37.

Sala n. 19 – Sotto la scritta cubitale «cimici e imperi. lunga vita al führer», una spada della guardia del corpo dell’arciduca Massimiliano ovvero Massimiliano del Messico. Lama d’acciaio e alpaca, guaina di cuoio, legno e ottone argentato. Lunghezza tra i 95 e i 105 centimetri. Sulla spada sono incisi il monogramma M1, lo stemma dell’imperatore del Messico e la scritta «B.W. Ohligs-Haussmann k.k. Hof Waffen Fabrikant in Wien».

Nota di suo pugno, a mano sulla pagina strappata da un taccuino, da collocare – sotto vetro – al fianco della spada. «Avrei preferito una spada della sua guardia nel Castello di Miramare, quando era un grande arciduca ricco di futuro e non un piccolo imperatore morituro. Non perché le spade che salutavano l’arciduca siano più belle di quelle che proteggevano l’imperatore, ma perché a Miramare non uscivano mai dal fodero se non nelle cerimonie. Non spargevano sangue – belle e inutili, così devono essere le armi, come quelle dei soldatini di Popel – mentre in Messico dovevano alzarsi e abbassarsi a colpire, invano, come sempre.

Perché non ha ascoltato quello che canticchiava la gente a Trieste, quando sono venuti a offrirgli la corona? Massimiliano non ti fidare / resta al Castello di Miramare. / Quella corona di Montezuma / è un nappo gallico pieno di schiuma. / Del timeo Danaos or ti ricorda / sotto la porpora trovi la corda... Poteva darla a me, quella corona, avrei messo anche quella nel Museo. Se tutti mi dessero le loro armi, se tutte le armi del mondo fossero nel Museo, il mondo sarebbe in disarmo, sarebbe finalmente la pace. Ma occorrerebbe un grande Museo, grande come il mondo...»

«Noi proclamiamo dunque, nell’ora del massimo pericolo, la nostra fede nel Führer, Heil Hitler, Sieg Heil, Heil
Hitler!» Il Commissario supremo Dr. Rainer già Gauleiter della Carinzia e della Carniola Superiore si asciuga la fronte, strofina la mano sudata sui pantaloni. Anche il Führer fa spesso questo gesto, quando parla alle folle; è difficile dire se per Rainer si tratti di un’imitazione voluta e consapevole o di un meccanismo spontaneo. Entrambe le cose, probabilmente. Anzi, la stessa cosa. L’imitazione è un processo fondamentale nell’evoluzione; una scimmia imita un’altra che ha saputo cogliere un frutto difficile da raggiungere, ripete il gesto finché il gesto è suo, la sua natura. Così nasce, no, diviene l’homo sapiens. O insipiens, dipende. Il sudore è universale, ma c’è sudore e sudore. Andrebbe studiata, la loro varietà.

C’è un sudore nazista; frigido, diverso da quello bolscevico, dal suo greve odore umano di lunghe marce senza biancheria di ricambio. Diverso pure dal sudore di quelli messi al muro – di molti, non di tutti, perché non tutti sudano in quel momento. Franz Jägerstätter, per esempio, quando lo hanno decapitato perché la sua coscienza di cattolico non gli permetteva di essere un soldato del Terzo Reich, pare non sudasse. Era fresco, tranquillo. Scocciato, certo, di morire, incazzato, ma non isterico né impappinato; se sua moglie fosse stata là, vicino a lui, e se ne avesse avuto la possibilità, probabilmente avrebbe fatto l’amore con lei come sempre e niente male, come l’aveva fatto in tutta la sua vita, tra l’invidia dei suoi compaesani. La fede, sta scritto, muove le montagne; certo muove le surrenali.

