STORIA DI LUISA I

Amore ed emicrania... Il primo, talora poteva essere difficile avvertirlo in sua madre, chiusa e selvatica com’era. L’emicrania era certo più visibile. Piombava sul volto di sua madre e lo stringeva come una preda, facendole tendere indietro la pelle della fronte. Spesso. Per esempio, era accaduto quando Luisa aveva cominciato a chiederle, con la petulanza dei bambini, di raccontarle della nonna Deborah, che – aveva sentito dire – per nasconderla aveva rischiato tutto. Era l’ultimo anno di guerra, quando i nazisti padroni di Trieste infuriavano sempre più nella città già fedelissima agli Absburgo e già italianissima e divenuta Adriatisches Küstenland. Glielo aveva detto zio Giorgio – prozio, per l’esattezza – una volta che erano soli e lui aveva cominciato, con uno strano imbarazzo e insieme un’evidente, acre voglia di parlargliene, a raccontarle come nonna Deborah – nonno Daniele era morto molti anni prima, prima ancora delle leggi razziali – fosse passata con la figlia (Sara aveva quattordici anni) attraverso le linee tedesche, chiedendo perfino spavaldamente riparo dalla pioggia in una baracca di soldati della Wehrmacht che sorvegliavano la strada e riuscendo così a raggiungere la campagna di Salvore, sulla punta dell’Istria, e quella famiglia che aveva accolto e nascosto la bambina. La famiglia della vecchia Anna, che era stata domestica a casa loro – era lei, solo lei che riusciva a farti mangiare e dormire quando eri piccola, aveva detto la nonna a Sara. Mamme si nasce, aveva aggiunto, come si nasce poeti. Tua nonna ha salvato tua madre, aveva detto zio Giorgio, e dunque è anche a lei che devi la vita, non dimenticarlo. No, aveva ripetuto con una strana ostinazione dolorosa, non dimenticarlo.

In quella casa della vecchia Anna in mezzo ai prati e ai boschi in riva al mare, non lontano da Salvore, dall’altra parte del golfo di Trieste, Sara – le avevano detto che da quel momento non si chiamava più Sara, ma Laura – aveva pianto quando sua madre se ne era andata. Andata per sempre, questo però allora non poteva saperlo. Ma poi sono stata felice. Si era lasciata andare a dirlo, ricordava Luisa, solo molto più tardi, anni dopo; era stata l’unica volta che ne avevano parlato e si era presto interrotta, mentre il viso, alla fine di quella breve frase, si stringeva e si spegneva, una pietra rosata dal sole da cui i raggi si ritirano come lucertole. Felice finché era rimasta là, perché dopo, quando era tornata a Trieste alla fine della guerra, era un’altra ad aver continuato a vivere, un’altra con cui non aveva quasi niente in comune. Per quanto tempo, felice? Fra quel mare e quel cielo era difficile, impossibile contare il tempo; c’era sempre solo un giorno, un’ora d’estate. Sì, felice. Felice e ignara.

Ignara di cosa? Non solo della guerra – come avrebbe capito più tardi; non solo della morte nell’aria, della feroce stretta del mondo. Il mare è blu, una luce abbagliante; quando riverbera nella vampa del meriggio il suo splendore acceca, è un buio in cui non si vede nulla come nella notte. Tre apostoli seguono Gesù sul monte – la vecchia Anna aveva servito tanti anni in casa di ebrei, ma non per questo aveva messo da parte la sua fede cattolica e contadina, inestirpabile come una radice nodosa, e tutte le domeniche, salvo quando bombe e cannonate erano troppo vicine, aveva portato Sara, no, Laura, a messa, a pregare e ad ascoltare prediche e letture – tre apostoli seguono sul monte Gesù che risplende come il sole, una nube lucente così candida e così luminosa che essi quasi non vedono più nulla. Anche Sara, nel luccichìo del mare, non vede più nulla. Non vede le cose, non vede la morte che matura in quel barbaglio come un fico molle e sanguinoso; in quel fulgore, per un istante – per un lunghissimo istante – tutto è perfetto e felice. La bambina corre sulla spiaggia, sola o con altri bambini, gabbiani spaventati si levano a volo dall’acqua e spariscono in quella luce in cui tutto scompare, le onde si rompono bianche sugli scogli e si vede solo il bianco del loro frangersi – un grande sorriso felice di tutto, anche del pesce che sussulta squarciato da un altro più grosso.

Oltre, dietro o sopra quella luce e quell’acqua fuse in un unico tremolìo, si combatte, si spara, si uccide; si muore, si brucia la gente nella città oltre il golfo; si è soli in un’immensa paura, bambini nella notte sotto fulmini e tuoni, ma su quel mare tutto questo non lo si sa, non lo si sente, non c’è. C’è solo la felicità dei piedi nudi nell’acqua presso la riva, la marea che si ritira lasciando sulla sabbia qualche candida conchiglia, meravigliosa tomba vuota; qualche piccolo granchio corre verso il mare in ritirata, un soldato rimasto sperduto che insegue il suo reggimento in fuga e viene falciato nella sua corsa. Anche giocare crudelmente col piccolo granchio, schiacciarlo, è solo felicità e piacere; Sara sapeva pure aprire i ricci di mare ancor vivi senza ferirsi con i loro aculei per gustare la loro polpa succosa, così buona in bocca, anche se talvolta si mescolava a un po’ di sangue delle labbra che avevano morso una spina rimasta nascosta.

