2.
«Ares per Irene ovvero Arcana Belli. Museo totale della Guerra per l’avvento della Pace e la disattivazione della Storia.» Quell’intitolazione barocca del Museo, più volte ripetuta nei quaderni e nei diari – modificare il passato, scriveva, invertire il tempo, ridurlo a una strada a senso vietato – Luisa pensava di proiettarla sulle pareti interne del Museo stesso. Posto che un giorno venisse portato a termine. Per ora tutto era ancora solo un ipotetico abbozzo, un progetto che le era stato affidato dalla Fondazione e dall’assessorato alla Cultura del Comune e al quale cercava di dar forma, immaginando una possibile sistemazione dell’enorme ed eterogeneo materiale nelle varie sale e spazi del vecchio complesso dell’ippodromo, la sequenza dei pezzi, l’uso delle icone sui monitor, il filo conduttore del percorso, gli oggetti e le storie che si sprigionavano da essi come i geni dalla lampada di Aladino.
Come organizzare quel Museo forsennato, eccessivo anche dopo il rogo che ne aveva distrutto buona parte, oltre al suo ancor più eccessivo artefice? Quel titolo altisonante non voleva per esempio collocarlo all’ingresso, bensì proiettarlo nelle sale interne con fasci luminosi intermittenti che tracciassero le lettere e le parole in vari colori, che dovevano accendersi e spegnersi di continuo. Per lui tutto era segno, messaggio che, più lui si avvicinava alla sua fine, più annunciava felicità. Nulla poteva stupire e tanto meno spaventare chi, come lui, affermava di avere «un rapporto profetico con l’inaspettato». Il ritrovamento di qualsiasi oggetto, scriveva – una giberna, una fondina – «è infinitamente benaugurante e tutto è in rapporto alla venuta dell’epoca dell’infinito bene, quando il male sarà abolito e delle armi resterà solo quella parte di energia cosmica che ha rapporto con la loro bellezza e con la loro funzionalità...».
Dove, come, in quale sequenza delle sale disporre quegli appunti... ingrandirli con i riflettori, incorniciarli, inciderli su dispositivi mimetizzati nelle pareti da azionare al momento giusto, elaborare un programma, un percorso più mentale che materiale in modo che il visitatore, premendo l’uno o l’altro simbolo sul monitor a fianco dei diversi schermi e dei diversi oggetti nelle varie sale, potesse arrivare ad altre schermate, imbattersi in altre storie connesse con quel cannone o con quella spada, accedere all’uno o all’altro oggetto o testo a suo piacere? Il Museo come un mobile ipertesto in cui tutto scorre oppure scompare e si annulla, com’era probabilmente accaduto nella sua testa?
Comunque lui forse aveva ragione, l’infinito bene c’è, da sempre. Ci avvolge – sì, forse anche me, seduta in mezzo a questo disordine – una soffice nuvola azzurro indaco che accoglie un palloncino sfuggito di mano a un bambino. È la felicità, ma le creature bidimensionali che strisciano sulla sfera di quel palloncino non possono alzare la testa e capire che esiste quell’altra dimensione, quella nuvola che le avvolge, e continuano a strisciare disperate. Anche lei, così bella e slanciata, era una scia di lumaca; i suoi bei capelli ancora scuri nel vento – pure quella un’eredità dei due esili plurisecolari che si erano fusi in lei dopo aver attraversato il deserto e il grande mare – non sapevano che esisteva quel vento. Nell’ombra, che la lampada del tavolo sommerso dagli scartafacci proiettava sul muro, Luisa li sentiva ora molli sulla nuca. Lui in qualche modo doveva essere riuscito ad alzare la testa, a sentire il vento di spazi, di altezze inimmaginabili per chi ha solo larghezza e lunghezza; aveva aspirato a pieni polmoni quell’aria ignota agli umani, un gas esilarante che dava allegria. Affermava peraltro di avere trovato un sistema scientifico per nutrirsi soltanto d’aria, con una nuova tecnica di respirazione che metabolizzava le microscopiche creature viventi in ogni bava di vento e le finora ignote sostanze nutritive contenute nei gas. E non perché sia al verde e mi faccia mantenere da mia moglie, aggiungeva, di antica famiglia nobile ungherese e da me costretta a fare la domestica, come si è insinuato più volte con malevolenza, ma perché sono leggero, libero, felice.
L’oscurità di quella notte di incendio – oscura per l’autorità giudiziaria, per lui una luminaria regale, il falò di un sovrano che ostenta la sua magnificenza gettando tutto il suo avere e ancor più il suo essere nel fuoco – era stata un rogo divino, il rosso tramonto finale dell’eone cosmico del male, della guerra, dell’uccidere. Lui forse non aveva nemmeno sofferto, in quella bara in cui usava dormire con un elmo tedesco di ferro in testa e una maschera da samurai sul volto, probabilmente il fumo lo aveva soffocato nel sonno prima che le fiamme potessero fargli male.