L’ora è seria, difficile, dice il Commissario supremo leccandosi e inghiottendo qualche stilla che gli sgocciola in bocca dalla fronte e dalle guance. Il sole entra dalle finestre nella Sala delle udienze nel Castello di Miramare, la più adatta per questa grande occasione, con le effigi dei grandi sovrani e gli stemmi dei paesi della Corona absburgica sul soffitto a cassettoni. Il grande lampadario di Boemia si accende, un bagliore latteo, la mia pelle candida come le magnolie di Miramare, diceva l’imperatrice Carlotta; nevischio del tempo, la luce accende di rosa le braccia di cristallo, nobile sangue guasto di secoli e di febbri di mare malsano. Perle di champagne luccicano e tremolano nei calici rabescati, più diafani e fragili dell’aria, che forse Massimiliano non ha fatto a tempo a levare ma che ora si levano per il compleanno del Führer, 20 aprile 1945.

Grandi mazzi di jacaranda blu e viola nel Castello di Chapultepec dipinto nel quadro sopra la porta, la vecchia residenza messicana dei viceré affrescata e ristrutturata da Massimiliano, ignaro di avviarsi alla fucilazione a Querétaro, nel desiderio di farne una copia di Miramare – Miravalle, voleva chiamarla – e preparando invece inconsapevole una prigione, la prigione che quel Castello sarebbe divenuto più tardi – molto più tardi della sua morte, ma molto prima della morte di Carlotta – per altri vinti, non meno sventurati di un imperatore. Amava quelle jacaranda, l’improvvido e generoso imperatore, quando nei giardini di Chapultepec giaceva con la sua bella india odorosa di muschio e la sera precipitava su di loro in una cascata viola e blu subito scura. I fiori di jacaranda sono viola e blu; i semi, tanti semi, cadono a terra e sono presto un folto tappeto erboso, un letto che sprofonda. Un’onda passa fra i rami del grande albero, lucenti fronde verdi e cupi fiori violacei fluttuano nel vento caldo, creste e spume di marosi della notte sulla tavola imbandita nella Sala delle udienze. La luce del lampadario si spezza in tanti riverberi e riflessi; guizzi d’oro rosso fra le bottiglie e i bicchieri, barbagli fra le posate e le gelide coppe di cristallo.

A Chapultepec l’oscurità della rapida sera era invece tenera e accogliente, come il grembo della donna. Notte infuocata, la lava del Popocatépetl e dello Iztaccíhuatl – i vulcani che è così bello guardare nella lontananza azzurro cupa dal balcone imperiale del Castello – già ribolliva rossa e ardente, marea di sangue che sale dal cuore del popolo oscuro e martoriato che vuole martoriare chi è venuto a succhiarlo senza neanche accorgersene, onda sanguinosa che sommergerà gli stanchi conquistatori arrivati ancora una volta dal mare ma stavolta più per morire che per uccidere.

Qualche notte d’amore, una grande noche triste ma senza riscossa né riscatto; non sarà Montezuma a morire ma il Conquistador troppo nobilmente illuso per abbattere e costruire imperi. A Querétaro lo aspettano le pallottole ma soprattutto le cimici, quella razza di cimici che vive solo là, Cimex domesticus Queretari, è una sua scoperta, naturalista esperto ed entusiasta com’è, appassionato di insetti, lumache, ragni e millepiedi.

L’ha scoperto e classificato poco prima di esser fatto prigioniero, quel Cimex domesticus Queretari, durante la battaglia e nel fischiare delle pallottole, spiaciuto di non avere con sé dei flaconi per conservarlo e portarlo a casa, alla reggia, e aggiungerlo alla sua collezione. Chissà se erano le stesse cimici che avevano impedito a lui e a Carlotta di dormire in quella prima loro notte messicana nel Palazzo imperiale. In ogni caso, le avrà ritrovate di nuovo a Querétaro, probabilmente un attimo prima dell’esecuzione, perché le cimici preferiscono il sangue dei vivi.

