono divino, ci giunge, lucente fulgore sovrasta noi uomini e dolce è la vita. Perfino il suo pronipote o bispronipote posseduto da una mania meno divina, dalla mania della guerra, sembrava aver capito, anche se per un attimo, come l’amore, quando ti piomba addosso, ti faccia andare anche dove tu non vuoi e non avresti mai immaginato di poter un giorno voler andare. Non per niente aveva registrato nelle sue carte, inserite in quelle della sua Società archeologica, tanti particolari di quella vecchia storia, sparita nella risacca degli anni che si ritirano dalla riva, e non soltanto i trenta pezzi d’artiglieria e le trecentosettantacinque casse di fucili date a Bolts per la sua spedizione in cui si era intruppato pure Carl Philipp.

Carl Philipp, trapoler ma di genio, pare avesse anche pensato a una rappresentazione del Pygmalion di Rousseau, forse perché gli piaceva l’idea di una Galatea che una volta divenuta da marmo bianco carne nera fa rigar dritto il suo creatore. Chissà se era stato il Pigmalione di Perla, o almeno aveva tentato di esserlo, si chiedeva Luisa con una fitta di ricordi, lividi lampi sulla landa del cuore, pensando a quell’irresistibile dismisura che spinge chi ama a farsi Pigmalione della persona amata, peccato originale dell’amore, che senza accorgersene e senza volerlo vuole l’amata o l’amato a immagine e somiglianza del suo desiderio.

Anche lei aveva infierito, senza rendersene conto, su chi aveva amato; aveva cercato di modellare e di scolpire il volto, l’anima e il corpo di chi le aveva dormito accanto, quel dormire insieme che è la felicità, senza chiedersi se ritoccando quei lineamenti accanto a lei facesse loro male. Eppure avrebbe dovuto saperlo, dopo le volte in cui era stata lei a ribellarsi alle mani amorose e amate che non potevano fare a meno di cercar di rifare il trucco alla sua anima, al suo modo di essere e di vivere, imperfetto e colpevole ma suo, l’unico suo possibile. E così, ogni volta, ora lei ora l’altro avevano rotto le catene che si erano forgiate a vicenda ed erano fuggiti, con le catene spezzate ma i pezzi ancora legati ai loro piedi, perché quando si chiude una catena su un cuore amato e amante la si può poi spezzare ma non più aprirla, la chiave si è persa.

Avrebbe potuto leggerli sulla sua pelle, i segni e le cicatrici di quelle catene, graffiti in cui era incisa e narrata la storia della sua vita e del suo cuore, così come le tacche segnate da suo padre sullo stipite della porta della stanza da letto, quand’era bambina, segnavano la sua crescita, la crescita di una bambina che prometteva di diventare alta, più simile in questo a suo padre che a sua madre. Mio padre e mia madre – quale grazia aveva loro risparmiato quelle catene, la necessità di metterle all’altro e di strapparsele da sé, due creature libere da quel peccato originale dell’amore? Ognuno dei due era divenuto sé stesso con l’altro, grazie all’altro, una pianta che si volge al sole e lo assorbe nelle sue foglie così come le sue linfe succhiano l’acqua dalla terra, se ne nutrono; quell’acqua che si donano è il sangue delle vene di entrambi, ognuno terra dell’altro. Ma allora forse non era impossibile la felicità, anche se era così difficile crederlo; non solo nelle fiabe si ritrova la chiave perduta del cuore, che d’improvviso un qualche augellin belverde o altro uccello fatato riporta a casa.