No, a far finire tutto non era stata solo la brusca fine dell’infanzia ignara della violenza e della vita, ossia della morte, quando, terminata la guerra, zia Nora e zio Giorgio erano venuti a riprenderla e a riportarla a Trieste. Doveva essere qualcos’altro a solcare con la trafittura improvvisa dell’emicrania il viso della madre e a scolpirlo in quell’espressione cupa e smarrita, che la rendeva straniera a Luisa; quel tic della pelle della fronte che si striava indietro scomponeva il volto, come un sasso scompiglia un volto riflesso nell’acqua.

Era stata la fine di un’altra ignoranza a cancellare nel cuore di sua madre il grande blu di quella baia, dove era vissuta senza poter immaginare che esistessero nel mondo altre cose che quel blu, quell’odore di salso e di pini, quella felicità. Quando gli zii erano venuti a prenderla – alcuni mesi dopo la cessazione della guerra, quando con l’insediamento del Governo militare alleato a Trieste e la ritirata della truppa jugoslava la situazione in città, sempre tesa e talora pure violenta, si era comunque almeno in parte normalizzata – Sara aveva capito che non sarebbe stata più felice, mai più; l’aveva sentito senza tristezza, come il riconoscimento di una legge, che certo poteva far male, ma andava accettata, come quando era morto Ciuki, il cane della vecchia Anna, che però non era sparito e non era solo quello che restava di lui sotto l’erba del prato, vicino al muricciolo. Io vado via, ma la baia e il faro e quegli scogli che affiorano come creature marine sono qui; sono, per sempre, e allora tutto è a posto, forse neanche vado via dalla baia come mi sembra, vado solo da un’altra parte della baia, tutto è la baia e tutto è nella baia.

La vecchia Anna aveva pianto ancor più di lei, che stringendola si era sentita ancora di più parte della baia, anche se stava andandosene. Forse anche la mamma – del padre si ricordava appena – aveva pensato Sara arrivata a Trieste e accolta in casa da zia Nora e zio Giorgio, è da qualche parte in quella baia; non fa niente se non la vedo, è come quando giochiamo a nasconderci e neanche Giovanni e Marco – ora Ivan e Marko – riescono a vedermi, come non li vedo io adesso; sono spariti, eppure ci sono. Sapeva che la mamma era morta, anche se solo vagamente; le avevano detto che era morta alla fine della guerra, ancora non sapeva delle persone divenute fil di fumo. Certo non glielo avevano detto subito per non impressionarla, ma avevano sbagliato. Avrebbe saputo e sentito lo stesso che la mamma era nell’aria, che era l’aria intorno a lei, come una volta era stata l’acqua, il mare in cui lei nuotava. Soltanto più tardi, quando aveva chiesto qualche notizia, qualche dettaglio, quelle acque materne avevano cominciato a disseccarsi ed era iniziato quel mal di testa. Quello che più tardi è divenuto anche il mio, pensava Luisa.

In casa di zia Nora e zio Giorgio non si sentiva parlare quasi mai di nonna Deborah. Giusto una parola ogni tanto, quando Sara lo chiedeva con insistenza e non si poteva farne a meno. Aveva chiesto una fotografia da mettere sul comodino o sulla credenza e dopo un cercare e tergiversare gliene avevano dato una; non un ritratto ma una foto di gruppo in montagna, Deborah con tre o quattro amiche, una piccola fotografia che si doveva guardare con attenzione per distinguere un volto dall’altro e riconoscerlo. Forse è giusto, pensava la bambina ormai quasi ragazza, che non si parli, che non si voglia parlare della morte, di quel fumo che usciva ogni tanto dal camino della Risiera, di cui aveva saputo qualcosa, perché se non si smette di parlarne si continua a respirarlo, si finisce per respirare solo quel fumo senz’accorgersene, e per morire, almeno dentro di sé, come si legge ogni tanto di qualcuno morto per le esalazioni di una stufa.

Anche a Luisa pareva ogni tanto di sentire quell’odore che aveva ossessionato sua madre, una zaffata che non sapeva da dove arrivasse – forse dall’altoforno della Ferriera, il vecchio corrusco impianto siderurgico in faccia al mare, verso Muggia, che produceva ghisa; da quel fumo della combustione di carbon coke a contatto degli ossidi di ferro che, dicevano ogni tanto i giornali, era stata causa di morte per più di un operaio. La Ferriera non era lontana dalla Risiera. Certo, a differenza di quest’ultima, quelle morti erano state un effetto collaterale, inevitabile peraltro, come avrebbero più tardi spiegato, per l’occupazione e il benessere della città. Talora quel tanfo presto dissolto le sembrava provenisse da dentro di lei, un alito cattivo del cuore. Ma doveva pensare al lavoro. Uno dei prossimi pezzi da sistemare sarebbe stata quell’ascia dei Chamacoco, poca cosa rispetto a un cannone anticarro o a un lanciafiamme, ma quando spacca una testa...