Animale da battaglia, la cimice. Grosso corpo nero appiattito in senso dorso-ventrale, profilo ovale oblungo. Il torace rivela due espansioni laterali del pronoto. Antenne composte di quattro articoli, i due terminali sottili e allungati; tentacoli prensili e affilati, zampe di una scavatrice che squarcia e afferra i frantumi di ciò che ha squarciato. Un carro armato nero ultramobile, ottimo per gli scontri fra le brughiere, come il T-34 sovietico, e soprattutto sui pendii. La cimice si arrampica, se necessario sino al soffitto; perfora la pelle con due aghi, uno per estrarre il sangue l’altro per iniettare la propria saliva anticoagulante e anestetica. L’effetto sul nemico può essere talora ritardato, cosa che accresce la sua potenza e la sua efficacia, perché coglie di sorpresa, quando si pensa di non essere sotto attacco. La puntura può provocare ansia, stress e insonnia, armi potenti per abbattere un nemico; pelle giallastra e arida come un deserto, da cui anche grattandosi ferocemente non esce quasi più sangue. 108 famiglie di cimici divise in 22 generi. Terminologia militare della classificazione scientifica: Coorte-Exopterygota, Subcoorte-Neoptera, coorti e manipoli agili nell’assalto...

Cimici, roba da selvaggi e da miserabili mezzosangue, come tutti i cenciosi messicani, pensa il Commissario supremo ricordando qualche libro che ha letto in fretta preparando il suo discorso. Non è un caso che quando il Führer è entrato trionfalmente a Vienna trasformando l’Austria, con tutte le sue grandezzate e le sue promiscuità bastarde, in una qualunque noiosa Marca Orientale, solo il Messico ha protestato. Bella buffonata fare la voce grossa da quelle catapecchie che si sentono protette dall’oceano. Quelle cimici che hanno tanto tormentato Massimiliano è così facile, per un popolo civile, eliminarle – come gli zingari, che a differenza degli ebrei non sono sempre lì a strillare. La disinfestazione è facile, anche con quegli sporchi contadini che si fanno mangiare vivi dalle loro cimici, come l’augusta coppia imperiale, del resto.

Notti a Miramare, a Chapultepec. Allora il tempo era diverso – anche il tempo dell’incedere della morte e della follia, morte dell’imperatore del Messico, generoso e vacuo Walzerkönig, e follia della sua sposa, folle perché sopravvissuta al suo mondo e dunque al mondo. Sopravvivere è follia, l’ultimo uomo sulla terra distrutta sarà folle, avrà solo sé stesso e dunque nulla se non il proprio delirio. Allora il tempo aveva un altro odore, forte, inebriante, dolce, anche velenoso; l’odore della carne, del fiore rosato che si apriva fra le cosce dell’india amata dal nobile e ridicolo imperatore, nobile uomo e ridicolo imperatore.

Ora il tempo, in quel 20 aprile 1945 a Miramare, ha un afrore diverso – di carne bruciata, di acido prussico. Il Führer ha l’odore della Risiera mescolato a un odore di mandorle amare, di buon cianuro di potassio che si effonde per l’aria ancor prima di entrare in gola e chiudere i conti. Dicono che avesse anche altri odori, il Führer sofferente di stomaco e di intestino, ma il Commissario supremo non è il suo attendente né il suo segretario e non avverte quelle povere flatulenze. Non sente neanche il proprio odore – umido, che non contrasta con il brindisi generale per il Führer e con gli auguri per l’estrema, eroica battaglia che egli sta combattendo per salvare l’Europa dai bolscevichi e dagli ebrei. Battaglia che vincerà senza dubbio se gli Alleati, che stanno avvicinandosi a Berlino cui sono già molto più vicini i sovietici, capiranno che per salvare l’Europa è necessario unirsi tutti contro i bolscevichi, anche la perfida Albione, anche l’America in cui comandano gli ebrei – che però non è il caso di ammazzare, basta ammazzare gli ebrei russi, polacchi, céchi, ungheresi eccetera e soprattutto gli ebrei tedeschi – così l’Europa e i suoi popoli saranno liberi.

Tutti i popoli. Infatti leva il bicchiere alla salute del Führer anche il generale Domanov a nome dei cosacchi, che i tedeschi si sono trascinati dietro ritirandosi dall’Unione Sovietica e promettendo loro una patria a risarcimento di quella cancellata da Stalin. Levano con lui il bicchiere il generale Muschitzky che ricorda la lotta dei cetnici serbi contro i bolscevichi, il capitano Janko Debeljak che celebra la fraternità d’armi tedesco-slovena e l’Oberstleutnant Modeschin che testimonia l’amore dei croati per il Führer. Avvoltoi e iene di tutto il mondo unitevi, ignari di essere invece carogne e carcasse il cui fetore sta già richiamando i necrofagi.

