1.

Sottomarini usati – compro e vendo. L’inserzione sul «Piccolo banditore» era del 26 ottobre 1963; evidentemente lui – travolto dai debiti, menato per il naso da promesse milionarie di varie amministrazioni pubbliche e perfino di ministeri, strangolato dagli usurai, perseguitato dai proprietari dei terreni e degli hangar dove aveva sistemato i suoi aeroplani e i suoi ponti militari bombardati, si era visto costretto a cercare di vendere qualche cimelio di particolare stazza, ma, nel momento stesso in cui si accingeva a vendere, era stato subito ripreso dalle sue Furie e aveva cercato anche di comperare – non si sa con quali soldi, ma comunque di comperare – sommergibili, Panzer o apparecchi per il dragaggio mine.

Poteva essere l’inizio; l’anticamera del Museo, appena entrati. Sulla parete di fronte all’ingresso un grande schermo nero, increspato da un tremolio indistinto, un rumore d’acqua in sottofondo; la sua faccia appare in quel buio, una fotografia dell’inizio degli anni Settanta. Testa che emerge dalle acque nere, occhi febbrili, furbeschi; righe di sudore, gocce d’acqua scorrono lungo gli zigomi pannonici. In mezzo alla sala, il sottomarino, un U-Boot della Marina imperialregia della prima guerra mondiale, acquistato o procurato chissà come. Sottomarini usati – compro e vendo. Voce pomposa, insinuante. Ricostruita, con un’abile elaborazione di varie registrazioni radiofoniche a Radio Trieste. Un innocuo avviso economico che diventa, grazie alla voce – riassemblata ossia vera, assoluta, non quella casuale e mutevole del momento in cui si parla – un adescamento, la profferta di un ruffiano nell’ombra. Entrare nel Museo come si entra in un night, promesse al neon; può essere una buona idea, pensava Luisa. Anche se mancava il clou, l’attrattiva più ricercata e chiacchierata, quei famosi taccuini. Un mistero iniziatico, privo del dulcis in fundo, la spiga di grano che consacra l’adepto.

La famiglia, in proposito, era stata chiara, in quella lettera inviata al direttore del «Corriere Adriatico» e pubblicata con grande rilievo. «...Ci consenta, quali suoi eredi, di esprimere la nostra meraviglia e il nostro disappunto per il trafiletto pubblicato il 12 marzo scorso sul vostro giornale. Non riusciamo a capire con quale diritto e quale autorità si possa annunciare che anche i suoi diari – migliaia di fogli divisi in quaderni numerati, con vari richiami e integrazioni – saranno sistemati, insieme a tutto il vastissimo materiale bellico, in quel Museo dedicato alla documentazione della guerra per esaltare la pace, Museo che, con una di quelle sue fantasiose ma sempre ragionate immagini, lui aveva deciso di chiamare “Ares per Irene”, il dio della guerra che si fa apostolo di pace. Siamo i primi a rallegrarci che la Fondazione creata dalla Provincia e dal Comune abbia deciso di allestire il Museo, sogno al quale lui ha dedicato la vita, ristrutturando le palazzine, le scuderie, le autorimesse e lo stesso spazio erboso – circondato dalla pista e adeguatamente ricoperto – del vecchio ippodromo. Speriamo che stavolta finalmente il progetto vada in porto; è una vita che se ne parla e si fanno programmi e promesse, una vera storia di Sior Intento. Ma per quanto riguarda quei diari, essi sono e rimangono di nostra esclusiva proprietà, in quanto eredi, anche se cavillose e per noi incomprensibili vicende burocratico-giudiziarie hanno momentaneamente sottratto di fatto una loro parte al nostro possesso, ma non al nostro diritto di disporne nel modo che riterremo opportuno, sempre beninteso nell’interesse non già nostro, bensì della cittadinanza, della collettività, dell’umanità, seguendo il suo esempio, l’esempio di un uomo che alla sua missione, al suo ideale, al suo grandioso disegno ha sacrificato tutto, carriera, averi, salute, il benessere della sua famiglia e infine la vita stessa.

