STORIA DI LUISA III
Era stato zio Giorgio, a dirglielo, alla mamma? O lei ne aveva sentito parlare da qualcuno durante una di quelle sere, qualche frase appena accennata e interrotta quando l’avevano vista avvicinarsi, magari quella volta in cui lei se n’era andata d’un tratto precipitosamente, volgendo la schiena a quei due o tre che vedendola arrivare sembravano aver cambiato discorso? Così almeno le aveva detto molti anni dopo la signora Weber, vedova da tempo immemorabile del compianto direttore generale della Riunione adriatica di sicurtà Alfonso Weber. Se n’era andata, aveva detto la signora Weber, mentre quegli altri accennavano un saluto, me ne ricordo benissimo anche se è passato tanto tempo. Se n’è andata quasi di corsa, si capiva che lei stessa non sapeva perché. O forse, si diceva Luisa, sapendolo ma solo per un attimo – un pensiero, no, un sentimento chiaro, lancinante, un lampo che illumina ogni cosa, ma subito confuso, riaffondato in un buio mareggiare indistinto.
Era strano – Luisa si ricordava bene di quando sua madre glielo aveva detto, così, di colpo, senza preavviso; si era fermata un momento davanti allo specchio, guardandosi attonita, sorpresa e parlando quasi più fra sé che con lei – era strano che sua madre non riuscisse a ricordarsi con precisione il momento in cui aveva capito. Era come se – ma da quando? – si fosse resa conto di averlo sempre saputo, o almeno da molto tempo; una conoscenza devastante, sopita o attutita dallo scorrere dei giorni e dei mesi, ma intessuta nel suo essere come un grumo nel proprio corpo, che sembra di aver sempre saputo di avere, anche se comincia solo a un tratto a far male e a costringere ad accorgersi di lui. Un viso che si segna di rughe e si sfalda; che ogni tanto – spesso, quasi sempre, sempre – incute sgomento quando, sconcertati, lo si vede allo specchio, ma non è mai la prima volta: ci si guarda, ci si sorprende sbigottiti ma si sente che lo si sapeva già, che quel volto era là – nello specchio, nello sguardo – da tanto tempo. Anche se il suo viso, a dire il vero, anche anni dopo, da quando Luisa poteva ricordarselo, era pur sempre quello di una giovane donna dagli occhi scuri e dalla bella bocca da Sulamite sotto il naso imperioso.
La folgore di quella rivelazione si era inabissata dentro di lei, fulmine che sparisce sotto terra, illumina e incendia le tenebre sotto pelle, quei bui fiumi del corpo di cui ci si accorge solo quando qualche diga o riva si rompe. Un vulcano erutta nel profondo, fragoroso ma silenzioso per chi non lo può e in ogni caso non lo vorrebbe udire; un magma ribollente di fuoco che non si sente ardere anche se corrode e fa crollare strati basaltici e rocce ignee, sposta faglie e prepara terremoti. Lei sa, lei non sa, lei saprà quello che già sa, qualcosa ogni tanto s’inceppa dentro la sua testa, qualche guastatore ha sabotato i circuiti. Un lavorìo dentro di lei, un tarlo che scava gallerie e continua ad avanzare.
Parole arrivano al suo orecchio, immagini, sguardi aggressivi o elusivi, volti cortesi ma come deformati e malvagi, scintille sparpagliate di quella folgore guizzano da un neurone all’altro, sgusciano come serpi fra le sinapsi, risalgono lungo il midollo spinale, percorrono velocissimi le vie della corteccia sino al suo quartier generale, ma il Comando supremo è riluttante a prenderne atto, a farle sapere quello che Sara con tutto il suo cuore e il suo cervello non vorrebbe sapere e non sa di non voler sapere. L’infezione si propaga lenta e irresistibile, sempre nella caparbia negligenza del Comando supremo. Il nemico si fa strada dappertutto; pensieri, no, quasi solo contrazioni di nervi avanzano, colgono di sorpresa le difese ma altre difese di rincalzo lo circondano, lo respingono, lo assaltano; la battaglia è dura e, come accade quando essa ha luogo all’interno delle patrie frontiere, vittorie e sconfitte, avanzate e ritirate devastano il territorio aggredito e fatto a brandelli, sempre più simile a cumuli di rovine.
Una vera guerra, di cui ancora non giunge – o non si vuole giunga – notizia al quartier generale, la testa protetta e avvolta nei bei capelli come una villa tra folti alberi; si continua ad andare a spasso, arrabbiarsi, ridere, guardare la sera sul mare, nonostante quella smania e quel vago risucchiante spavento che Sara si ostina a cercare di non sentire. Epiche guerre nelle vene e nelle arterie, lungo le terminazioni nervose, nelle cellule. Chi ama la guerra ama anche la malattia, la vera guerra di Gog e Magog; dicono che a Churchill bastava un’influenza per appassionarsi ai bollettini bellici del suo medico sugli scontri che avevano luogo nel suo corpo e ne facevano un campo di battaglia, il suo paesaggio preferito, là sì che si sentiva vivere.