La carne del Commissario supremo, che la forca sorveglia dall’alto come un grande uccello e continuerà a incombere su di lui anche quando dopo otto giorni cercherà di scappare, dà già cattivo odore? Ci sarebbero buone ragioni per credere di no, perché il suo discorso non fa una grinza. Ma forse quelle ali spalancate sono solo ancora un po’ lontane, più che per altri, comunque la rotta è già tracciata. Il Commissario supremo stringe le mani ai soldati feriti, agli operai, ai lavoratori, a tutto il personale. Un nazionalsocialista è pur sempre un socialista. Infervorato, non si accorge di quell’odore acido che il sudore gli mette addosso e che induce invece a ritrarsi – sia pure impercettibilmente, educatamente – il barone Economo, che ha appena finito di rivolgere alle autorità tedesche il suo fiducioso ringraziamento, a nome di quell’impresa navale che dà pane a tanti suoi cittadini e che egli guida e presiede. Chi non lo sente invece più che tanto, quel tanfo della Storia, sono quei disgraziati cosacchi, serbi, croati e sloveni, cui il copione rivisto all’ultimo momento ha assegnato la parte di Nibelunghi.

In fondo, parla solo per loro, il Commissario Rainer; per gli unici che lo prendono sul serio e credono alle sue parole e alla libertà dell’Europa minacciata dalla grande Slavia rossa. Anche lui sa che invece il prefetto Coceani non crede neanche a sé stesso quando alza il bicchiere, esprimendo a nome della popolazione di Trieste – pur essa colpita dalla tragedia ma fiduciosa che le due grandi nazioni, Germania e Italia, saranno, unite, all’altezza del compito che la Storia loro affida – l’ammirazione per il popolo tedesco, che aggredito da ogni parte combatte eroicamente, Sieg Heil. Non potrà sorprendersi, il Commissario supremo, pochi giorni dopo, il 30 aprile, quando il prefetto Coceani darà cautamente e sottobanco manforte al podestà fascista Pagnini pronto a sparare dal municipio sulle motozattere tedesche, perché sarà già scappato due giorni prima, ma non si sarebbe sorpreso neanche se fosse rimasto a rischiare eroicamente la pelle, perché sa bene di chi non fidarsi e di chi fidarsi, ovvero di nessuno.

Di qualcuno sì, pensa ascoltando sbadatamente il generale Esposito che esalta i vincoli di cameratismo tra le forze armate della Repubblica sociale italiana e quelle del Reich e il federale Sambo che porge il saluto delle Camicie Nere addirittura in tedesco. Gli unici che credono alla civiltà occidentale difesa dal Reich contro il bolscevismo slavo e asiatico sono quei quattro né tedeschi né latini e neanche francesi o inglesi ma solo slavi, auspicati alleati dell’ultima ora – come egli ha detto poco prima – nella lotta contro il barbaro Est slavo che gli ebrei comunisti scagliano contro l’Europa, la nuova Europa del Führer e di tutti gli occidentali. Sì, il generale e Feldataman Domanov, che con i suoi cosacchi ha seguito Krasnov e la Wehrmacht attraverso mezza Europa per trovare una patria e pensa di averla trovata in Carnia, crede nel Reich e nell’Occidente e ripete il brindisi di poco prima; pure quegli altri tre s’ciavi ci credono e non solo perché comunque non resta loro altro, ma perché morire per il padrone è l’unica consolazione degli ultimi schiavi.