Secondo la terminologia della sua progettata riforma globale del vocabolario – rigorosamente esposta e classificata nel suo incompiuto DUD, Dizionario universale definitivo – lui, in quella notte di fuoco, era entrato nell’«invertitore», il termine corretto che avrebbe dovuto sostituire quello corrente ma approssimato di «morte». La sua nuova lessicografia era un brogliaccio di vocaboli, interrotto, in una pagina strappata, alla lettera M o meglio al lemma «mulvaceo», di cui mancava la spiegazione come mancava tutto il seguito. Luisa, quando aveva ricevuto l’incarico di progettare il Museo, aveva pensato di sistemare il materiale di quel dizionario giunto sino a quella parola in tabelle scorrevoli, che associassero per un attimo le vecchie, abborracciate parole a quelle nuove di una coatta ed ermetica precisione, per cancellarle subito dopo, spegnendo le loro lettere vistose, inghiottite nel buio con i loro vecchi e confusi significati. La Morte proiettata a caratteri cubitali, in rosso, sul muro di fronte a chi entrava, nella terza sala, doveva rivelarsi un banale errore di stampa, subito corretto: l’Amor-te (p. 27 del manoscritto e monco vocabolario).
La morte non esiste, lui spiegava; è solo un invertitore, una macchina che rovescia semplicemente la vita come un guanto, ma basta far scorrere il tempo in senso inverso e si recupera tutto. Tempo ritrovato, trionfo dell’amore. Amor-te. Chi? Te, tu, tutti.
Quegli oggetti sputafuoco del Museo, carri armati e cannoni e tutto il resto, avrebbero dovuto, nelle intenzioni del loro infaticabile collezionista, rivelarsi alla fine labili immagini illusorie, incubi di un sogno angoscioso e dissolto, un film proiettato a rovescio che comincia con la morte e la distruzione e si conclude con quella gente – prima saltata in aria, maciullata o trafitta – alla fine contenta e sorridente, per far capire che la morte, ogni morte, viene prima della vita, non dopo. Cara dottoressa Brooks, le aveva detto una volta, Mosè ha scritto il Pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia, e nel quinto ha narrato la sua morte sul monte Nebo, nella regione di Moab. Dunque il momento della sua morte viene prima del momento in cui l’ha raccontata. Non c’è né prima né dopo, cara dottoressa, il tempo è come lo spazio, si va verso ovest, si continua ad andare verso ovest e si arriva a est del posto da cui si è partiti. A est di Eden...
Glielo aveva detto al loro primo incontro, dopo che la Fondazione aveva deciso di finanziare il progetto del Museo – solo il progetto, per ora, poi si sarebbe visto; intanto tutta quella Babele di oggetti restava accatastata in un paio di grandi rimesse e in un vasto spazio vuoto dello stesso ippodromo. Più che di affiancarlo, le avevano proposto di tenerlo a freno e in riga nel lavoro. Peraltro presto interrotto dalla sua morte e ripreso solo anni dopo, quando in città si era riacceso, a seguito di alcuni articoli d’assalto sul quotidiano locale, l’interesse per il personaggio e il suo grandioso disegno – e soprattutto per quei suoi taccuini misteriosamente smarriti – ed erano stati reperiti nuovi fondi. Ma già ben prima della sua morte i loro contatti si erano improvvisamente diradati, lui all’inizio così invadente e appiccicoso non si era quasi più fatto vedere, come se d’improvviso si fosse acceso per qualcosa d’altro. Era strana quell’improvvisa latitanza, anche se le rendeva più agevole e meno ossessivo il lavoro.
Quelle armi credevano, si vantavano, strombazzavano di annientare tutto ciò che capitava loro a tiro, di ridurlo a nulla, e invece loro malgrado solo scaraventavano il soldato, saltato in aria su una mina, dall’altra parte dello schermo, in cui tutto ricominciava e il soldato ritrovava la sua vita che sembrava svanita, la sbornia di ieri con i commilitoni, quella sera sul mare indicibilmente viola dell’altro ieri, una bocca baciata tanti anni prima, le parole storpiate del bambino che incominciava a parlare. Poveri uomini folli che si illudono di uccidere e distruggere; come se uno spegnendo la luce credesse di far sparire per sempre le cose d’un tratto indistinguibili nel buio. Si poteva per esempio, diceva in uno dei suoi taccuini, dapprima proiettare l’immagine dello stanzone con tutti i suoi oggetti, poi mostrare l’immagine di un grande incendio che distrugge tutto e lascia la stanza vuota sinché, riaccese le luci, riappare la stanza con tutte le sue cose, intatta, resuscitata, mai morta. Poteva essere un’idea.
Comunque lui non aveva certo temuto le fiamme, farfalla che non ha paura della luce in cui precipita bruciandosi e nascendo forse veramente in quel momento, più di quando da bruco era divenuta farfalla. Una delle prime volte in cui Luisa lo aveva incontrato, lui, forse per far sfoggio della sua cultura, le aveva declamato ampollosamente in tedesco quei versi di beata nostalgia, «keine Ferne macht dich schwierig, kommst geflogen und gebannt», non ti ferma lontananza, giungi a volo, affascinata; poi, di luce sol bramosa, tu farfalla ti fai fuoco, sei tu stessa la vampata.