Guerre più sottili, quelle che erano divampate in Sara ignara e inconsapevolmente tesa a rimanerlo, quando segnali sempre più chiari e sempre più debolmente soffocati da un’oscura volontà di ignorarli le arrivavano dappertutto, sotto la pelle che si metteva a sudare senza motivo, in rigurgiti di nausea che montavano dallo stomaco a una bocca spugnosa di acida saliva, dietro le tempie che battevano più feroci. Neurotrasmettitori al servizio di informatori maligni – gli invitati di quella sera con le parole interrotte al suo approssimarsi, allusioni che aveva colto spesso qua e là anche se distrattamente, imbarazzati silenzi quando un paio di volte si era fatto il nome di sua madre – inviavano alla corteccia prefrontale messaggi subito tradotti in un codice ignoto, indecifrabile per la stessa coscienza inutilmente al suo posto di comando. Coscienza o comunque si voglia chiamarla; forse Sara è il suo nome o forse anche questo è un nome in codice.
Indistinto, quel messaggio, ma non cancellato. Anche se Sara aveva cassato le parole sentite quella sera sulla terrazza e tante altre volte. Onde acustiche, marosi che si infrangevano nella sua testa – «sì, solo lei poteva aver fatto la spia» – le aveva sentite sconvolta, impazzita dalla paura – «forse Deborah» – Deborah? chi, perché, cosa c’entra... La gomma raschia abrasiva una parola o una frase scritta sul foglio e certo non la si può più leggere, ma qualcosa rimane, graffi incisi sulla carta, sgorbi sotto la carta carbone. Allusioni, duri silenzi, qualcosa che si allontana, lo sguardo selvaggio e insieme smarrito di Ester... Il mondo intorno a Sara – davanti a Sara, dentro Sara, lei nel mondo e il mondo in lei, un occhio guarda nella registrazione sul video dell’intervento il faco emulsificatore che entra dentro di lui. Fuori è tutto un deserto abitato da nomadi feroci pronti a colpire, parole gesti ed espressioni di volti intorno a lei, frecce scagliate e conficcate nelle tempie.
Certo, un buon analgesico può far tacere l’emicrania. Ci sono molti analgesici. Optalidon, Veramon, anche passeggiare, fare la spesa, leggere un libro o un giornale, scambiare qualche parola con un vicino, andare al cinema. Ciò che sta sotto la pelle e batte dietro la tempia sembra per un po’ sprofondare e non si sta a scrutare ciò che succede nei fondali spenti, immondizie cullate da correnti subacquee, oloturie, cetrioli – altri dicono stronzi – di mare.
Intanto sotto, dentro, si lavora, anche se sul ponte di comando non si sente o non si vuol sentire. Sabotatori si insinuano nei grumi di neuroni, affrontati da truppe fedeli pronte a morire per Sara o chi per lei; quando è necessario i neuroni perfino si suicidano per distruggere con sé stessi quello che minaccia l’edificio, la sua crescita e la sua peculiarità. La mano diventerebbe un palmo informe se i kamikaze che costituiscono il tessuto non si togliessero di mezzo, permettendo così la formazione di dita separate.
Anche molti di quei messaggi velenosi, infiltratisi come clandestini nei corridoi della mente, muoiono o sembrano morire, felicemente distrutti dal pulsare della vita che comunque palpita, avanza, elimina ciò che è necessario eliminare, si amputa di ciò di cui è necessario amputarsi per sopravvivere. Sara non lo sa, non si accorge di ordinare agli echi di quelle parole – nascosti da qualche parte dietro la fronte o nel cuore, nel sangue, nel midollo – di ammutolire, di svanire.
Così tira avanti; un po’ nervosa, stanca, inquieta, ma tira avanti. Ogni paziente, fino al momento di diventare un paziente, sta bene – diomio così come si può star bene in questa valle di lacrime. Finché un bel giorno una TAC – niente di allarmante ordinarla, una misura preventiva precauzionale cui dovrebbero ogni tanto sottoporsi tutti – fa carambola. Le macchie, gli aloni, le fluorescenze, le parole, gli sguardi, i fatti parlano chiaro. Metastasi osteolitica, metastasi epatica. Un tubo metallico con un sistema intessuto di radiografie multiple è come Dio, conosce il bene e il male; il male per eccellenza, la morte che avanza. Qualche volta quel dio cilindrico decide benevolo di lasciar respirare il suo servo in attesa e riscontra, almeno per il momento, l’assenza del male e il cartellino col nome della potenziale vittima sacrificale resta nel suo schedario. Anche per le vittime e per i complici c’è un elenco diverso, ma che può confondersi con le schede; il delatore segue il denunciato nel forno crematorio.