Fa caldo, nella Sala delle udienze, più di quanto il vento che increspa le onde oltre le finestre del Castello vorrebbe far credere. Il Commissario supremo ringrazia; ringrazia pure il generale Sommavilla della milizia territoriale, ringrazia il vicepresidente dell’Unione industriali, leggendo un messaggio del presidente purtroppo assente. Rainer sa bene che sovvenziona equamente repubblichini, partigiani e anche il Comando tedesco – per le spese relative a opere necessarie per la città, si capisce, nessuna manfrina e nessuna corruzione, per questo sono più che sufficienti i denti d’oro, i gioielli e gli altri beni dei deportati. In ogni caso, pecunia non olet e il 20 aprile 1945 si può anche capire che chi ha qualche soldo in tasca – armatori, industriali, costruttori – cerchi di garantirsi in ogni caso il futuro, non per niente Trieste è la città delle assicurazioni.

Il pranzo è servito. È bello mettersi a tavola; mangiare e bere insieme fa sentire più amici. Tedeschi, italiani, cosacchi, serbi, croati, sloveni. La nuova Europa dei popoli. Di tutti. O quasi. Anche se non c’è il presidente dell’Unione industriali – ma è come se ci fosse, con quel suo caloroso messaggio – pazienza, ci sono altri che lo rappresentano degnamente e rappresentano la città. Un saluto, un messaggio, un auspicio; un brindisi tira l’altro, le facce sono lucide e umide, il lampadario riverbera sul soffitto, chiazze di luce sulla tavola come petali di bianche rose spampanate, macchie dorate e riflessi tremolanti del mare entrano dalle finestre e ondeggiano sugli stemmi dei Kronländer, i paesi della Corona del vecchio Impero. Windische Mark Carinzia Carniola Lodomiria Alta e Bassa Lusazia Aragona Illiria. Si scattano fotografie, foto di gruppo. Il flash, uno sparo uno scoppio di fumo bianco, le tende bianche e gialle tremano, fuori dalla finestra gabbiani si disperdono in un riverbero abbagliante di ali bianche, ufficiali tedeschi cantano prima solenni poi un po’ sguaiati. L’aquila bicipite è impagliata e immobile sul soffitto, artigli inutili in quella voliera; solo l’occhio rapace e rigido è un occhio del Giudizio, un giudice imbalsamato ma che ha già espresso un verdetto irrevocabile, Impero del Messico e Reich millenario durati uno poco meno e l’altro poco più dei lavori per costruire il Castello, la follia di Carlotta è durata più di quattro volte tanto i due imperi presi insieme.

Ci si alza da tavola, si passeggia, ci si sparpaglia per le sale. Il sole scende ma fa caldo, il Commissario supremo si slaccia il colletto della divisa, altri ufficiali fanno altrettanto, i borghesi allentano la cravatta. Si sale al piano superiore per lo scalone d’onore, qualcuno anche a fatica per le generose libagioni, c’è chi ficca il naso nella Sala della rosa dei venti e mette ridacchiando il dito nelle buche del biliardo verde. Il Commissario supremo entra nella Sala del trono che Massimiliano non fece a tempo a vedere (né a sedere sopra quel trono) e guarda ottusamente la genealogia degli Absburgo e dei Lorena, l’albero genealogico dipinto da Ede Heinrich; quelle facce quelle parrucche quei cappelli gli dicono assai poco.