Siamo pronti, ancora una volta, a donare, a cedere tutto – perché il patrimonio morale del Museo è di tutti – a mettere a disposizione di tutti quei cannoni, sottomarini, carri armati e armi d’ogni genere che lui ha raccolto per decenni per documentare gli orrori della guerra e la necessità della pace. È uno scandalo che per anni nessuna istituzione pubblica abbia provveduto a trovare un ambiente adeguato in cui sistemare il Museo. Ma per ciò che riguarda i diari in generale e in particolare quelli fra essi che sono stranamente spariti, così ricchi di materiale prezioso ma anche scottante, come del resto è stato più volte detto proprio sul “Corriere Adriatico”, siamo certi, egregio Direttore, che il Suo giornale, consapevole dell’importanza e della delicatezza della questione, non...»

Anziché nella rubrica delle lettere, il giornale l’aveva pubblicata in terza pagina, trasformandola in un bel taglio basso, con titoli e sottotitoli bene in evidenza. Non era strano che volessero ancora una volta montare un po’ il caso. Quella storia faceva sempre effetto, specie dopo il processo, che, come accade di frequente nei processi, aveva lasciato le cose più dubbie di prima. Luisa mise da parte il giornale, che aveva posato su un pacco di quaderni, taccuini, fogli, schede, CD, DVD su cui stava lavorando, per disporre e se necessario integrare le note abbozzate da lui stesso che avrebbero dovuto illustrare ogni pezzo del Museo, con le sue funzioni, la sua storia, quella del suo inventore, della fabbrica che lo aveva prodotto, degli ingegneri e operai che vi avevano lavorato, dell’unità militare cui era stato assegnato, della battaglia in cui era stato squarciato, di chi lo aveva guidato o puntato o caricato o era morto fra i suoi rottami. Quell’apparecchio per il dragaggio delle mine di mare pensava per esempio di sistemarlo accanto al raddrizzatore di vapore di mercurio; le pareva facessero coppia assieme, morte subacquea e morte fra esalazioni di vapori, morte procurata evitata o differita, a seconda, ma sempre morte. La morte si addice ai musei. A tutti, non solo a un Museo della Guerra. Ogni esposizione – quadri, sculture, oggetti, macchinari – è una natura morta e la gente che si affolla nelle sale, riempiendole e svuotandole come ombre, si esercita al futuro soggiorno definitivo nel grande Museo dell’umanità, del mondo, in cui ognuno è una natura morta. Facce come frutta staccata dall’albero e poggiata recline su un piatto. Anche se invece lui, proprio su questo punto...

Luisa si rimise al computer, nell’ufficio che le era stato assegnato quando la Fondazione le aveva dato l’incarico di elaborare il progetto del Museo. Non più di una stanza, sia pure ampia, ricavata da una delle scuderie. Le piaceva, quella stanza in mezzo a tanti grandi spazi vuoti. Da una delle finestre vedeva alcuni pezzi già provvisoriamente sistemati nello stanzone adiacente. Oblungo, vagamente cilindrico e verdastro, l’apparecchio per il dragaggio delle mine assomigliava a un lamantino, a qualche creatura marina che si muove goffa ma silenziosa a colpire la preda. Fuori, nella sera, i rami di una quercia investiti dal vento si protendevano verso la sua finestra come artigli, tentacoli uncinati balzavano dal buio nella luce del lampione e rientravano oscillanti nell’ombra, la preda mancata, chissà ancora per quanto. Luisa rabbrividì, per un attimo le parve di sentire gli anni come una colonna d’acqua scura che martellava le tempie, un’emicrania che la faceva assurdamente pensare all’amore – o forse alla sua fine, tanto per lei era stata quasi sempre la stessa cosa.