Una luce implacabile illuminava Sara; le sue vene, il suo cuore, i suoi sentimenti, vele squarciate dal vento in un chiarore insostenibile, un sole che acceca ma che non si può non fissare direttamente nel suo fuoco, nelle sue immani esplosioni atomiche che rintronano nel cervello di chi le fissa e continua a fissarle. Incapace di capire come mai l’avessero subito arrestata appena uscita da quella casa di cui non sapeva, non doveva sapere nessuno, Deborah doveva aver creduto...
Così pensa qualcuno, ma forse non è vero, non credo sia vero, non crederlo, aveva detto zio Giorgio cercando di proteggere Sara da quella lava infuocata e melmosa che le era piovuta e continuava a pioverle addosso, stendendo su di lei e sotto quel diluvio un mite ombrello di professore a riposo. Non guardare indietro, è vietato, lo dice anche la Torah. È anche vietato frugare nella cenere, cercare di separare un granello, no, neanche, un bruscolo, un niente di cenere da un altro... E poi, aggiungeva, non è detto che... Niente è detto, niente è sicuro ed escluso quando gli uomini passano per il camino, vittime della lava e anch’essi lapilli di lava, fumo che ammorba la carne... Niente è escluso, neanche la Shoah, l’inimmaginabile, è esclusa, infatti c’è stata. Tu non...
Tua madre, dice qualcuno, può aver creduto che a tradirla, a denunciarla, fosse stato lo stesso avvocato Radich, l’unico che sapeva, magari per barattare il suo destino con quello di altri che gli premeva di più salvare, o chissà per quali motivi, e così – ma è solo un’idea, un’ipotesi di qualcuno, Sara, niente è certo, quando milioni di uomini vengono bruciati, l’unica cosa certa è che vengono bruciati – e così tua madre ha – avrebbe, si congettura – denunciato l’avvocato e le SS – c’erano pure due ucraini e un italiano – sono piombate in quella casa, trovando i Simeoni, tranne la piccola Ester, e portandoli via e alla morte. Ecco questa è l’unica cosa sicura, che tua madre e i Simeoni sono morti e morti in quel modo. Ed è l’unica cosa che conta. Il resto è solo fumo, come quello uscito da quei camini. E anche se tua madre, in quel momento in cui veniva arrestata per essere uccisa, sentendosi – a torto, sbagliando, ma non per malvagità – tradita avesse perso la testa, l’unica cosa che forse si possa fare in un simile momento, e nel delirio di furore, di vendetta, di paura, di disgusto, di odio per tutti e tutto e anche per sé stessa, se in quella forse inevitabile follia avesse anche... È difficile, quando il male trionfa, non fare il male e tu adesso non devi...
Non doveva cosa, Sara? Non doveva sapere di sapere, doveva brancolare a tentoni, sentirsi svuotare, avere quel mal di testa? Come invidiava quel dono che sembrava dato agli altri, a tanti altri, a quasi tutti; quella capacità di dimenticare, almeno di vivere come se si avesse dimenticato. Buonasera colonnello, sì, i Ravenna erano nostri vicini, forse Lei li ha conosciuti – ma questo non lo si diceva, si diceva soltanto «Buonasera colonnello», il resto neanche lo si pensava. E perché no? Vivere vuol dire sopravvivere, ognuno ha avuto tanti vicini di casa che sono morti, chi in un modo chi nell’altro, e non si sta sempre a indagare o a ricordare in che modo. Anche una delatrice poi assassinata dagli assassini cui ha detto ciò che non doveva dire dovrebbe essere dimenticata, ma anche se gli altri, quelli sempre meno numerosi che il venerdì si trovavano in sinagoga per non far mancare il quorum, l’avessero dimenticata, Sara non poteva, non avrebbe potuto. Cercava di farlo, di stordire quelle immagini e quelle parole che d’improvviso prendevano possesso di lei, assalitori che espugnano la cittadella, inalzano sui bastioni della sua autocoscienza bandiere obbrobriose, disegnano scritte oscene sulle pareti dei suoi lobi frontali su cui si sono arrampicati come le squadre speciali di un esercito.
Lasciava che quella pioggia battente scivolasse sul vetro, finché il rumore sempre uguale si attutiva; no, sembrava attutirsi, era sempre il medesimo rumore, ma così, sempre uguale, finiva per essere un rumore continuo di fondo di cui a poco a poco si cessa di accorgersi, così uguale com’è. Il vetro si appanna, le figure diventano indistinte; spigoli aguzzi si ottundono, ghiaccioli puntuti diventano molli e non fanno più male o almeno non più così tanto. I cani da slitta s’infilano sotto una coltre di neve, che tiene caldo, o almeno così pare, rispetto al gelo acuminato dell’aria. E si vive, bisogna pur vivere. Tirare avanti; mangiare, dormire, lavorare.