Nella Sala dei gabbiani un maggiore delle SS rutta nostalgico guardando dalla finestra il porticciolo e il mare. Anche Globočnik, il caro vecchio Globus, entra nella Sala dei gabbiani, c’è fra le due un passaggio comunicante, e guarda con aria di intenditore il quadro che raffigura il mercato di schiave di Smirne. Fra quelle poppe, quelle cosce grasse, quei languidi occhioni neri si sente sul suo, quasi come alla Risiera. Gli piacciono invece meno quei gabbiani raffigurati nei cassettoni del soffitto, gabbiani in volo che tengono nel becco serpi, no, cartigli con motti latini. Occhi di uccelli cattivi; a guardarli così con la testa girata in alto gli viene quasi un capogiro, magari sarà anche il vino lo champagne e i liquori che gli fanno girare la testa – i gabbiani volano raso terra, curve ali bianche, sciabole taglienti; stridono, i rostri con i cartigli scarlatti volteggiano intorno alla sua testa, lo minacciano sfiorandolo col becco aguzzo. In vino veritas, dice un cartiglio; la verità è dappertutto, tutti la reclamano e la pretendono, il Führer, gli ebrei, il suo amico avvocato Donnenberg di cui non segue i consigli. Un altro gabbiano gli sfreccia vicino, Muneribus vel dii capiuntur, dice il cartiglio nel becco; più che d’accordo, tutto, tutti si possono comperare, co ’na bela mandola se giusta tuto, gliel’ha detto anche il suo amico Marieto, pure gli ebrei lo sanno, e meglio degli altri; qualcuno è riuscito perfino a salvare così il culo e a lui va bene, perché anche le sue tasche ci hanno guadagnato e lui non odia gli ebrei, purché paghino. Non li guarda con l’occhio malvagio con cui quei gabbiani stanno guardando lui; meglio andarsene da lì, nonostante le tette di quel quadro.

Globus se ne va, torna nella Sala delle udienze in disordine, tovaglie e piatti per terra, bicchieri rotti. Il maggiore delle SS, rispettosamente dietro di lui e a debita distanza – lui a Trieste è la più alta autorità delle SS – è rimasto nella Sala dei gabbiani. Il maggiore guarda non tanto i gabbiani quanto il porticciolo e la sfinge, con aria imbambolata. Sente un’aria di ritorno a casa, ma non sa bene dove e per chi; non per lui, per esempio, perché la sua casa nella Prussia Orientale è sparita nel maremoto che la guerra le ha rovesciato addosso, non si può neanche sapere come è finito chi c’era dentro, ma il maggiore si sente appannato, fra lui e il suo dolore per i suoi cari rimasti – o non rimasti, non si sa, le comunicazioni sono così incerte – c’è una coltre di tepida neve, una sonnolenza che lo champagne certo aiuta, ma che non viene dallo champagne; viene da chissà dove, da cunicoli del cuore intasati, che non lasciano passare più niente.

Nelle varie sale e nel parco ci si lascia un po’ andare, come accade nelle feste e come è giusto accada ai soldati; la carne uccisa in guerra e la carne messa a rischio in guerra hanno bisogno di un po’ di carne in libera uscita dall’uniforme sbottonata e soprattutto di carne da palpare senza troppi riguardi. Nell’ombroso parco costruito con tanto anche se poco lungimirante amore da Massimiliano – neri cipressi di Monterey, corbezzoli brunoaranciati del Sud, la sfinge che fissa lo sfingico mare, un’isola dei beati e dei morti – si affonda e si sparisce.

Il leccio piantato da Massimiliano e Carlotta comincia a fiorire, gli amenti pendono goffi e molli; i fiori femminili sono più piccoli, come è giusto, ma fanno delle ghiande dure, mentre quei pomposi maschi enfiati penzolano. Nel folto verdebruno, avanguardia della sera, convitati sazi e brilli palpeggiano qualche giardiniera, kommt eine süsse Taube zu dir geflogen, canticchia qualcuno in tedesco La Paloma. Una colomba bianca come la neve; fiori bianchi di magnolia, la pelle bianca e delicata di Carlotta, quella scura delle indie e delle mulatte nel Messico dev’essere un’altra cosa – fortunati quegli ussari ungheresi, quegli ulani polacchi e quella truppa austriaca che Massimiliano si è portata laggiù; altro che noi, con questi musi duri delle s’ciave, le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera. Le fessure nella corteccia del pino di Sabine – anche lui arrivato qui dal Messico, ma lui almeno arrivato vivo, diversamente dal suo imperatore – si allargano, una spaccatura dolorosa; fiorire fa male, vuol dire invecchiare, sfiorire.