Quella piega vicina alla bocca, che del resto in genere piaceva, non era proprio una ruga, ma lei la sentiva ogni tanto come una cicatrice. Un bacio, un morso – sto diventando anch’io come lui; a furia di leggere le sue carte sino a confondermi con lui e di occuparmi delle sue mitragliatrici e delle sue spade, adesso poi che ho preso l’abitudine di portarmi anche a casa, la sera, un po’ di quelle carte e di quelle fotografie per studiare come sistemarle finché mi viene sonno, finirò per credere anch’io che tutto sia solo guerra e ogni segno una cicatrice. Fece scorrere lievemente un dito sulla lama di una delle spade appoggiata provvisoriamente alla parete; la riga che lasciava sulla pelle era nitida ma spariva presto.

Lui, nonostante quella sua fine orribile, era probabilmente ignaro di quelle cicatrici che ogni cosa lascia nel cuore; forse non sentiva quel ringhiare della vita nel buio e non vedeva quel buio, tutto preso com’era a guardare per terra, a scavare, a cercare e a raccogliere quegli oggetti insensati, monossili, schegge di granate, gavette ammaccate, cornette da campo, bossoli schiacciati, spolette. La sua torcia, di notte, illuminava solo il terreno smosso, le buche dissestate, i fondi delle doline, un elmetto arrugginito nell’erba.

Così aveva attraversato la sua notte, fatto a pezzi ma indenne, felice di quelle cose fredde e morte che disseppelliva dalla terra o si faceva regalare da eserciti in rotta o da cantieri in disarmo, senza accorgersi della vita che frusciava intorno a lui come a tutti, minacciando morte e rovina – non la buona morte già morta che non fa male a nessuno, ma il vivo e continuo morire del corpo e del cuore, la luce sempre più fioca nell’anima, il freddo nelle ossa, più micidiale delle fiamme che l’avrebbero avvolto nell’ultima sua ora, in quella lunga comoda bara che si era scelto per dormire in quel capannone insieme ai suoi carri armati, lanciamissili e yatagan ammassati confusamente, quei ferrivecchi di tutte le guerre che erano le pietre miliari della sua esistenza, quel tank accaparrato nel 1945, quel tender del 1947, i frammenti e le strutture del girevole e demolito Ponte Verde, posticcio confine tra il Canale e il mare. E lui, solo con la sua bara in quel suo magazzino zeppo di armi che attendevano il Museo e in cui era divampato l’incendio. Il suo regno; suo perché disabitato, evacuato da tutti i vivi che impediscono la pace perché per vivere hanno bisogno della guerra, anche a casa, in famiglia, a letto – talvolta, pensò Luisa, prendendo gli appunti per quell’apparecchio antimine, quando ci si sveglia un po’ presto, al mattino che appena si intravede scialbo dietro le persiane, si spia da un cuscino all’altro, come da una trincea, il compagno addormentato. Non ci sarà alcun attacco, ma si è all’erta, nella vaga attesa del fuoco. Quando a scuola aveva dovuto studiare la guerra dei Trent’anni, aveva pensato subito alla famiglia. Non alla sua, anzi... ma così, in generale. E quanto a lei, non aveva ancora capito se era un bene o un male non averne una propria e perché a pensarci si sentiva per un attimo il cuore vuoto.

Lui si addormentava nella sua bara, non ancora morto ma tranquillo e sereno come se lo fosse già, come adesso, che sto frugando nelle sue carte come se fossero la sua polvere, cenere di carne bruciacchiata che solo gli investigatori avevano potuto distinguere, quella notte – anzi il mattino dopo, quando i pompieri, dopo molte ore, avevano spento l’incendio – dalla cenere del legno della bara bruciata con lui. Forse aveva avuto paura del morire, ma non certo della morte; fra quelle jeep, baionette, sciabole e bandoliere si sentiva sicuro come fra le statue e le lapidi di un cimitero, dove la spada, brandita da un cavaliere di marmo che veglia su una tomba, non si abbassa mai violenta a colpire. Aveva scritto, dicevano, pure al presidente degli Stati Uniti, chiedendogli il sistema di puntamento Norden che aveva sganciato la bomba a Hiroshima.