Chissà se le statue, sotto sotto, non fioriscano – ossia avvizziscano – anche loro in qualche modo, vene di marmo lentamente più rigide poi forse più friabili, candide braccia che si screpolano, in fondo anche la pietra invecchia e un giorno andrà in polvere, pensa il grasso capitano bavarese, in tempo di pace insegnante al liceo di Freising. Per fortuna ci sono le copie, come quella dell’Afrodite di Capua vicino al bar del parco o della Venere dei Medici là su quella colonna. Una copia è il lifting dell’originale. Meno interessante, certo, ma più fresca, più appetitosa, con meno sfregi del tempo. Strofinarsi alla Venere di Milo... Porcherie, d’accordo, pensa il capitano professore, ma se aiutano a tirare avanti anche con la morte addosso...

Comunque, a parte le statue e le cameriere e le giardiniere, c’è anche qualche consorte altrui pur sempre controllata ma non troppo che passeggia fra le araucarie verde cupo, Araucaria araucana, alta e slanciata. Bella bocca dura delle signore di queste parti, come quelle venute alla festa con i loro autorevoli mariti. Bocche capaci di mordere avidamente – è comprensibile, in guerra c’è carestia di tutto e questo aiuta – ma non di dare un vero bacio, come vorrebbe la materna tenerezza di quell’ombra folta nel parco. I capelli biondi di quella signora che si appoggia al Gingko biloba scendono sul suo viso, una cascata dorata come alla fioritura in autunno. Quella chioma d’autunno non la vedrò, pensa il capitano slacciandosi i calzoni nell’ombra e cercando la bocca della signora bionda. Quella bocca si apre molle e vorace, cogli in fretta amor mio la fioritura pria che venga a disfarmi l’uragano, prima che il vento mi porti lontano. L’uragano sta per arrivare, è già arrivato; una tromba marina, un grande vento che si leva a strappare tutti i fiori dai prati e dagli alberi; li disperde, forse li farà piovere su qualche tomba, ci sono tante, tante tombe spoglie su cui deporli. La mano mia si chiude sulle tue spalle ignude – breve, brevissimo matrimonio in tempo di guerra, mezz’ora sotto un Gingko biloba, ist es ein lebendig Wesen / das sich in sich selbst getrennt, è una cosa viva che / in sé stessa si è divisa? / sind es zwei, die sich erlesen, / daß man sie als eines kennt, o son due, che hanno voluto che le si conosca come una? Brevissimo matrimonio di guerra, ancor più breve quando la guerra infuria agli sgoccioli ed è finita; eiaculazione precoce sotto quell’albero, unzione degli infermi che stanno per morire. Fra poco saranno uniti tutti e sempre insieme, come i detenuti e i carcerieri nei lager sotto le bombe; intanto quella mano affusolata si infila dentro i calzoni del capitano, unghie rosso scuro che accarezzano e graffiano. Chissà come si chiama; del resto non glielo ho detto neanch’io come mi chiamo, fra i morituri non si fanno presentazioni e poi basta guardare i cartellini con i nostri nomi, devono essere ancora sulla tavola da pranzo.

Il cavalier Righetti, che organizza lo smistamento dei beni razziati nelle case dei deportati, la mano la mette invece nei calzoni del suo autista, un bel ragazzo bravo al volante, che è difficile capire se ne sia entusiasta o meno. Comunque gonna o calzoni fa poca differenza, con l’aria che di giorno in giorno si fa più sfatta. Perfino il mare porta un odore di putredine e non solo nel vallone di Muggia dove il ruscello scarica ossa della Risiera; meduse abbandonate sulla spiaggia dalla bassa marea marciscono, corruzione della carne, anche della propria venduta allo scempio di quella altrui, le mani cercano di dimenticare l’angoscia per la morte, data e attesa, intrufolandosi nelle gonne e nei calzoni di chi capita.

Chissà se è vero che agli impiccati gli si rizza bello duro o se è una pietosa leggenda per mostrare che Madre Natura è anche benigna, Mater dolorosa ai piedi delle infinite croci, ultimo bacio al figlio che muore. Ultimo bacio, ultima cena al condannato, ultima sigaretta; quando c’è, ultima sniffata di cocaina. La botola si apre, i piedi perdono di scatto l’appoggio, il midollo spinale stimolato traumaticamente manda un estremo fremito di piacere, un nebuloso brevissimo istante, no, neanche, un’incalcolabile frazione in un mare di tempo, un lampo, una tenera guizzante immagine oscena con cui si precipita nel buio. Pietà inutile, come la benda sugli occhi davanti al plotone di esecuzione; meglio sarebbe mostrare un momento prima al condannato quelle foto scollacciate nei calendari dei barbieri, quelle sì avrebbe il tempo di vederle nei pochi secondi fra l’ufficiale che si allontana dopo avergli messo la benda e la scarica dei fucili. Pochi secondi sono tanti; un tempo lunghissimo, il film di tutta la vita, compresa quella dalla cintola in giù. Ma con le donne, come la mettiamo con quella storia dell’orgasmo finale? La vertebra che si spezza manda un segnale pure al clitoride, risveglia le larve dei ricordi nascoste nella peluria come piattole? Sarebbe giusto, ma pare non sia così. Un altro sopruso nei confronti delle donne, discriminate pure con la corda al collo. Anche le donne destinate al patibolo per la loro fedeltà al Reich hanno diritto a questo estremo vibratore. Il Reich non è maschilista, onora le donne che vivono e muoiono per il Führer non meno dei loro camerati.

Intanto però, visto che il tempo stringe, il Commissario supremo ha già preparato la macchina per la fuga. Verso la Carinzia, poi si vedrà. Posto che quei grandi uccelli simili a forche che volteggiano sopra la festa non arrivino prima. Globus invece è tornato nella Sala delle udienze. I gabbiani entrano dalle finestre, sfacciati e senza più alcun timore; sfrecciano sulla tavolata divorando gli avanzi, le ali rovesciano candelabri e bottiglie, ancora un brindisi, anche da solo o quasi, Prosit, Heil Hitler. Globus è steso a terra, la ragazza a cavalcioni su di lui – a lui piace così e sembra anche a lei, che gli mette il collo della bottiglia in bocca. Globus respira con affanno; la ragazza gli tappa la bocca e il naso con un tovagliolo, le cosce lo stringono lo succhiano lo strizzano; lui quasi soffoca e così gode ancora di più. Alle ebree della Risiera non ha mai permesso di montargli sopra; peccato, così è ancora meglio e tanto non avrebbero potuto raccontarlo a nessuno. Tutto gira e cade; sopra la sua testa il soffitto si abbassa, gli stemmi del vecchio Impero presi a beccate dai gabbiani si staccano dal soffitto e gli cadono addosso. Siebenbürgen Niederlausitz Widdiner Banat piovono sulla sua testa come tegole strappate ai tetti dalla bora, vanno in pezzi sulla tavolata fra i piatti e le coppe – una vendetta degli ebrei, sono loro che lapidano a morte. C’è anche lo stemma di Auschwitz. Gli piace guardarlo mentre il suo seme schizza; quell’ebrea dai piedi poco puliti deve essere già ad Auschwitz, forse già non più; lui nella Risiera le aveva ordinato di camminare scalza perché gli piacevano quei piedi sporchi.

La ragazza scende sudata dal cavallo, lui si mette a sedere un po’ stordito. Tutt’intorno ombre si alzano si aggiustano si allontanano incerte; dalla finestra gli sembra di vedere il cavalier Righetti mettersi in tasca qualcosa e avviarsi verso la sua macchina. È stanco. Calcat jacentem vulgus, la plebe calpesta chi è a terra, diceva uno di quei cartigli che i gabbiani di quel soffitto tenevano nel becco; ora tocca a me, quei bastardi di ebrei e di banditi vengono fuori dalle fogne per farmi la festa, ma io intanto faccio festa e fotto quanto mi pare. Ha voglia di una doccia; nella caserma della Hitlerjugend la si faceva tutti insieme e tutti nudi, grandi pacche sulle spalle, sul petto e sul sedere. Sotto la doccia si mandano gli ebrei, sarebbero capaci di scopare pure là, con loro non si sa mai. Righetti, comunque, dovrebbe consegnare al comando ciò che si è messo in tasca. Non vorrei che...